8 Mar 2024

Guerra, la grande escalation di cui non non sai nulla – #893

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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C’è un rischio escalation crescente, di cui hanno parlato il papa, Mattarella, Joseph Borrell. No, non è in Ucraina e nemmeno in Palestina. Vediamo di che si tratta. Parliamo anche delle nuove abitazioni che il governo israeliano ha deciso di costruire per allargare le colonie illegali in Cisgiordania e di un’interessante operazione di Al Jazeera che smonta un’inchiesta del NYT sugli stupri compiuti da Hamas. Infine, qualche accenno alla giornata internazionale delle donne, l’annuncio di un incontro sui grandi eventi in natura e poi c’è lei, la giornata di Italia che Cambia.

C’è un’altra grande escalation guerrafondaia, che sta interessando un bel pezzo di continente ma di cui si parla pochissimo, perlomeno da noi. Parliamo del continente africano, e del conflitto che si sta combattendo nella Rdc, ma che rischia di allargarsi ai paesi confinanti e scatenare meccanismi difficili da fermare.

Che la situazione sia preoccupante, lo testimoniano vari appelli lanciati dal Papa, da Mattarella, dall’alto rappresentante dell’UE per la politica estera Joseph Borrell, insomma dalle massime cariche istituzionali di varie istituzioni. Ciononostante le notizie che riguardano questa guerra sfiorano solo di striscio i nostri giornali, che sono completamente concentrati sulle dinamiche simili che ci riguardano un po’ più da vicino (relativamente, forse più a livello culturale che puramente geografico). 

A testimonianza del disinteresse mediatico, c’è il fatto che per recuperare informazioni sono dovuto andarmele a cercare su Africa24.it, che insomma con tutto il rispetto non è il Corriere della Sera. 

Del conflitto nella Rdc abbiamo parlato diverse volte su INMR, ma vi faccio un breve riassunto. Si tratta di una specie di una guerra mai sopita, che è esplosa negli anni Novanta, con due grossi conflitti noti come prima e seconda guerra del Congo, e poi rimasta sotto traccia per vari anni per riacutizzarsi di recente. 

Queste guerre sono due conflitti molto sanguinosi hanno coinvolto numerosi paesi africani, e soprattutto Congo e Ruanda, e gruppi ribelli, spinti in parte dal desiderio di controllare le ricche risorse minerarie del paese (come diamanti, oro, rame, cobalto e coltan). Risorse che ovviamente fanno gola a molti, compresi stati confinanti e stati e aziende di altri continenti.

Attualmente il principale gruppo ribelle contro cui combatte il governo centrale si chiama M23, che controlla la parte est del paese, la regione del Nord Kivu. Solo che appunto, dietro a questi gruppi di presunti ribelli si muovono altre potenze regionali. 

In pratica, come racconta l’articolo sopra citato, un recente documento dell’ONU, al quale l’AFP ha avuto accesso, rivela l’impiego di armi sofisticate da parte dell’esercito rwandese a sostegno dei ribelli del M23. Stando al report confidenziale, l’arma in questione è un missile terra-aria che è stato sparato da un sistema mobile contro un drone di osservazione dell’ONU, senza tuttavia colpirlo. 

In generale, sul campo sta aumentando l’uso di sofisticate armi antiaeree, tra cui appunto il quello citato ma anche cannoni antiaerei e sistemi di difesa aerea mobile, che stando a quanto affermano le nazioni unite rappresentano un grave rischio per tutti gli aeromobili governativi della RDC e dell’ONU che operano nella regione. Secondo il documento, non vi è precedente di gruppi armati nella regione con la capacità e le risorse di utilizzare e gestire armi di questo tipo.

Queste rivelazioni emergono in un contesto in cui RDC, Nazioni Unite e alcuni paesi occidentali accusano il Ruanda di supportare il M23, accusa negate dal governo del Rwanda, ma che queste nuove rivelazioni sembrano suffragare. Se questa guerra per procura, fatta attraverso gruppi di ribelli locali, diventasse un conflitto vero e proprio fra i due stati, la situazione potrebbe facilmente degenerare e allargarsi a macchia d’olio, visti gli equilibri precari di quella parte di continente.

Già adesso, comunque, la situazione ha provocato una ondata di disperazione tra la popolazione civile; migliaia di persone hanno abbandonato Sake, luogo strategico sulla rotta verso Goma, capitale della provincia del Nord Kivu, per sfuggire ai combattimenti.

