Ieri era il primo maggio, festa del lavoro. Ma era anche il giorno in cui l’Italia dice addio al Green Pass. Per quanto riguarda il primo argomento, vi segnalo che su Italia che Cambia abbiamo pubblicato uno speciale, con una serie di articoli molto interessanti: abbiamo parlato di caporalato, di big quit, di tematiche genere, dei lavoratori dello spettacolo e del frastagliato mondo dei rider. Il tema del lavoro è un tema davvero centrale oggi e il fatto che tutti dobbiamo lavorare è uno dei motivi per cui siamo così lenti nel compiere la transizione ecologica. Ma ne riparliamo in un altro momento.
1 MAGGIO (E ADDIO GREEN PASS)
Vorrei soffermarmi di più invece sul tema del Green Pass, a cui il nostro paese dice addio. Forse. Perché “forse”? Per due motivi. Il primo è che continuerà a essere richiesto, nella versione base, fino al 31 dicembre per entrare nelle Rsa e negli ospedali come visitatori. Che a ben vedere, almeno per quanto riguarda le Rsa che sono luoghi ad alto rischio, abbastanza incomprensibile visto la scarsissima efficacia dei vaccini contro Omicron. Avrebbe più senso mettere il tampone obbligatorio.
Il secondo perché qualche giorno fa, riporta L’Indipendente, la Commissione per le libertà civili, afferente al Parlamento europeo, ha approvato l’estensione del certificato sanitario Covid europeo fino al 30 giugno 2023.
Che vuol dire? Niente di che, di per sé. Semplicemente significa che visto che non sappiamo come andrà la pandemia, o se emergeranno nuove varianti, l’Ue mette le mani avanti e aspetta tiene in piedi tutto il sistema ancora per un anno.
Gli eurodeputati hanno sottolineato che gli Stati membri dovrebbero “evitare ulteriori restrizioni alla libertà di movimento per i titolari dell’EUDCC [che sarebbe il Certificato Covid digitale dell’UE], a meno che non sia assolutamente necessario”. E anche che il provvedimento sarà riesaminato e “proporzionato” sei mesi dopo la sua estensione, in quanto l’intento sarebbe quello di “abbreviare il periodo di applicazione del regolamento non appena la situazione epidemiologica lo permetta”.
Fatto sta che tutto il sistema resta di fatto in piedi, anche se molti stati non lo chiedono più. E allora, mi chiedo, non sarebbe forse il caso di fare qualche ricerca e studio sugli effetti del Green Pass? Prima di decidere che è uno strumento che vogliamo riutilizzare, non sarebbe il caso di capire se ha funzionato? E non intendo solo misurandone gli effetti sul convincere le persone a vaccinarsi, ma anche tutti gli altri effetti sociali sulla nostra società. Perché sì, esistono anche quelli, e vanno presi in considerazione.
Comunque, domani non finiscono tutte le restrizioni. Resta in vigore, fino al 15 giugno, l’obbligo di indossare le Ffp2 nel trasporto pubblico locale e a lunga percorrenza, nei cinema, nei teatri, nei locali di intrattenimento e musica dal vivo e per tutti gli eventi e competizioni sportive al chiuso. Stessa cosa per utenti, lavoratori e visitatori di ospedali, strutture sanitarie e Rsa.
E resta l’obbligo di mascherine, anche solo chirurgiche, anche nelle scuole – che non si capisce quali differenze abbiano rispetto ai posti di lavoro – fino alla fine dell’anno scolastico, “fatta eccezione per i bambini sino a sei anni di età, per i soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l’uso delle stesse”.
Inoltre resta in vigore fino al 15 giugno l’obbligo di vaccinazione per over 50, forze dell’ordine e comparto scuola. E fino al 31 dicembre per gli operatori sanitari e i lavoratori di ospedali e Rsa. Che fino a fine anno non potranno tornare a lavoro, se non vaccinati. Che anche qui è abbastanza paradossale, anche perché, oltretutto, i sanitari plausibilmente hanno ricevuto la terza dose ormai diversi mesi fa, e visto che non sembra prevista una quarta (se non per le persone molto anziane) la copertura rispetto alla contrazione del virus attualmente negli operatori degli ospedali è molto bassa se non quasi nulla sia fra i vaccinati che fra i non vaccinati. Quindi se l’obiettivo è di ridurre al minimo il rischio di infezione nei luoghi più a rischio e dove si trovano le persone più fragili, cosa sensata, allora meglio applicare una politica di tamponi.
UCRAINA, AGGIORNAMENTI SUL CONFLITTO
Intanto sale l’attesa, e anche un po’ l’ansia, per il 9 maggio, che secondo molti analisti potrebbe segnare una svolta nel conflitto. Si sente parlare di guerra totale, di Giorno della Vittoria e allora cerchiamo di capirci qualcosa in più.
Il 9 maggio in Russia è un giorno particolare, una festa nazionale che prima della caduta del muro era estesa a tutti i paesi dell’Urss. È il Giorno della Vittoria contro le truppe naziste. Una sorta di 25 aprile nostrano, ma meno partigiano e molto più nazionalista.
