Torniamo a parlare dell’alluvione in Romagna, a più di un mese di distanza dai fatti, per due motivi. Il primo è che ieri sera è stato nominato, dopo una lunga tiritera, il commissario per la ricostruzione in Emilia Romagna, ed è Francesco Paolo Figliuolo, anche noto come il Generale Figliuolo, che molti di voi ricorderanno in quanto commissario straordinario nominato da Draghi per gestire la campagna di vaccinazione.
Il secondo motivo è perché a distanza di tempo stanno emergendo in maniera sempre più chiara i danni ambientali e l’inquinamento causato dall’alluvione, un aspetto inizialmente sottostimato.
Brevissimo riepilogo, prima di partire con le notizie: il 16 maggio scorso la Romagna è stata colpita da un nubifragio e da una serie di alluvioni che hanno provocato 15 morti, migliaia di sfollati, l’esondazione di 23 fiumi e centinaia di canali di scolo, fossi e torrenti, oltre a un migliaio di frane, l’allagamento di un centinaio di comuni, di migliaia di ettari di terreni agricoli e di allevamenti e la distruzione di ponti e strade. In una relazione presentata il 15 giugno al governo, la Regione Emilia-Romagna ha stimato i danni in 8,9 miliardi di euro, dei quali 1,8 sono richiesti per interventi urgenti. Il governo Meloni ha stanziato per adesso circa 2 miliardi, ma i soldi non sono ancora arrivati perché mancano i decreti attuativi.
Comunque, partiamo dalla notizia più di attualità, ovvero la nomina di Figliuolo come commissario per la ricostruzione. la notizia è presto detta: dopo una sorta di ballottaggio, o testa a testa fra Figliuolo e Guido Bertolaso, altro nome storico nella gestione delle emergenze in Italia, il primo ha avuto la meglio ed è stato nominato dal governo come commissario per la ricostruzione dopo l’alluvione in Romagna del maggio scorso. Come spiega Repubblica, “Come commissario post alluvione, si troverà a vigilare su 2,2 miliardi già stanziati e su un piano di lungo periodo”.
Quello che mi viene da notare, e da commentare, è che il fatto di affidare la ricostruzione a un generale, peraltro lo stesso che ha gestito la campagna vaccinale, è un segnale che mi sembra ci dica qualcosa di come il governo veda questa ricostruzione. Ovvero come una cosa da fare in fretta, a ritmi serrati, da gestire più che da progettare, e da gestire con il pungo di ferro.
Ora, è vero che il commissario non è colui che deve progettare ma per l’appunto gestire, che il suo ruolo non è quello di fare scelte politiche, ma mi chiedo, qualcuno le ha fatte le scelte politiche? Qualcuno si è seduto a un tavolo chiedendosi come fare per ricostruire in maniera intelligente, in chiave di adattamento climatico, in modo che al prossimo evento climatico estremo, che ovviamente succederà, non siamo di nuovo punto e a capo?
Perché magari tutto questo è già successo, è già stato fatto, e me lo sono perso. Ma la sensazione è che si sia saltato quel passaggio e che si voglia dare in mano la cosa a qualcuno che nel minor tempo possibile riporti la situazione a “com’era prima”. Che è un’operazione molto miope e pericolosa.
Passiamo al secondo aspetto che voglio commentare, ovvero la questione dell’inquinamento e dell’impatto ambientale del disastro. Più aumenta il tempo trascorso, più riusciamo a guardare a quelle vicende con una sorta di ritrovata oggettività e a fare un po’ il bilancio del disastro. Ci prova ad esempio il Post, con un articolo dal titolo “In Romagna si cerca di capire quanto inquinamento abbia lasciato l’alluvione”.
L’articolo è molto lungo per cui provo a riassumervi quelli che mi sembrano gli elementi più importanti. Il tema è l’inquinamento dei canali, dei fiumi e del mare in seguito all’alluvione.
