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21 Marzo 2022
Podcast / Io non mi rassegno

Guerra, le opinioni superano i fatti – #485

La guerra in Ucraina prosegue, nonostante i negoziati. E diventa sempre più difficile ricostruire i fatti. I fatti evaporano, sommersi dalle opinioni. E le opinioni spesso confondono, invece di chiarirci le idee.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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OPINIONISMI

Torniamo a parlare di Ucraina. E iniziamo – inizio – con una ammissione: non ho idea di cosa stia succedendo. Non lo so più. Ho una serie di istantanee, ma la figura intera mi sfugge. Ho bene in mente alcune immagini della guerra, come quelle mostrate nel servizio atroce – e molto ben fatto – di Francesca Mannocchi a Propaganda Live di venerdì scorso, che mostra squarci di guerra fra la popolazione ucraina: persone che vivono un tempo sospeso, fra un bombardamento e un altro, in cui d’improvviso diventa normale perdere un figlio, una nipote, avere il marito che giace da settimane in cortile, non seppellito. 

So che ci sono dei negoziati in corso – che non si capisce bene se stanno andando bene o male, che c’è un carosello di accuse reciproche fra Putin, Biden, Zelenski, su chi sta cercando di boicottarli. So che l’esercito russo continua ad avanzare, non troppo veloce né troppo lento, a subire forse gravi perdite, ma a conquistare metro su metro. 

Poco altro, davvero. E ho la sensazione che ogni notizia in più che leggo, invece di chiarire il quadro lo complica un po’ di più. Mi affatica seguire l’attualità, e inizio a provare una sorta di fastidio, che è lo stesso che provavo durante la pandemia. Un fastidio dovuto alla sensazione che le opinioni abbiano subissato i fatti, fino ad annientarli. 

Nel totale oblio dei fatti, dovuto a una difficoltà oggettiva nel ricostruirli, ai pochi giornalisti presenti davvero sul campo, e alle mille difficoltà che incontrano, al profluvio di fake news e propaganda da una parte e dall’altra, mi sembra che il giornalismo abbia abdicato alla sua missione di ricercare la verità – concetto scivolosissimo ma fondamentale per il nostro lavoro – e abbia compensato questa mancanza con un proliferare di opinioni.

Non che le opinioni siano tutte uguali, e non c’è niente di male nel fornirle, ma è il rapporto fra ricerca di fatti e opinioni che mi lascia attonito. L’opinione dovrebbe essere, al massimo, il punto conclusivo dell’articolo, quella a cui di dovrebbe giungere dopo faticose ricerche, ma proprio se abbiamo qualcosa di molto interessante da dire, non il punto di partenza. E invece, mi pare, è tutto ciò che rimane. Le cronache sono scarne, faziose, superficiali, le opinioni invece sono pompose, gonfiate.

In un intervento molto bello all’Accademia dei Lincei – ringrazio il collega paolo Cignini per la segnalazione – il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi ha dichiarato che la negazione della complessità è l’essenza della tirannia, e ha ribadito quanto sia importante l’educazione alla complessità. Ecco, credo che il proliferare dell’opinionismo abbia a che fare con il nostro essere poco avvezzi alla complessità. Perché stare nella complessità significa anche accettare di non capire e non sapere un sacco di cose, anzi, la quasi totalità delle cose spesso, e quindi non avere opinioni. Possiamo non avere opinioni, va bene. 

Comunque, per fare un po’ di meta-opinionismo, ovvero dare opinioni su altre opinioni, devo dire che una lettura dei fatti particolarmente interessante è quella portata da Naomi Klein in un articolo su The Intercept (tradotta anche su Internazionale). Klein adotta una chiave di lettura particolare: riconduce a una matrice comune, che lei chiama nostalgia tossica, il putinismo, il trumpismo e le proteste dei camionisti canadesi del Freedom Convoy (che prima di protestare contro le restrizioni, afferma, protestavano a favore del fracking): questi movimenti adottano linguaggi simili e si rifanno a un passato mitico in cui gli esseri umani (sottinteso: maschi, bianchi) dominavano incontrastati la terra. Al mito dell’economia estrattiva, basata sul petrolio e sui combustibili fossili. Al prima. Prima che la Terra iniziasse a presentarci il conto, con problemi come i cambiamenti climatici, l’estinzione di massa, l’inquinamento e così via.

Al tempo stesso, continua Naomi Klein, dall’altra parte, coloro che criticano e si oppongono a questi movimenti, non sono poi così diversi. A parole sono più consapevoli dei problemi, ma in fin dei conti i vari Biden, Trudeau, sono gli alfieri della shock economy, del capitalismo dei disastri, del business as usual. Hanno una visione del mondo forse più fluida, ma non hanno una idea di futuro così diversa. Siamo sempre nella cornice della crescita economica infinita, del consumo di risorse.

Parafrasando quanto scritto dalla giornalista canadese, direi che il risultato dell’equazione è abbastanza ovvio: un’economia estrattiva e competitiva, in cui vince chi accumula più risorse può essere pacifica finché le risorse sono abbondanti e bastano per tutti, o perlomeno bastano per tutti coloro che sono in grado di pretenderle (perché per una buona metà del mondo non bastavano già da decenni). Ma quando iniziano a scarseggiare anche per i pezzi grossi, allora è guerra. 

Klein suggerisce, invece, un green new deal che abbandoni il mito della crescita infinita e spinga per una conversione ecologica di tutti i comparti dell’economia. Invece di capire come sostituire il petrolio o il gas russi con altro petrolio e gas – fra parentesi, il costo altissimo di questi due combustibili sta riesumando i progetti accantonati di fracking e sabbie bituminose che tornano a essere convenienti – dovremmo concentrarsi sul capire come sostituire il petrolio e gas, punto. 

DECRESCITA

Ora la domanda è: quanto siamo lontani da una svolta del genere? Anche qui, nessuno può saperlo con precisione, ma possiamo cogliere alcuni aspetti interessanti, che contribuiscono a creare una certa densità culturale sul fatto che non si possa rincorrere una crescita economica infinita. 

Due fatti in particolare: Il primo è che lo scienziato e blogger francese Timothee Parrique fa notare che per la prima volta, l’ultimo report dell’IPCC nomina la decrescita, e lo fa per ben 12 volte (seppure in circa 3600 pagine), criticando anche la teoria del disaccoppiamento fra crescita economica e emissioni climalteranti. Il secondo è che un articolo su Nature inizia a domandarsi se sia possibile una crescita economica infinita e riporta come a 50 anni dall’uscita dello storico studio sui limiti della crescita, il dibattito sia acceso fra scienziati. Che è se non altro un’apertura.

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