Torniamo a parlare di Hong Kong, perché continua a stringersi il controllo della Cina e per la prima volta il principale partito pro democrazia del paese non potrà partecipare alle elezioni. Hong Kong è un territorio autonomo nel Sudest della Cina, che in passato è stato una colonia britannica.
In pratica verso la fine dell’Ottocento Hong Kong e la penisola circostante divennero una colonia britannica, ma con l’accordo che l’Inghilterra aveva una sorta di comodato d’’uso per 99 anni, dal 1898 al 1997. Dopodiché questi territori sarebbero tornati cinesi.
Con l’avvicinarsi della scadenza, sul finire del secolo scorso Gran Bretagna e Cina hanno iniziato a fare trattative per capire come sarebbe avvenuto quel passaggio e si è deciso che tutta la colonia si sarebbe nel tempo ricongiunta alla Cina, previa un periodo di transizione della durata di 50 anni, che scadrà nel 2047.
Fino ad allora il territorio viene considerato una provincia autonoma cinese, e vige quanto deciso nel primo Accordo Bilaterale Uk-Cina firmato a Pechino nel 1984, in cui la Cina promise che, sotto la formula di “un Paese due sistemi”, il sistema economico socialista cinese non sarebbe stato applicato ad Hong Kong fino al 2047, ma la Cina si sarebbe occupata della politica estera e della difesa del territorio.
Solo che nel frattempo Hong Kong, godendo di un legame privilegiato con gli Stati Uniti e l’occidente ma avendo la Cina accanto è diventato un centro commerciale e finanziario di rilevanza mondiale, ed è successo anche che le persone, o perlomeno alcune di esse, si sono abituate alla democrazia rappresentativa, e non sembrano così convinte di voler tornare sotto la Cina.
Il governo cinese dal canto suo non sente ragioni e continua l’opera di reintegro. Una bella accelerazione è stata data prima con la legge sulla sicurezza nazionale del 2019, che imbriglia molto il dissenso, poi con la pandemia, quando di fatto è stato importato il sistema sanitario cinese e i medici cinesi. Ed eccoci alla “nuova novità”. Leggo dal Post: “Martedì Lo Kin-hei, il leader del principale partito pro-democrazia di Hong Kong, il Partito Democratico, ha detto che quest’ultimo non potrà concorrere alle elezioni locali del prossimo dicembre, per la prima volta da quando fu fondato nel 1994. Lo Kin-hei ha detto che nessuno dei candidati ha ottenuto il sostegno sufficiente per poter partecipare alle elezioni secondo le nuove regole elettorali introdotte dal governo cinese, che negli ultimi anni ha enormemente limitato diritti politici e civili nel territorio di Hong Kong.
Le elezioni di dicembre sono locali, diverse da quelle generali del parlamento di Hong Kong, e servono a rinnovare i consiglieri dei 18 distretti in cui è suddiviso il territorio di Hong Kong. Sono le prime dall’imposizione, nel 2019, della controversa legge sulla sicurezza nazionale, con cui la Cina ha attuato una progressiva repressione del dissenso nella regione di Hong Kong dopo enormi e partecipate proteste a favore della democrazia andate avanti per circa un anno. Alle ultime elezioni, che si erano tenute proprio nel 2019, il Partito Democratico aveva ottenuto una vittoria netta. I consiglieri sono uno degli ultimi organi di rappresentanza politica eletti direttamente dalla cittadinanza a Hong Kong.
Le nuove regole introdotte dal governo cinese prevedono che per poter concorrere alle elezioni ogni candidato ottenga l’approvazione di almeno nove membri dei comitati elettorali locali, nominati proprio dal governo cinese e composti quindi in buona parte da funzionari leali al regime. Il processo di nomina dei candidati è piuttosto lungo, dura circa due settimane, e i criteri con cui i candidati vengono ritenuti idonei a concorrere alle elezioni sono molto rigidi, anche per partiti che formalmente sono più allineati alle posizioni del governo cinese.
Zheng Yanxiong, direttore dell’ufficio di collegamento del governo centrale cinese a Hong Kong, ha detto che a chi «non è un patriota» non verrà permesso di partecipare alle prossime elezioni. Da qui l’esclusione del partito democratico. Insomma, la morsa del controllo cinese si sta stringendo sul territorio di Hong Kong. La questione è certamente delicata e complessa. L’attuale status di Hong Kong è frutto indubbiamente di un passato coloniale che ha occidentalizzato la regione. E ci sono accordi precisi, per cui non è che la Cina sta violando qualcosa, dal punto di vista formale. Al tempo stesso ci sono migliaia di persone, soprattutto studenti e studentesse, che hanno protestato per anni. C’è il principio di autodeterminazione dei popoli, che è un principio cardine. Per le democrazie, non per i regimi autoritari però.
