12 Set 2024

Harris – Trump e il conflitto interno al capitalismo Usa – #980

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Nel day after del dibattito presidenziale americano piovono le analisi e i commenti. E allora proviamo ad approfondire un po’ la questione, non solo del dibattito ma in generale di questa campagna, dei due candidati, per capire i loro programmi ma anche i loro finanziatori e quella che sembra essere una sempre maggiore frattura nel capitalismo Usa. Parliamo anche del rogo di pannelli fotovoltaici in Sardegna.

Ieri abbiamo commentato a caldo gli esiti del dibattito fra Trump e Harris sulle presidenziali Usa. I commenti sui media occidentali, in particolare su quelli Usa, sono proseguiti per tutta la giornata di ieri e proseguono anche oggi. Il giudizio comunque è pressoché unanime, Harris ha vinto il dibattito in maniera abbastanza chiara. L’unico che sembra non essere d’accordo con questo parere è lo stesso Trump, che ha sostenuto di aver vinto il dibattito “di parecchio”.

Detto ciò, questo non significa che adesso Harris sia la favorita nella corsa presidenziale. Il limite più grande della attuale vicepresidente sembra essere proprio la difficoltà nel marcare delle differenze rispetto all’attuale amministrazione Biden, che non gode di grande popolarità.

Come racconta l’editorialista del NYT Kathleen Kingsbury, nel fine settimana, un sondaggio condotto dal New York Times e dal Siena College ha rilevato che il 60% degli elettori probabili crede che l’America stia andando nella direzione sbagliata, e molti hanno dichiarato di non sapere abbastanza su dove Harris si posizioni su diversi temi chiave. 

“Per quegli elettori alla ricerca di risposte sulle politiche di Harris – prosegue la giornalista –  è improbabile che il dibattito li abbia lasciati meglio informati. Secondo il tracker del Times, la vicepresidente ha trascorso quasi metà del suo tempo parlando per attaccare Trump. Ha giustamente denunciato le sue bugie e il suo pericoloso abbraccio ai dittatori. È stata anche decisa nel difendere i diritti riproduttivi, così come il bilancio di Biden in politica interna ed estera. E ha menzionato una manciata di piani che perseguirebbe se vincesse la Casa Bianca.

Tuttavia, abbiamo appreso pochi nuovi dettagli su questi piani. Sull’economia, che gli elettori spesso considerano la questione più importante, ha solo toccato superficialmente come attuerebbe i tagli fiscali, costruirebbe più alloggi accessibili e aiuterebbe i genitori di bambini piccoli. In politica estera, si è impegnata a una soluzione a due Stati in Medio Oriente e a sostenere l’Ucraina nella vittoria contro la Russia, ma non ha approfondito come intenda raggiungere questi obiettivi. Ha promesso di non vietare il fracking ma ha detto poco su come pianificherebbe di investire in soluzioni climatiche. Ha anche continuato a eludere domande sul perché di recente si sia allontanata da posizioni che aveva assunto nella sua campagna per essere la candidata democratica nel 2020.

La cosa più importante è che ha fatto ben poco per distinguere i suoi piani da quelli di Biden, in un’elezione in cui l’elettorato sembra desideroso di cambiamento. Per essere chiari, Trump ha completamente fallito nel presentare o difendere i suoi obiettivi politici. In molti modi, l’ex presidente ha confermato ciò che è stato evidente per anni: il suo scopo principale, se dovesse vincere un altro mandato, sarebbe fare ciò che è meglio per Donald Trump. 

Ma in una serata in cui Harris ha teso trappole a Trump in ogni modo (e lui ci è cascato praticamente ogni volta), l’unico momento in cui la situazione si è ribaltata è stato quando l’ex presidente le ha chiesto cosa farebbe di diverso rispetto agli ultimi tre anni e mezzo. Alcuni elettori potrebbero ancora essere in cerca di quella risposta”.

Già. Perché Harris ha cambiato molte posizioni negli ultimi mesi, da quella sul fracking, ovvero il controverso sistema di estrazione di idrocarburi dalle enormi conseguenze ambientali, sul quale era contraria fino a poco fa e adesso si è detta favorevole, sulle politiche fiscali, in cui è passata dal voler tassare i super ricchi a invece volergli abbassare le tasse. In pratica si è spostata dalla sinistra di Biden alla sua destra, per tanti temi.

Ora, perché lo ha fatto? Ci sono due possibili spiegazioni, che secondo me sono vere entrambe in parte. La prima è per attirare una parte di elettorato repubblicano moderato spaventato da Trump. Non è un caso che persino Dick Cheney, volto storico dei repubblicani, ha recentemente dichiarato che voterà per Harris. Questa spiegazione potrebbe significare che, ad esempio, in tema di politiche climatiche harris voglia semplicemente non tirar fuori l’argomento per non offrire assist a Trump, ma che le sue politiche potrebbero essere sostanzialmente buone.

