14 Nov 2024

Cosa ha detto Giorgia Meloni alla Cop29 di Baku – #1020

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Ieri a Cop 29, la conferenza onu sul clima che quest’anno si tiene in Azerbaijan, ha parlato la nostra premier Giorgia Meloni. Che già è qualcosa. Scopriamo però cosa ha detto. parliamo anche delle alluvioni in Sicilia, del governo australiano che vuole bandire i social per i minori di 16 anni e della settimana corta per i dipendenti della pubblica amministrazione.

Ieri a Baku, in Azerbaijan, ha parlato la nostra premier Giorgia Meloni durante la terza giornata di COP29, la conferenza delle nazioni unite sul clima. Che già di per sé è una notizia, se pensiamo che moltissimi altri leader hanno disertato l’incontro, da Biden a Von der Leyen, da Xi Jin Ping a Putin, da Lula a Macron e Scholz.

Meloni invece era presente e ha tenuto un discorso abbastanza lungo. Vorrei analizzare con voi cosa ha detto seguendo l’articolo di Giacomo Talignani su Repubblica:

“L’Italia continuerà ad andare a tutto gas, il combustibile fossile “dono di Dio”, come lo ha definito Ilham Aliyev, presidente dell’Azerbaijan (da cui lo importiamo). Come presidente del G7 la premier Giorgia Meloni arriva a Baku per una toccata e fuga, un discorso brevissimo prima di ripartire, in cui conferma la visione italiana di puntare oltre alle rinnovabili soprattutto su “gas, biocarburanti, idrogeno e cattura e stoccaggio del carbonio”. Ma va anche oltre, parlando davanti alla platea della Cop29, la grande conferenza del clima riunita per trovare soluzioni urgenti alla crisi climatica, di una tecnologia che probabilmente non vedremo davvero operativa prima di quarant’anni, la fusione nucleare”.

Ci sono diversi aspetti che colpiscono del discorso di Meloni. Innanzitutto non cita mai il cosiddetto “transition away”, ovvero la decisione già piuttosto morbida che era stata presa lo scorso anno alla Cop28 di abbandonare gradualmente le fonti fossili. Dice, invece, che per la transizione serve un mix energetico, con tanto di “gas” appunto. “Occorre proteggere l’ambiente, con un approccio che sia non ideologico ma pragmatico o saremo lontani dalla via del successo” spiega. In questo è molto allineata con il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev, organizzatore della COP, che ha definito un “dono di Dio” le risorse di petrolio e gas del suo Paese.

Ricorda poi che “l’Italia intende continuare a fare la propria parte. Stiamo già assegnando all’Africa gran parte del budget di oltre quattro miliardi di euro del nostro Fondo per il clima, e continueremo a sostenere iniziative come il Fondo verde per il clima e il Fondo per le perdite e i danni (loss and damage, ndr)”.

Quando parla decarbonizzazione – ovvero smettere di immettere carbonio, l’atomo presente in tutti i gas climalteranti come anidride carbonica, metano, ecc – dice che sì, va fatta, ma deve “tenere conto della sostenibilità dei nostri sistemi produttivi e sociali. Dobbiamo proteggere la natura avendo al centro l’uomo. La neutralità tecnologica è l’approccio giusto”.

Sostiene poi che siccome la popolazione mondiale raggiungerà gli 8,5 miliardi entro il 2030 e il Pil globale raddoppierà nel prossimo decennio “aumenterà il consumo di energia, anche considerando la crescente domanda di sviluppo dell’intelligenza artificiale”, per cui “abbiamo bisogno di un mix energetico equilibrato per favorire il processo di transizione”. E qui ribadisce l’importanza del gas per l’Italia.

Aspetto curioso, mentre in Italia il Ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin martella sull’importanza di un “ritorno al nucleare in Italia”, intendendo la fissione nucleare, Meloni non accenna mai alla fissione ma parla di fusione nucleare, sostenendo che l’Italia intende rilanciare questa tecnologia che potrebbe rappresentare un punto di svolta in quanto può trasformare l’energia da un’arma geopolitica in una risorsa ampiamente accessibile”. Che sì, è vero, la fusione nucleare è una interessante prospettiva per il futuro. Ma ne riparliamo fra 30-40 se tutto va bene. Quando secondo tutti i modelli climatici o abbiamo smesso di buttare CO2 in atmosfera oppure delle nostre società ipertecnologicizzate sarà rimasto ben poco.