In più, mi sembra di osservare che nello scacchiere geopolitico globale gli Usa, da sempre alleati di Hong Kong, abbiano un po’ abbandonato la partita per giocarsi tutto su Taiwan. Anche perché Hong Kong è soprattutto un centro finanziario e uno snodo delle relazioni commerciali con la Cina. Che però sono sempre meno. Mentre Taiwan ha un ruolo chiave nella produzione di microchip a livello globale, il che è al momento molto più rilevante.
Sempre martedì è successa un’altra cosa rilevante. Il presidente della FIFA Gianni Infantino ha annunciato che i Mondiali di calcio del 2034 si terranno in Arabia Saudita. L’annuncio conferma un’ipotesi che era già stata avanzata con insistenza nei giorni scorsi: la candidatura dell’Arabia Saudita era l’unica certa, e c’era tempo fino a oggi, 31 ottobre, per presentare le manifestazioni di interesse per la candidatura.
Oltre all’Arabia Saudita gli altri due paesi molto citati che avrebbero potuto candidarsi per ospitare i Mondiali di calcio del 2034 erano l’Australia e la Cina: l’Australia aveva valutato la possibilità, ma proprio martedì aveva fatto sapere di aver deciso di rinunciare alla propria candidatura.
La settimana scorsa la FIFA aveva annunciato l’organizzazione condivisa dei Mondiali di calcio del 2030 tra sei paesi (Marocco, Portogallo, Spagna, Argentina, Uruguay e Paraguay) e quindi, per la prima volta nella storia del torneo, tre continenti (Africa, Europa e Sud America). Le uniche due confederazioni a potersi candidare per il 2034 erano quindi quella asiatica e quella oceanica (Nord e Centro America ospiteranno invece l’edizione del 2026, fra Stati Uniti, Canada e Messico).
Leggo sempre dal Post: “Tra i motivi per cui l’Arabia Saudita era data per favorita c’era anche una recente modifica ai requisiti per l’assegnazione. Attualmente la FIFA chiede ai paesi candidati quattordici stadi idonei con almeno 40mila posti a sedere, sette dei quali già esistenti o in costruzione al momento della candidatura. Nel 2034 di stadi esistenti ne basteranno però quattro, che è esattamente il numero di impianti che l’Arabia Saudita riuscirà a soddisfare (due dei quali verranno ristrutturati e un altro è in costruzione)”.
Ora, l’articolo del Post si limita, correttamente, ad enunciare i fatti in maniera molto neutra, senza però fare il passaggio successivo. Giusto, bravi, è deontologicamente corretto, questa volta però devo dire forse un passetto in più possiamo farlo, pur senza prove a supporto di quello che sto per dire. Ci sono un po’ di coincidenze molto sospette in questa assegnazione, con la Fifa che nel giro di poche settimane comunica due assolute novità, che di fatto rendono l’Arabia l’unico candidato possibile.
Prima coincidenza: la modifica al regolamento che dimezza il numero di stadi idonei all’assegnazione, che diventano 4, guarda caso proprio il numero di stadi dell’AS.
Seconda coincidenza: il torneo del 2030 si terrà in 3 continenti diversi, per la prima volta nella storia, e quindi, anche se gli ultimi mondiali sono stati in Asia, in Qatar, nel 2036 potranno essere nuovamente nello stesso continente perché nel frattempo sarà stata completata la rotazione prevista dei continenti.
Insomma, diciamo che sembra fatto tutto apposta per fare questi mondiali in Arabia. Paese in cui l’interesse per il calcio è tanto recente quanto ingente, anche in termini di investimenti. Considerate che in un solo anno ha investito quasi 1 miliardo di euro nel suo campionato, la Saudi Pro League, che in questo modo ha attirato alcuni dei più famosi calciatori in attività, come Cristiano Ronaldo, Neymar e Karim Benzema. E oltre a essersi assicurata già da tempo l’organizzazione di tornei come la Supercoppa italiana e spagnola, quest’anno l’Arabia Saudita ospiterà la Coppa del Mondo per club, mentre nel 2027 organizzerà la Coppa d’Asia per la prima volta dal 1956.