Un’altra spiegazione, credo complementare, è invece quella fornita con le sue analisi dal professor Alessandro Volpi, che forse ricorderete per una puntata di INMR+ sul debito pubblico, che è un economista e professore universitario e che fa delle interessanti analisi sulle presidenziali Usa sui suoi profili social, soprattutto legate – le analisi – agli interessi economico finanziari che si muovono dietro ai due candidati.. 

Volpi nota che questa campagna elettorale è caratterizzata, come la precedente, dai finanziamenti fiume. È molto probabile che la cifra finale delle donazioni si avvicinerà ai 12-13 miliardi: poco meno delle elezioni del 2020 quando si arrivò alla cifra record di 14 miliardi. La differenza rispetto al passato è rappresentata dal fatto che le “donazioni” sono sempre più concentrate in un numero limitato di soggetti, miliardari appunto, equamente distribuiti fra Trump e Harris. 

In questa campagna, 100 donatori hanno già versato 1,5 miliardi di dollari e si tratta in larga misura di figure legate alla finanza che, presumibilmente, hanno esigenze ben definite. 

In un articolo su Altreconomia sempre Volpi nota come si sia creata una sorta di frattura nel capitalismo americano, fra chi sostiene Harris e chi sostiene Trump. A favore di Harris, finanziamenti alla mano, ci sarebbero i cosiddetti Big Three, ovvero i tre giganteschi fondi d’investimento che hanno interessi e possedimenti in migliaia, forse milioni di aziende in tutto il mondo. Quindi BlackRock, Vanguard e State Street. E al loro fianco ci sarebbe anche la Federal reserve, che in effetti con le recenti politiche monetarie ha dato una discreta mano all’amministrazione Biden-Harris. 

Contro questa simbiosi fra grandi fondi, banca centrale ed establishment democratico ha preso corpo – scrive Volpi su Altreconomia – una cordata di figure che vuole utilizzare il potere politico della presidenza Trump per combattere o limitare proprio lo strapotere delle “Big Three”. 

In tale sequenza compaiono alcuni grandi fondi hedge, come quello di John Paulson, preoccupati per la progressiva emarginazione da un “mercato” normalizzato dai superfondi, alcuni petrolieri non legati direttamente ai colossi dell’energia in mano alle “Big Three”, come Timothy Dunn e Harold Hamm di Continetal resources, ma figurano anche miliardari di lunga tradizione come i Mellon, infastiditi dallo strapotere dell’amministratore delegato di BlackRock, Larry Fink, e personaggi alla Bernie Marcus, il fondatore di Home Depot, un colosso da 500mila occupati.

Tra i capitalisti di Trump ci sono poi i proprietari dei casinò, come Steve Wynn e Phil Ruffin, spaventati dall’avanzata dei grandi fondi anche nei loro settori, e personaggi tipici del mondo trumpiano come Linda McMahon, fondatrice insieme al marito della Wold wrestling entertainement (Wwe).

A questa lista di trumpiano d’adozione ci aggiungo io il fatto che, mi pare, tutto il settore delle piattaforme si stia lentamente spostando a destra. Sappiamo di Elon Musk, passato da essere un convinto democratico a un convinto trumpiano. E pare che anche Zuckerberg abbia di recente fatto il salto (ma qui la fonte è Trump, quindi non so quanto sia attendibile). 

Comunque, è indubbio che ci sia una feroce lotta per il potere politico all’interno del capitalismo Usa. Quanto questo influisca sui programmi dei due candidati è difficile da dire, anche se un episodio raccontato e interpretato sempre da Alessandro Volpi, ce ne può dare una misura, se l’interpretazione è corretta.

Leggo da un suo post FB:

“Kamala Harris si è presentata in North Carolina con un programma volto a difendere la classe media, peraltro individuata nei possessori di reddito fino a 400 mila dollari annui, impegnato in un’azione di sostegno all’edilizia popolare privata e con l’indicazione di una strategia di contenimento delle speculazioni sui prezzi. In sintesi un programma assai generico, che la candidata democratica ha definito economia delle opportunità. 

Tuttavia, il riferimento alla volontà di ostacolare le speculazioni sui prezzi ha spaventato le Big Three, che hanno investito sui democratici per evitare ‘l’altro capitalismo’ domiciliato presso il clan di Trump. Così è uscito il New York Post con un titolo gridatissimo in cui la Harris era definita comunista proprio per il fatto di voler controllare i prezzi e aumentare la spesa federale. 

Ora, è bene sottolineare che il Post è di proprietà della News Corp., nel cui azionariato compaiono Rupert Murdoch e le Big Three, queste ultime con oltre il 20 per cento. Mi sembra chiaro che i super fondi siano stati solerti ad usare un veicolo trumpiano per far capire ad Harris cosa non può fare. In pratica non può fare politica contro il monopolio delle speculazioni”.

Fatto sta che a qualche settimana di distanza, il programma di Harris è cambiato. Leggo da un recente post di Volpi: “affermato che bisogna ridurre il carico fiscale sui capital gains portandolo al 33%. 