Altro concetto interessante che la nostra premier ha citato più volte è quello di neutralità tecnologica, che Meloni acclama come modalità di pensiero di riferimento con cui dovremmo affrontare a suo dire la crisi climatica, e che lei contrappone all’ambientalismo ideologico. 

Affrontiamolo giusto al volo. Per neutralità tecnologica si intende un approccio che non predilige una tecnologia specifica per raggiungere gli obiettivi riduzione delle emissioni ma lascia spazio a un mix di soluzioni energetiche diverse. L’idea di fondo è quella di mantenere aperte tutte le opzioni, inclusi combustibili fossili “un po’ meno inquinanti” come il gas, energie rinnovabili ovviamente, e persino tecnologie ancora in sviluppo, come la fusione nucleare senza vincolarsi a una singola strada.

Quindi invece di puntare tutto su eolico e fotovoltaico, Meloni suggerisce di includere altre tecnologie ritenute utili alla transizione, in modo da bilanciare le esigenze economiche, energetiche e ambientali. 

Il punto di fondo è: va bene tutto, teniamo le strade aperte, non ci precludiamo possibilità. Solo che manca un pezzo a questo ragionamento. E il pezzo ce lo mette la scienza, la ricerca sul clima che negli ultimi anni ci mostra che se vogliamo continuare ad avere società umane con un certo grado di complessità su questo pianeta dobbiamo smettere adesso di bruciare combustibili fossili, di bruciare qualsiasi cosa. 

La neutralità tecnologica va bene come concetto, ma se lo applichiamo a degli obiettivi che siano compatibili con la nostra sopravvivenza come specie sul pianeta. Quando Meloni dice che la transizione deve essere sostenibile dal punto di vfista economico e sociale, si sta chiednedo quali costi economici e sociali ha ritardarla? Spoiler: molto più alti e devastanti. È importante ragionare per scenari e chiederci sempre i pro e contro non solo delle azioni che facciamo ma anche di quelle che non facciamo. Come dice spesso Daniel Tarozzi, il cambiamento spaventa e fa paura perché ci concentriamo solo sulle conseguenze delle azioni che facciamo. Ma cosa comporta non cambiare? Quali sono le conseguenze delle azioni che non facciamo?

In realtà, degli assaggi dei costi sociali ed economici di non cambiare ce li abbiamo ahinoi ormai quasi quotidianamente. I giornali hanno da poco smesso di parlare delle alluvioni in Emilia Romagna – ma le loro conseguenze sono tutt’altro che finite – che (restando in Italia e senza andare in Spagna) ieri ci sono state inondazioni in Sicilia. 

Numerosi automobilisti sono rimasti intrappolati in autostrada nel Catanese a causa della pioggia molto forte che sta flagellando la Sicilia orientale. Ci sono immagini delle zone costiere con strade completamente sommerse e vetture trascinate in mare. 

I vigili del fuoco sono dovuti intervenire sulla A18 tra Fiumefreddo di Sicilia e Giarre prestando soccorso alle persone che non potevano uscire dalle macchine. I vigili del fuoco hanno dovuto richiamare i colleghi liberi dal servizio per potere rispondere a tutte le richieste di intervento.

Ormai non servono nemmeno più i dati per dirci che fenomeni come questi sono sempre più frequenti, basta la nostra percezione. Ma visto che spesso la nostra percezione può essere influenzata dal racconto mediatIco e dai nostri bias cognitivi, allora guardiamoli un po’ di dati. 

Secondo i dati dell’Osservatorio CittàClima di Legambiente, nel 2023 sono stati documentati 378 eventi estremi, con un incremento del 22% rispetto ai 311 eventi del 2022 e del 400% rispetto al 2018.

Restando in Sicilia, sempre secondo l’Osservatorio di Legambiente, dal 2010 al giugno 2024, la Sicilia ha subito 170 eventi estremi nelle aree costiere e sono andati aumentando in maniera vertiginosa.