Molti canali, anche settimane dopo l’inondazione, hanno cominciato a colorarsi di nero.In diverse zone sono stati trovati migliaia di pesci morti, mentre alla fine di maggio alcuni tratti della costa ravennate erano stati dichiarati non balneabili per la presenza di batteri arrivati dall’esondazione delle fogne, come l’Escherichia coli, che se ingerito provoca gastroenteriti.
In spiaggia però già non ci andava più nessuno perché in quei giorni le correnti portavano a riva di tutto: centinaia di carcasse di animali morti, soprattutto galline e pecore, una scena che per come viene descritta sembra apocalittica.
In molti casi, sia in mare che nei canali di scolo, che nei fiumi, l’agenzia Arpae ha prelevato dei campioni e li ha fatti analizzare. Le analisi hanno dato ovviamente risultati diversi fra loro: ad esempio hanno stabilito che «la colorazione anomala, rosacea-purpurea, del torrente Zaniolo è da ricondursi alla presenza di batteri purpurei appartenenti probabilmente alla famiglia delle Chromatiaceae e di alghe unicellulari del genere Euglena, organismi che possono proliferare nelle acque dolci poco mobili o stagnanti, con scarsità di ossigeno e con una grande quantità di nutrienti». Nelle acque è stata trovata anche una concentrazione «più elevata che negli anni precedenti» di fitofarmaci, dei prodotti chimici utilizzati nell’agricoltura convenzionale per evitare che le colture siano attaccate da parassiti, per farle crescere più in fretta o per distruggere le erbe infestanti. Secondo Legambiente ciò è accaduto perché l’acqua ha «lavato» i campi, diluendo gli antiparassitari, gli anticrittogamici, gli erbicidi e i pesticidi spruzzati sulle colture.
Nelle settimane successive all’alluvione i canali artificiali del ravennate si sono riempiti delle acque che avevano ristagnato a lungo nelle strade di Conselice e che hanno allagato i campi, gli allevamenti e l’area industriale di Fornace Zarattini, a nord di Ravenna. Il Consorzio di bonifica ha stimato che vi sono finiti 400 milioni di metri cubi d’acqua «senza passare attraverso un processo di depurazione da parte del servizio idrico integrato i cui impianti, al pari di tutte le altre infrastrutture colpite dall’evento, sono stati gravemente danneggiati». I campioni prelevati nel canale Mandriole e a Casalborsetti hanno rilevato «una condizione di forte anossia», vale a dire di mancanza di ossigeno, che ha ucciso i pesci.
Gli esperti pensano che la gran quantità di pesci morti trovati a ridosso della chiusa sia stata provocata dal fatto che questi cercavano di sfuggire all’acqua inquinata e si sono concentrati nei pressi della chiusa, dove c’era una presenza maggiore di ossigeno. Finché è arrivata anche lì l’acqua nera.
“Il direttore di Legambiente Emilia-Romagna Lorenzo Mancini crede che quella monitorata dall’Arpae sia solo una parte dell’inquinamento provocato dall’alluvione. «Il problema vero sono le sostanze chimiche finite nei corsi d’acqua e poi in mare», dice. A Conselice si sono allagati due stabilimenti industriali, l’Officina dell’Ambiente e l’Unigrà, «che lavorano con sostanze tossiche», spiega. L’Officina dell’Ambiente recupera le scorie prodotte dagli inceneritori dei rifiuti solidi urbani, trasformandole in “matrix”, un materiale utilizzato per la produzione di cemento. L’azienda, contestata dagli ambientalisti nonostante presenti la sua produzione come un esempio di economia circolare al servizio della cosiddetta green economy, sostiene però che tutte le sostanze usate per le lavorazioni erano stoccate nei depositi e si sono salvate dall’alluvione.