In pratica, in pochi giorni ha abbandonato ogni remora “di sinistra” e ha reso esplicito il suo legame con le Big Three e il suo ideologismo liberista. L’obiettivo palese è quello di rendere l’opzione Trump, in termini economici, priva di significato  perché fatta propria dai democratici. Di nuovo, i “progressisti” dimostrano la loro sudditanza ideologica all’egemonia della destra che pensano di battere dimostrando una maggiore credibilità nell’interpretare lo stesso progamma”.

Insomma, secondo Volpi al netto delle differenze superficiali, se andiamo più in profondità i programmi – almeno quelli economici – di Trump ed Harris non sembrano essere così diversi. Ovviamente questo è un punto di vista, una chiave di lettura. Non penso che sia l’unica,penso che entrino in gioco tanti altri fatori e che le elezioni americane non si possano ridurre a uno scontro interno al capitalismo, ma penso anche che ci sia un pezetto di influenza, non indifferente, di questa roba qua. Insomma, ho trovato la lettura molto interessante e per questo ho scelto di proporvela. 

Restano ovviamente delle differenze importanti fra i due candidati, soprattutto in politica internazionale, dove Trump è più isolazionista e tende a gestire le cose a livello di relazioni personali, vantandosi persino delle sue amicizie con leader autoritari e dittatori, mentre Harris ha un approccio più collaborativo-classico, che tende a mantenere la centralità Usa attraverso una fitta rete di influenze e relazioni, ma anche tendenzialmente più interventista. Così come in chiave ambientale, dove pur con tutte le loro contraddizioni i dem restano anni luce avanti rispetto alle idee di Trump. Ma magari ci occupiamo di questi aspetti in un’altra puntata.

Dalla Sardegna arriva una notizia piuttosto dolorosa e inquetante. Un incendio, scoppiato nella notte fra lunedì e martedì e di origine quasi sicuramente dolosa ha distrutto circa 2000 pannelli fotovoltaici nel cantiere di Green and Blue a Tuili.

I pannelli erano destinati a un impianto agri-fotovoltaico, ovvero di fotovoltaico a terra, ed erano stoccati all’aperto senza videosorveglianza. 

Si sospetta un atto doloso, anche perché nel luogo dove erano accatastati i pannelli in attesa di essere installati non c’erano cavi che avrebbero potuto innescare le fiamme. Quindi c’è un’indagine in corso.

E tanti giornali accennano al fatto che i primi sospettati sono i cittadini dei sempre più numerosi comitati che in Sardegna protestano contro quello che viene definito assalto eolico. Parliamone un attimo. Il tema se seguite il nostro portale Sardegna CC non vi sarà nuovo. Sappiamo che c’è un clima di grande tensione legato alle rinnovabili in Sardegna. 

Vi faccio un super riassunto: come sappiamo la promessa di democratizzazione dell’energia che le rinnovabili portano con sé è stata disattesa in molte circostanze e in Sardegna si sta assistendo a quello che i comitati sardi stanno definendo appunto assalto eolico, ovvero centinaia progetti e cantieri per nuovi parchi eolici un po’ ovunque, in mano a svariate multinazionali, che non lasciano nessun tipo di ricchezza sul territorio e spesso anzi possono causare dei danni al paesaggio o agli ecosistemi. 

Il tema, devo dirvi, è molto complesso perché da un lato abbiamo la necessità di una transizione rapida e massiccia verso le rinnovabili, in cui anche le multinazionali, ci piaccia o no, dovranno giocare un ruolo non da poco perché sono gli unici attori a poter installare delle grandi potenze di produzione elettrica, tipo parchi eolici e così via, di cui abbiamo estremo bisogno. 

Dall’altro però questo fatto viene usato a volte come scusa per giustificare speculazioni, soprusi e scelte del tutto illogiche, compiute sulla testa delle persone e senza coinvolgere i territori. Se ci aggiungete che questo avviene in un territorio come la Sardegna, che storicamente è stato vessato e colonizzato per qualsiasi scopo, capite che il mix è esplosivo, e non è difficile immaginare che poi questi movimenti possano avere delle frange che finiscono per rinnegare in toto o persino detestare le rinnovabili.

Detto ciò, non ci sono prove al momento che dietro a questo rogo ci siano effettivamente le persone dei comitati, e il fatto che molte grosse testate alludano a questo è comunque un po’ ambiguo. Come mi fa notare Lisa Ferreli di SardegnaCC, le testate regionali parlano molto di più di altri argomenti legati alle rinnovabili, in particolare in questi giorni all’individuazione delle aree idonee, sulle quali c’è un dibattito molto interessante. Invece a livello nazionale circolano soprattutto questo tipo di notizie, che finiscono per dare l’immagine dei comitati come di pericolosi vandali, pur senza prove, e di accentuare il conflitto e la polarizzazione in corso, su qualcosa che invece potrebbe, forse dovrebbe metterci tutti d’accordo, ovvero la transizione verso una società più sostenibile.

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