Al tempo stesso ci sono ipotesi, non so quanto provate ma di sicuro diffuse fra la popolazione, che aziende e governi occidentali stiano facendo un po’ il doppio gioco, e se formalmente appoggiano il governo di Kinshasa, di nascosto supportano i ribelli dell’M23. Tant’è che negli scorsi giorni si sono registrati attacchi a veicoli diplomatici e delle Nazioni Unite da parte di manifestanti con la segnalazione dell’incendio di vari veicoli dell’ONU.

I disordini si sono diffusi anche nelle due maggiori città della RDC, la capitale Kinshasa e Lubumbashi a sudest, dove si sono registrate manifestazioni di protesta fuori dalle ambasciate francese, britannica e americana.

Lunedì, molte scuole straniere e alcune attività commerciali nel centro di Kinshasa sono rimaste chiuse e osservatori hanno registrato un incremento significativo di  forze di sicurezza e un’ondata di giovani nelle strade pronti a manifestare, segno tangibile dell’inarrestabile fermento che scorre sotto la superficie sociale del Paese.

Va bene, torniamo a parlare di conflitti che ci sono più familiari. Scusate la puntata un po’ pesante, come tema, ma questo è. Parliamo della situazione fra Israele e Palestina, in realtà non tanto dell’invasione della straiscia di gaza da parte dell’esercito israeliano, in questo caso, ma di un fatto un po’ tangenziale.

Saprete, probabilmente, che cosa sono le colonie israeliane in Cisgiordania. Sono degli insediamenti che da decenni Israele mantiene e continua a costruire in Cisgiordania, che però è un territorio che secondo la comunità internazionale appartiene ai palestinesi: per questo motivo sono considerate illegali, praticamente da tutti tranne che da Israele. E sono ritenute il principale ostacolo a una pace duratura fra israeliani e palestinesi. 

Perché ve ne parlo? Perché negli anni i governi israeliani (e quelli di Netanyahu in maniera molto consistente) hanno via via ampliato queste colonie. E d è successo di nuovo. Proprio questo mercoledì il Comitato superiore di pianificazione dell’amministrazione civile, ovvero l’organo del governo israeliano che prende le decisioni relative alla pianificazione delle colonie in Cisgiordania, ha approvato i progetti per la costruzione di 3.400 nuove abitazioni all’interno di diversi insediamenti. 

Soltanto nell’ultimo anno è stata approvata la costruzione di quasi 20mila abitazioni (18515 per l’esattezza) in queste colonie, ma il Comitato non si riuniva da giugno dell’anno scorso. Quindi è la prima volta che un ampliamento viene approvato dopo l’invasioe della Strisica di gaza. Un ottimo modo per stemperare la tensione, insomma. 

Come racconta il Post, “Circa il 70 per cento delle abitazioni appena approvate sarà costruito a Ma’ale Adumim, a est di Gerusalemme, mentre il resto nelle vicine Kedar ed Efrat, a sud di Betlemme. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, principale responsabile del comitato, ha definito l’espansione «una risposta sionista appropriata» all’attacco armato avvenuto due settimane fa vicino a Ma’ale Adumim, in cui tre persone palestinesi avevano sparato sulle auto ferme in coda prima di un posto di blocco al confine fra Gerusalemme e la Cisgiordania, uccidendo un uomo e ferendo undici persone.

In realtà la violenze ci sono praticamente da sempre e sono aumentate dopo il conflitto, con vari casi di coloni armati che hanno ucciso persone palestinesi, e l’esercito israeliano che conduce di frequente operazioni molto violente nei campi profughi palestinesi in Cisgiordania, giustificandole quasi sempre con ragioni di sicurezza.

In questo contesto, è interessante osservare come si comporta il mondo dell’informazione occidentale nei confronti di questo conflitto. Anche se non so nemmeno quanto sia corretto parlare di conflitto quando la disparità di forze in campo è così evidente. Più volte abbiamo notato, con riferimento ai giornali italiani, come ci sia stata soprattutto all’inizio un trattamento non proprio intellettualmente onesto della vicenda, con una tendenza a giustificare qualsiasi tipo di decisione del governo iraeliano sulla base dell’attacco e del massacro terroristico compiuto da Hamas il 7 ottobre. Questa tendenza non è solo italiana ma riguarda una bella fetta del mondo occidentale, e anche media che tradizionalmente sono considerati il meglio del giornalismo mondiale. 

