11 Mag 2023

Greenpeace e ReCommon hanno fatto causa ad Eni per disastro climatico – #725

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Due grandi associazioni ambientaliste, Greenpeace Italia e ReCommon, assieme a dodici persone hanno fatto causa ad Eni per i danni presenti e futuri legati alla crisi climatica. Intanto arrivano novità sul caso dell’orsa JJ4, con una nuova perizia che dimostrerebbe che l’aggressione ai danni di Andrea Papi, il giovane uomo ucciso mentre correva in un bosco, è ad opera di un orso maschio. Parliamo anche delle proteste degli universitari contro il caro affitti, di Trump condannato per molestie sessuali e di quanto inquina la macchina bellica italiana.

Due organizzazioni ambientaliste, Greenpeace Italia e ReCommon, assieme a dodici persone hanno fatto causa ad Eni e, in quanto suoi azionisti, al ministero dell’Economia italiano e a Cassa Depositi e Prestiti, per i danni subiti e futuri «derivanti dai cambiamenti climatici». Eni infatti avrebbe «significativamente contribuito» al cambiamento climatico «con la sua condotta negli ultimi decenni. E lo avrebbe fatto in maniera molto consapevole.

Greenpeace Italia e ReCommon hanno infatti trovato un rapporto del 1978 in cui Tecneco, una società appartenente a Eni, stimava in modo abbastanza accurato quanto sarebbe aumentata la concentrazione di anidride carbonica, il principale gas serra, nell’atmosfera entro la fine del Novecento e diceva che secondo alcuni scienziati questo fatto sarebbe stato un problema sul lungo termine perché avrebbe potuto causare un cambiamento climatico con gravi conseguenze.

Come racconta il Post, “Greenpeace Italia, ReCommon e le persone che si sono associate a loro, che vivono in aree d’Italia dove già si vedono gli effetti del cambiamento climatico, hanno chiesto al Tribunale di Roma di accertare il danno da loro subito e il fatto che Eni violerebbe i loro diritti «alla vita, alla salute e a una vita familiare indisturbata». Chiedono anche che Eni sia obbligata a ridurre le emissioni dovute alle sue attività di almeno il 45 per cento rispetto al 2020 entro il 2030, per contribuire al contrasto al riscaldamento globale.

Tra le persone che hanno intentato la causa c’è un residente del Polesine, la parte della pianura veneta vicina al delta del Po: la zona rischia di subire sempre di più l’innalzamento del livello del mare e la risalita del cuneo salino, cioè dell’acqua marina nelle fonti di acqua dolce. Un’altra partecipante alla causa è residente in Piemonte, la regione del Nord Italia più interessata dalla siccità in corso da più di un anno”.

La causa è stata ribattezzata #LaGiustaCausa ed è la prima di questo tipo intentata contro una società privata in Italia, ma nel mondo ce ne sono già state tante. La più nota probabilmente è quella contro la grande società petrolifera Shell, portata avanti dalle organizzazioni ambientaliste Milieudefensie e Greenpeace Netherlands insieme a più di 17mila persone per cui nel 2021 un tribunale olandese aveva stabilito che entro il 2030 Shell dovrà ridurre le proprie emissioni di gas serra del 45 per cento rispetto ai livelli del 2019; Shell ha poi fatto appello contro la sentenza. 

Su lifegate Maurizio Bongioanni racconta anche il momento difficile, diciamo così, di Eni, che si trova attaccata su vari fronti perché continua imperterrita ad investire in nuove estrazioni di petrolio. secondo Oil change international, nel 2023 l’Eni potrebbe posizionarsi al terzo posto tra le aziende a livello globale per volume di nuove riserve di petrolio e gas approvate per lo sviluppo.

Inoltre, Eni deve anche rispondere alle accuse, di nuovo rivolte ancora una volta da ReCommon di essere responsabile della crisi energetica in Pakistan. In pratica dopo essersi aggiudicata la fornitura di gas naturale liquido verso il paese asiatico Eni avrebbe dirottato altrove il gas destinato al Pakistan ottenendo così il massimo profitto da ogni carico e sfruttando il rialzo dei prezzi durante la crisi energetica dell’ultimo inverno. Una manovra che avrebbe fatto guadagnare a Eni almeno mezzo miliardo di dollari ma che avrebbe generato un serio problema di approvvigionamento energetico per il Pakistan.

Insomma, una condotta veramente terribile quella della multinazionale, che non brilla per scelte etiche e lungimiranti. La cosa che fa ancora più strano – forse strano non è il termine adatto è che Eni è una società il cui principale azionista è lo Stato italiano.