Ecco, secondo alcune indiscrezioni diffuse dal governo inglese, ma ritenute attendibili dai media occidentali, Putin potrebbe cogliere l’occasione della festa, altamente simbolica per cambiare il livello del conflitto e smettere di parlare di operazione speciale per parlare di guerra totale.
Cos’è la guerra totale? È un’espressione coniata nel Novecento per indicare una guerra che coinvolge tutte le risorse di una nazione. Non è più un’operazione in cui una certa percentuale dell’esercito fa una missione in terra straniera, ma diventa una roba in cui tutta l’economia della nazione, tutti gli sforzi di 150 milioni di persone (tanti sono i russi) si concentrano sull’obiettivo bellico.
In quell’occasione potrebbe anche varare la legge marziale, ovvero la sospensione delle leggi ordinariamente in vigore nello Stato con i tribunali militari che prendono il controllo della normale amministrazione della giustizia.
E, sempre secondo le indiscrezioni del governo britannico, potrebbe alzare la posta e dichiarare guerra a tutti i nazismi del mondo. Che è un proclama simbolico, ma molto pericoloso. Ora, io non è che abbia tutta questa fiducia nell’attendibilità di quanto riporta il governo britannico in questo momento, ciononostante non mi sembra un’ipotesi così assurda. E se così fosse, significa che il problema continua a ingigantirsi.
Nel frattempo, in Russia c’è una moria di oligarchi. Sei oligarchi e funzionari di società vitali per l’economia della federazione russa sono morti nelle ultime otto settimane, tutti per un (apparente) suicidio. Il che inizia a destare diversi sospetti.
La Cnn nelle scorse ore ha ricostruito le varie vicende e ciò che emerge subito è l’incredibile vicinanza temporale tra i vari episodi. Gli ultimi sono accaduti a distanza di 48 ore l’uno dall’altro, una circostanza che assomiglia molto a una “firma” di una possibile unica matrice dietro i decessi.
INDONESIA VIETERA’ ESPORTAZIONE DI OLIO DI PALMA
Intanto arrivano altre conseguenze indirette della guerra. Il 28 aprile è entrato in vigore il divieto di esportazione dell’olio di palma. Ne parla il Post. Il motivo non è ecologico, ma appunto legato al conflitto in Ucraina e alla necessità del paese di assicurare la disponibilità di alimenti e olio per cucinare nel mercato interno, a fronte della scarsità di materie prime.
Questo però rischia di scatenare l’ennesimo effetto domino. L’annuncio del divieto di esportazione ha già cominciato a far aumentare il costo degli altri oli vegetali e si stima che potrà avere grosse conseguenze sul prezzo di molti alimenti in vari paesi del mondo.
Già all’inizio dell’anno l’Indonesia aveva limitato le esportazioni e aveva messo un tetto alla vendita di olio di palma ai residenti per via della carenza di olio da cucinare. L’invasione della Russia, poi, ha compromesso la produzione di olio di semi di girasole in Ucraina, il paese che ne esportava di più in tutto il mondo, provocando un aumento della richiesta e dei costi di altri tipi di oli vegetali. Così in questi mesi il prezzo dell’olio di palma crudo in Indonesia è aumentato fino al 40 per cento, aggravando ulteriormente il problema dell’inflazione.
Molti paesi dipendono dall’Indonesia per le proprie scorte di olio di palma, un grasso molto versatile usato sia per friggere che per la preparazione di dolci a livello industriale, ma anche per la produzione di biocarburanti e per ottenere shampoo, saponi e detergenti, visto che facilita la produzione della schiuma. Oltre che per vantarsi di esserne privi.
Per queste ragioni vari analisti ritengono che il divieto di esportarlo provocherà ripercussioni in molte parti del mondo, a partire dai paesi che sono già a rischio di subire una grave crisi alimentare per via della scarsità dei raccolti e della crescita dei prezzi di grano e fertilizzanti. C’è da dire anche che le coltivazioni di palme da olio stanno praticamente distruggendo gli ecosistemi indonesiani, che sono scrigni di biodiversità a livello mondiale, quindi se tutta questa situazione portasse a una complessiva riduzione del suo utilizzo, potrebbe anche avere un senso.
FONTI E ARTICOLI
#Green Pass
L’Unione Sarda – Addio Green Pass, restano le mascherine (non ovunque): Covid, da domani cambia tutto
#1 maggio
Italia che Cambia – Pierpaolo: “Nel giorno della festa del lavoro vi racconto la mia vita da rider”
Italia che Cambia – Il mondo sta cambiando: siamo più consapevoli del valore delle relazioni, anche sul lavoro
Italia che Cambia – Condannare il caporalato per tutelare i diritti dei lavoratori nei campi
Italia che Cambia – Big Quit: in Italia nel 2021 almeno 777.000 persone hanno lasciato il lavoro
Italia che Cambia – È davvero il Primo Maggio per chi lavora nel mondo della cultura e dello spettacolo?
Italia che Cambia – Buona festa dei lavoratori! Ma le lavoratrici? A colloquio con la sociologa Chiara Gius
#Ucraina
il Giornale.it – Giallo oligarchi suicidi: le 6 misteriose morti da inizio guerra
#olio di palma
il Post – L’Indonesia vieterà le esportazioni di olio di palma
#M5S
ADNKronos – Movimento 5 Stelle è ufficialmente un partito