Per riuscire a bilanciare un po’ questa narrazione, e ad avere una visuale più ampia di quello che stava accadendo, in questi mesi ho fatti più volta riferimento ad Al Jazeera, per avere una voce, sempre affidabile e altrettanto un po’ schierata, ma dall’altra parte. Perché vi faccio tutto questo preambolo, direte voi?

Perché mi è stato segnalato un podcast molto interessante, di Al jazeera, che si chiama The Listening Post, all’interno del quale, in una puntata, si smonta la narrazione dei media occidentali su quanto accade a Gaza, attaccando frontalmente il simbolo del giornalismo occidentale, il NYT, in una operazione che ho trovato giornalisticamente interessante. Ovvero quello di fare una specie di inchiesta su un’inchiesta, per mostrare che è falsa e pretestuosa.

L’inchiesta in questione è quella del NYT pubblicata a fine dicembre scorso in cui si afferma che i miliziani di Hamas avrebbero rapito e violentato sistematicamente donne e uomini di ogni età durante l’attacco del 7 ottobre. Come spiega il podcast, la potenza del Times sta nel fatto che detta l’agenda di tutti i media occidentali. Uno scoop o un’inchiesta del Times è sistematicamente ripreso e dato per buono da tutti i giornali del mondo occidentale. 

Solo che in questo caso la narrazione fatta dal giornale è probabilmente non così attinente alla realtà. Al Jazeera raccoglie il lavoro di debunking fatto a molte testate indipendenti americane che mostrano come l’inchiesta sia molto povera di fonti dirette e quelle che ci sono sono anonime o considerate poco attendibili, mentre ci sono testimonianze di persone che affermano di aver ricevuto pressioni da parte dei giornalisti del Times per ottenere certe dichiarazioni. O come ad esempio una giornalista che ha collaborato all’inchiesta, non fosse in realtà nemmeno una giornalista ma una agente dei servizi segreti israeliani. 

Insomma, secondo quanto riportato da Al Jazeera, ci sono parecchi dubbi sul fatto che quelle violenze sessuali e stupri “sistematici” descritti dal NYT fossero realmente così sistematici. Ciò non significa, ovviamente, che i rapitori di Hamas fossero dei simpatici buontemponi, eh. Ed molto è probabile, anzi provato, che ci siano stati episodi di stupri. Ma forzare la mano affinchè degli episodi diventino una sorta di metodo deciso a tavolino, ovviamente è una roba diversa. E se lo fa il NYT, il giornale più influente al mondo, è una roba che cambia le idee dell’opinione pubblica e fa andar giù più facilmente la violentissima risposta del governo israeliano.

Al tempo stesso, devo dire, l’inchiesta di Al Jazeera mette in mostra che comunque il sistema mediatico occidentale, anzi americano, ha ancora dei suoi anticorpi, perché sono stati altri giornali americani a smontare la tesi del NYT in maniera impeccabile. E questo è un buon segno.

La natura selvatica ci piace un sacco. La nostra biofilia innata ci porta ad amare passare il tempo in contatto con la natura selvatica, immersi in un luogo naturale come una foresta, una spiaggia, o qualsiasi altro ecosistema. Il problema è che spesso questa nostra pulsione sana ci porta a fare cose un po’ stupide. Tipo il Jova beach party, non so se ricordate.

E allora vi voglio segnalare un evento che abbiamo trovato interessante e che è dedicato proprio ai grandi eventi nei siti naturali. E visto che partecipa anche la nostra amica etologa e divulgatrice Chiara Grasso di Eticoscienza (www.chiaragrassoetologa.it), ho chiesto a lei di raccontarci di che cosa si tratta. A te Chiara.

Audio disponibile nel video / podcast

Allora, sì , lo so che oggi è l’8 marzo, giornata internazionale della donna, e non ho minimamente toccato il tema, ma visto che oggi sarà una giornata di proteste, scioperti e mobilitazione per i diritti delle donne e voglio parlarne in maniera un po’ più approfondita, direi che ne parliamo lunedì, in modo che possa raccontarvi meglio che cosa è successo. 

Noi invece chiudiamo come al solito con le notizie “nostre”. Questa è la Giornata di ICC.

Audio disponibile nel video / podcast

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