Come spiegammo tempo fa, questa enorme operazione calcistica ha una doppia funzione, quella di fare una sorta di sportswashing, quindi cancellare il proprio nome legato al petrolio e ai pochi diritti civili, e quella di vincere la competizione con il vicino Qatar. Ma, come mi faceva notare tempo fa Daniel Tarozzi, è un gioco rischioso, che da un lato può uccidere il calcio, o quello che ne resta, ma dall’altro può stravolgere lo stile di vita e importare modelli culturali occidentali in Arabia, con effetti imprevedibili.
Cambiamo radicalmente argomento, parliamo di rinaturazione. Nello specifico di rinaturazione del Po, e delle difficoltà che i progetti di rinaturazione in atto stanno incontrando. Leggo da un articolo su Greenplanner che “Le direttive europee spingono sempre più per il ripristino degli habitat naturali e della riqualificazione fluviale e naturale del territorio europeo. Sui grandi fiumi europei – Rodano, Reno, Mosa, Danubio, Dordogne, Ebro, Isar… – grazie ai fondi del Next Generation Eu si stanno effettuando interventi per la riqualificazione e il ripristino della connettività. Per il nostro Paese, l’Europa ha già stanziato 357 milioni per un piano di 56 interventi da attuarsi lungo il Po entro il 2026, necessari per ridurre il rischio di alluvioni, ripristinare importanti servizi ecosistemici e garantire la conservazione di habitat naturali e biodiversità, oggi drammaticamente compromessi.
Un progetto che, tuttavia, incontra una fiera opposizione da parte delle associazioni degli agricoltori e di Coldiretti”. L’articolo a questo punto pubblica una lettera aperta di Andrea Goltara, direttore del Cirf – Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale, che mette in luce tutte le contraddizioni, a suo modo di vedere, di chi attacca questi progetti. Ve ne leggo alcuni estratti.
“La rinaturazione del Po è l’unica misura del Pnrr specificamente orientata alla riqualificazione di un fiume e anche, più in generale, alla ricostituzione di sistemi naturali.
Contrariamente agli altri Stati Membri, l’Italia ha destinato a questo obiettivo una porzione molto ridotta delle risorse disponibili, ignorando gli indirizzi della Ue e senza ascoltare la voce di molte imprese che vedono nella riqualificazione ecologica del territorio un fattore essenziale per migliorare l’adattamento al cambiamento climatico e garantire la sopravvivenza delle proprie attività economiche nel lungo periodo.
Anche per queste ragioni, le critiche al progetto appaiono francamente inspiegabili. Al centro della protesta, guidata da Coldiretti e dalle principali associazioni agricole vi è l’accusa di voler mettere in crisi la pioppicoltura padana, con la “revoca di concessioni in atto ed esproprio di aree a pioppeto in proprietà o in gestione per più di 7.000 ettari lungo il fiume Po”. Tale denuncia, tuttavia, è infondata. Gli interventi previsti dal progetto, infatti, riguardano il ripristino di vegetazioni forestali e di forme fluviali per poco più di 1.700 ettari e di questi solo il 10%, meno di 200 ettari, è costituito da terreni coltivati, trattandosi in prevalenza di tratti di alveo, di opere spondali e di terreni incolti.
Poi la lettera descrive come gli interventi umani degli ultimi decenni abbiano messo in crisi le funzioni e gli ecosistemi fluviali, rendendoli più fragili. Per poi affermare che “È ormai ampiamente documentato che la riduzione dell’artificialità e il recupero delle dinamiche morfologiche promuove il miglior funzionamento dei sistemi fluviali, sia in chiave di conservazione della biodiversità che di riduzione del rischio di alluvioni. E questo tipo di azioni è ampiamente finanziato in buona parte dei Paesi europei.
Proprio per questo, come specificato dall’Autorità di Bacino Distrettuale del Fiume Po “il progetto di Rinaturazione del fiume Po assume un ruolo straordinariamente strategico per gli equilibri morfologici ed ecologico-ambientali dell’area interessata dal corso d’acqua più lungo d’Italia e insieme agli interventi di difesa idraulica rappresenta una delle misure più importanti della pianificazione distrettuale attuativa delle Direttive comunitarie acque (Direttiva 2000/60/Ce) e alluvioni (Direttiva 2007/60/Ce)“.
Insomma, abbiamo una grossa opportunità per ridare vita e vitalità al più grande fiume italiano, è già tutto finanziato, e rischiamo di perdere questa occasione per seguire logiche politiche e di categoria. Logiche miopi, afferma il tecnico, perché sembra che avvantaggino l’agricoltura nell’immediato, ma la distruggeranno nel giro di pochi anni. Se il fiume muore, anche l’agricoltura muore.