Ci sono novità anche sul caso dell’orsa JJ4, che è ancora rinchiusa nel centro Casteller di Trento, ma che una nuova perizia di parte presentata dalla lega Antivivisezione sembrerebbe scagionare. In pratica secondo questa perizia i segni lasciati dai denti sul corpo di Andrea Papi, il giovane uomo trentino ucciso mentre correva in un bosco, sarebbero di un esemplare maschio, e quindi JJ4 non c’entrerebbe niente. 

La Lega Antivivisezione chiede quindi la liberazione immediata dell’animale, oltre che le dimissioni del governatore trentino Maurizio Fugatti. La perizia suggerisce inoltre che l’animale in questione non avrebbe agito attaccando volontariamente la vittima per ucciderla.

Relativamente alla natura dell’attacco, esso è riconducibile a un tentativo protratto di allontanamento e dissuasione da parte dell’orso sulla vittima e le evidenze riscontrate non consentono di classificare l’azione lesiva né come un attacco deliberato né come una predazione.

Ad ogni modo sono risultati derivanti appunto da una perizia di parte, che adesso verranno analizzati dalla procura. Insomma, è ancora tutto molto incerto. Al netto di ciò, noto ancora come la stampa continui a raccontare la vicenda con termini antropizzanti. L’orsa è “scagionata”, “innocente”, “colpevole”.

Torniamo sul Post per raccontare delle proteste che vanno avanti da diversi giorni fra gli studenti universitari per il diritto alla casa e contro il caro-affitti. In questi giorni studenti e studentesse si sono accampati in tenda di fronte ad alcune università in diverse grandi città italiane, come segno di protesta contro gli affitti troppo alti, al punto da non permettere ai fuorisede di trovare una soluzione abitativa adeguata nella città in cui si trasferiscono per studiare. La prima a manifestare in questo modo è stata la studentessa bergamasca ventitreenne Ilaria Lamera, che il 4 maggio ha piantato la tenda fuori dal Politecnico di Milano, una delle principali istituzioni universitarie della città, e ci ha vissuto per poco meno di una settimana.

Seguendo Lamera si sono aggiunte altre undici tende di fronte al Politecnico e altri gruppi di studenti hanno cominciato a protestare con modalità simili di fronte alla Sapienza di Roma e all’università di Cagliari, e si stanno organizzando per farlo anche a Torino, Firenze e Pavia.

Lamera, studentessa di Ingegneria ambientale, vive in una stanza in affitto da 600 euro al mese (spese escluse, contratto transitorio da quattro mesi), trovata dopo mesi di ricerca durante i quali ha fatto la pendolare tra Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo, e Milano. 

L’emergenza abitativa non riguarda soltanto gli studenti e non riguarda soltanto Milano, che è la città italiana dove gli affitti sono più alti: secondo una recente rilevazione dell’ente di ricerca indipendente Scenari immobiliari, nel primo trimestre del 2023 un canone d’affitto medio per una stanza a Milano è di 810 euro, contro i 630 di Roma e i 530 di Bologna. Tuttavia la questione mette in particolare difficoltà gli studenti fuorisede che non riescono ad accedere alle residenze universitarie, che costano meno ma non hanno posti a sufficienza o in certi casi costano quanto altre stanze in affitto, perché gestite da privati.

Le proteste degli studenti in tenda hanno già attirato l’attenzione della Conferenza dei rettori, un’associazione con ruolo istituzionale che riunisce università statali e private e di parte della classe politica. Ci sono ipotesi di individuare possibili strutture dismesse da convertire in studentati e poi ci sono i fondi del Pnrr destinati al tema. I primi 8mila posti letto sarebbero stati già trovati, con un investimento di 300 milioni sui 960 che il PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, ha stanziato per gestire l’emergenza abitativa studentesca.

Tuttavia secondo la ricercatrice Sarah Gainsforth, esperta di questioni abitative, la maggior parte delle risorse stanziate dal PNRR stanno però andando a sostenere la creazione di residenze studentesche gestite da privati, con il rischio che non vengano garantiti canoni calmierati per gli studenti. 

Trump è stato condannato per molestie sessuali. A poche settimane dall’incriminazione da parte del tribunale di New York per finanziamenti illeciti nella campagna elettorale, quella storia strana in cui c’entrava la relazione di Trump con la pornosttrice Stormy Daniels, arriva una condanna per l’ex presidente in un altra vicenda giudiziaria.