Ci sono novità interessanti che arrivano dall’Australia, legate all’utilizzo dei social da parte dei piu giovani. Il primo ministro australiano, Anthony Albanese, ha annunciato una proposta di legge per vietare l’accesso ai social media ai minori di 16 anni. La legge è motivata dalla crescente preoccupazione per la sicurezza dei giovani online. Albanese ha evidenziato i rischi specifici legati all’esposizione dei giovani a contenuti dannosi, come quelli che influenzano negativamente l’immagine corporea per le adolescenti o incoraggiano atteggiamenti misogini per i ragazzi.

Il disegno di legge sarà presentato ufficialmente il 18 novembre e potrebbe essere approvato nel 2024, gode di sostegno bipartisan. Se approvato, il divieto si applicherebbe a tutte le principali piattaforme, inclusi TikTok, Instagram e Facebook, senza eccezioni per il consenso dei genitori e con effetti retroattivi per chi è già registrato.

Per garantire il rispetto del divieto, il governo propone due metodi di verifica dell’età: tramite riconoscimento facciale o presentazione di un documento d’identità. La legge non prevede sanzioni, ma il rispetto delle norme sarà gestito dall’eSafety Commissioner.

Nonostante l’appoggio politico, la proposta ha sollevato critiche da parte della società civile e degli esperti. Oltre 140 esperti australiani e internazionali hanno firmato una lettera aperta, ritenendo il divieto «troppo blando» e preoccupati per le difficoltà di garantire il rispetto delle restrizioni, i problemi di privacy legati alla biometria e il rischio che i giovani si spostino su piattaforme meno regolate.

Anche la Digital Industry Group Inc., tramite la sua direttrice Sunita Bose, ha espresso dubbi, sostenendo che la proposta riflette un approccio del XX secolo per affrontare sfide del XXI secolo, suggerendo piuttosto di promuovere un’educazione digitale che prepari i giovani a navigare online in modo sicuro.

Simili tentativi di regolamentazione per i minori sui social sono stati fatti a livello internazionale, come la proposta francese per vietare l’accesso ai minori di 15 anni o quella britannica per i minori di 13 anni. Tuttavia, nessuna legge ha risolto completamente il problema della verifica dell’età degli utenti. La proposta australiana si distingue per la concretezza delle misure suggerite, come l’uso della biometria e dei documenti identificativi, avvicinandosi maggiormente a una possibile applicazione pratica rispetto ai tentativi precedenti.

Qualche giorno fa è stato raggiunto un accordo per il rinnovo del contratto collettivo nazionale dei dipendenti della pubblica amministrazione tra l’ARAN e alcuni sindacati, ma senza la firma di CGIL e UIL. Il rinnovo riguarda solo gli enti centrali, come i ministeri, e non quelli locali, come i comuni. Prevede aumenti salariali da 121 a 194 euro lordi mensili, nuovi criteri per gli avanzamenti di carriera e modalità di lavoro più flessibili, introducendo per esempio la possibilità di optare per una “settimana lavorativa corta” di quattro giorni, mantenendo invariato lo stipendio e l’orario settimanale di 36 ore, divise su quattro giorni con giornate da 9 ore ciascuna.

Questa organizzazione è soggetta a negoziazione diretta tra il dipendente e il responsabile, adattandosi ai servizi che l’ufficio deve continuare a fornire. Il ministro della Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, sostiene che tali misure renderebbero il lavoro pubblico più attrattivo per i giovani, promuovendo flessibilità e un migliore equilibrio tra vita privata e professionale. Oltre alla settimana corta, il contratto introduce più opportunità per il lavoro da remoto e buoni pasto anche per chi lavora fuori sede.

Questo rinnovo copre il triennio 2022-2024, e le trattative per il successivo periodo (2025-2027) sono già imminenti. In Italia, il tema della settimana lavorativa corta è al centro di un dibattito politico, anche se le proposte di legge per la riduzione dell’orario a parità di stipendio avanzate dalle opposizioni hanno poche probabilità di essere approvate per mancanza di consenso.

La settimana lavorativa corta è stata sperimentata in alcune aziende italiane, con risultati positivi per la soddisfazione dei lavoratori, che beneficiano di una riduzione dello stress e di un miglior equilibrio vita-lavoro. Sebbene i sostenitori ritengano che questa organizzazione possa migliorare la produttività e l’efficienza aziendale nel lungo termine, gli effetti su scala più ampia, come produttività e occupazione generale, sono ancora incerti.

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