L’articolo si conclude con una stroncatura delle posizioni di Coldiretti e anche del progetto alternativo, recentemente presentato: “Affermare, come ha fatto Coldiretti, che il progetto di rinaturazione “rischia di infliggere una ferita profonda al nostro territorio, all’economia delle nostre terre, alla vita stessa che si è sviluppata nei secoli intorno al nostro grande fiume” non ha alcun fondamento“.
Altrettanto inaccettabile è l’ipotesi di bacinizzazione del Po, nuovamente resuscitata dopo essere stata bocciata già in passato per motivi tecnici, prima che ambientali e ora sbandierata come possibile alternativa alla rinaturazione. Trasformare il Po in una catena di laghi artificiali, come vorrebbe questo progetto, peggiorerebbe ulteriormente le condizioni già critiche di habitat e biodiversità, rendendo le popolazioni limitrofe ancora più esposte agli eventi estremi”.
Il senso, insomma, che condivido, è: abbiamo un’occasione per fare qualcosa di sensato, non sprechiamola per seguire interessi particolari e di brevissima durata. Guardiamo il disegno più ampio. Non ho molto da aggiungere, se non un’osservazione: noto che spesso quando si contrappongono diciamo la gestione di un qualcosa nel nome del bene comune e degli interessi specifici, siamo di fronte a un falso dilemma dettato da un ritardo nel sistema. I sistemi complessi hanno dei ritardi che fanno sì che non vediamo subito le conseguenze delle nostre azioni. Noi possiamo sovrasfruttare una risorsa per decenni e ricavarne molte ricchezze, finché a un certo punto quel sistema non collassa e anche la nostra ricchezza svanisce.
Anche se si perseguono gli interessi specifici di un settore, bisognerebbe avere la lungimiranza di guardare oltre i ritardi del sistema, perché spesso se si fa questo esercizio anche le apparenti contraddizioni si ricompongono.
Dopo quasi dieci anni di silenzio, il subcomandante Marcos, anima e guida del movimento zapatista del Chiapas, in Messico, è tornato a farsi vivo con una lettera nella quale annuncia in maniera, direi, poetica, la sua uscita di scena definitiva.
Il subcomandante Marcos è stato una figura iconica di un certo periodo storico, dei movimenti zapatisti ma anche di quello altermondialista, e questo suo secondo addio mi ha colpito. Non so, forse ci metto del mio, forse questa notizia ha a che fare con la mia giovinezza, non lo so. Ma mi è sembrata interessante. Vi leggo come ne parla Daniele Mastrogiacomo su la Repubblica: “Il Subcomandante Marcos ha annunciato in una lettera la morte del suo secondo alter ego, il sub comandante Galeano. È un nome che aveva assunto dopo aver ceduto le redini dell’Ezln nel 2014 al subcomandante Moisés, primo sostituto della nuova generazione.
Lo scritto, una sorta di poesia che esprime l’indole intellettuale e spesso teatrale del subcomandante Marcos, arriva alla vigilia dei 40 anni dalla nascita dell’Ezln e a 30 dall’inizio della lotta armata. Segna un passaggio di mano verso le nuove generazioni anche se il comando, come dicono molti, appare destinato alle donne, sulla falsa riga di quello che è accaduto con i curdi a cui il movimento zapatista si sono spesso ispirati.
“Il Sub Galeano è morto. È morto come ha vissuto: infelice”, inizia la lettera pubblicata sul portale dell’organizzazione e riportata da El Pais. Mi fermo qua e vi rimando all’articolo se volete approfondire.
Veniamo alla consueta rubrica la Giornata di Italia che Cambia. Oggi do la parola a Paolo Cignini, che ha realizzato il video e scritto l’articolo della videostoria di oggi, e che ce la presenta.
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Oggi è venerdì e quindi è anche tempo di INMR Sardegna, per cui do la parola a Laura Fois che ci racconta gli argomenti trattati in questa nuova puntata della rassegna settimanale sarda.
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#subcomandante Marcos
la Repubblica – Chiapas, il subcomandante Marcos esce di scena con una poesia: “Continuate a combattere”
#mondiali
il Post – I Mondiali di calcio del 2034 si terranno in Arabia Saudita
#Hong Kong
il Post – Il principale partito pro-democrazia di Hong Kong è stato escluso dalle elezioni locali
#rinaturazione
Greenplanner – La rinaturazione del Po è a rischio fallimento
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Italia che Cambia – È davvero necessario? – Io non mi rassegno Sardegna #4
#lagiornatadICC
Italia che Cambia – La Cooperativa Monteverde e il suo bilancio che parla di inclusione ed economia circolare – Io Faccio Così #393