In questo caso parliamo di molestie sessuali, anzi l’accusa è quella di stupro. La vicenda è questa. Nel 2022 la giornalista e scrittrice Jean Carroll ha denunciato Donald Trump per violenza sessuale e diffamazione. L’aggressione sarebbe avvenuta nella primavera del 1996, in uno dei grandi magazzini di NY. Dopo averlo incontrato per caso, di fronte alla Trump Tower, i 2 avrebbero riso e scherzato fino ad arrivare ai camerini del reparto lingerie all’interno di Bergdorf Goodman: qui Trump l’avrebbe aggredita e penetrata prima che lei riuscisse a fuggire.

Carroll ha denunciato Trump più di 20 anni dopo, il 24 novembre 2022, quando nello Stato di New York è entrato in vigore l’Adult Survivors Act, che permette alle vittime di violenza sessuale di fare causa anche anni dopo l’accaduto. La giornalista ha aggiunto anche l’accusa di diffamazione per alcune dichiarazioni di Trump rispetto ai racconti della giornalista: il tycoon li ha definiti “una bufala e una bugia”, scrivendo sul suo Truth Social che “questa donna non è il mio tipo!”.

L’altroieri è arrivato il verdetto: secondo i giurati non ci sono prove sufficienti per dimostrare che lo stupro sia davvero avvenuto. Il punto è che non si può dimostrare l’avvenuta penetrazione. Tuttavia, hanno ritenuto fondate le accuse mosse da Carroll: Trump ha molestato sessualmente la donna. Per questo dovrà risarcirla con 5 milioni di dollari: 3 per la diffamazione e 2 per tentativo di stupro. Trump ha detto che presenterà ricorso contro il verdetto della giuria federale di Manhattan. Ha definito la decisione “una vergogna totale” sulla sua piattaforma Truth Social.

Comunque, si tratta solo di uno fra i tanti episodi per cui Trump è accusato. Sono decine le donne che lo hanno a più riprese accusato di molestie, e inoltre Trump è anche indagato in Georgia e Washington per la sua presunta interferenza nelle elezioni del 2020 e per la sua gestione di documenti riservati e il suo potenziale ostacolo alla giustizia. La cosa che colpisce è che a quanto ho letto in diverse analisi, in particolare una di Francesco Costa, vicedirettore del Post, gli elettori di Trump non è che non credono alle accuse. Ma le giudicano poco importanti nel giudizio che hanno su Trump.

Gianluca Cedolin su L’Essenziale si chiede quanto inquina il settore militare italiano, e si risponde, all’incirca, boh! Il fatto – ed è un problema – è che non si riesce a stimare bene l’impatto ambientale del comparto militare italiano perché le emissioni del settore sono escluse da tutti gli accordi internazionali sul clima, da Kyoto a Parigi a Glasgow, e quindi quasi nessuno si prende la briga di monitorarle.

L’articolo cerca comunque di ricostruire dei pezzi, partendo da alcune osservazion. A livello globale il comparto militare è responsabile di una percentuale stimata fra l’1 e il 5% delle emissioni. In Italia, se prendiamo in considerazione solo l’aviazione militare possiamo stimare circa 642mila tonnellate all’anno di anidride carbonica equivalente, “un valore paragonabile alle emissioni di un processo quale la produzione di vetro in Italia nello stesso anno. A livello nazionale, gli aerei militari contribuiscono per circa lo 0,17 per cento delle emissioni totali”. 

Oltre agli aerei, però, ci sono chiaramente le navi, i mezzi di terra (carri armati, blindati), le strutture militari e, soprattutto, “un altro aspetto che bisogna tenere in considerazione è quello della produzione delle armi, il cui impatto sul clima potrebbe superare quello del ministero della difesa”, come ricorda Francesco Vignarca dell’osservatorio Mil€x.

L’articolo poi prosegue facendo una serie di ipotesi e raccontando anche i tentativi fin qui abbastanza goffi di transizione ecologica da parte dell’esercito italiano. Comunque ciò che mi colpisce di più è proprio la mancanza di dati. Come possiamo pensare di organizzare e pianificare una transizione energetica se non possiamo nemmeno prendere in esame i dati di uno dei settori più inquinanti? Perché agli ecosistemi e alle leggi della termodinamica che regolano il clima terrestre frega ben poco delle informazioni riservate, o se la CO2 che causa l’aumento delle temperature arrivi dal settore civile o militare. 

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