L’Unigrà è invece una multinazionale che trasforma prodotti agroalimentari. Già nei giorni dell’alluvione le acque che hanno invaso lo stabilimento si sono colorate di nero, ma le autorità sanitarie e l’azienda hanno sostenuto che non contenevano sostanze inquinanti. A loro dire, il colore scuro sarebbe stato provocato dal contatto del fango con il grano e con altri prodotti agricoli in lavorazione. L’Arpae ha fatto tre prelievi di acque all’Officina dell’Ambiente e all’Unigrà e non ha trovato né idrocarburi né metalli pesanti. Legambiente però non è convinta che sia stato fatto tutto il necessario per individuare le sostanze chimiche diluite nelle acque. «Non è stato cercato tutto perché avrebbero dovuto fare delle analisi specifiche che sarebbero state più complicate e costose», sostiene Mancini. Vicino all’Officina dell’Ambiente scorre il canale Zaniolo, quello che si è colorato di rosa porpora in alcuni punti e di rosso in altri la mattina del 6 giugno”.
Adesso, spiega l’articolo sul finire, la situazione sembra essersi normalizzata e le ultime analisi in molti canali e in mare hanno dato risultati nella norma. Tuttavia mi sembra chiaro qui lo schema. Ogni evento climatico estremo porta con sè disastri che vanno a causare ulteriore inquinamento e a rendere gli ecosistemi in cui viviamo più fragili, creando le condizioni per nuovi disastri. È per questo che non possiamo permetterci di ricostruire tutto come prima.
È uscito un articolo molto interessante, a firma di Anna Franchin su Internazionale, che parla delle biblioteche in Canada. Un tema un po’ specifico potreste pensare, che ne importa a noi delle biblioteche in Canada? Be’, insomma, forse dovrebbe fregarcene perché spesso il Nordamerica anticipa certe tendenze che poi arrivano anche dalle nostre parti.
Quindi, che succede alle biblioteche in Canada? Succede che negli ultimi anni, un po’ per volontà un po’ per necessità, si sono reinventate, affiancando all’usuale prestito di libri una serie di eventi e servizi alla cittadinanza, diventando così (che è anche il titolo dell’articolo) “l’ultimo spazio pubblico”, rifugio per senzatetto e persone con diverse problematiche, in particolare con una dipendenza dagli oppioidi. Una trasformazione che ha i suoi pro e i suoi contro, che l’articolo descrive molto bene. Vi leggo qualche breve estratto.
“Qual è l’ultima volta che siete entrati in una biblioteca? Se fate questa domanda a qualcuno che vive a Calgary, in Canada, è facile che vi risponda “ieri”, o “la scorsa settimana”. Calgary vanta uno dei sistemi bibliotecari pubblici più grandi del Nordamerica, e anche uno dei più frequentati, visto che il 57 per cento dei residenti ha la tessera di una biblioteca nel portafoglio”.
Poi la giornalista fa una serie di esempi di biblioteche storiche della città, per passare poi a raccontare la trasformazione delle biblioteche canadesi:
“Negli ultimi dieci anni in tutto il Nordamerica un numero crescente di biblioteche ha assunto professionisti e operatori sociali per far fronte alle esigenze degli utenti più vulnerabili. Hashi è stata una delle prime a Toronto. Una parte del suo lavoro, ha spiegato, consiste nel coordinarsi con i centri per senzatetto, partendo dal presupposto che la biblioteca è un luogo che accoglie chiunque, ma che i cittadini senza fissa dimora devono essere supportati dalle strutture ufficialmente incaricate di farlo. Secondo il comune di Toronto, i senzatetto in città sono circa undicimila: tutte persone che possono sedersi in una sala di lettura per riscaldarsi, visto che gli altri servizi di assistenza hanno orari ridotti e la maggior parte dei rifugi a Toronto è comunque piena.
Con i progressi della tecnologia e l’avvento di internet le biblioteche erano date per spacciate. Invece si sono reinventate, prima fornendo un modo gratuito per navigare online e poi cominciando a organizzare attività su qualsiasi cosa, dai corsi di fotografia digitale alle lezioni sui videogiochi, per ogni fascia di età. Nel mezzo di questa trasformazione sono emersi nuovi bisogni, come quelli dei senza fissa dimora, e nuovi problemi, come la crisi degli oppioidi, che in Canada tra il 2016 e il 2022 ha ucciso 34mila persone. Mentre le altre strutture di assistenza subivano tagli e venivano smantellate, la biblioteca è rimasta l’unica con le porte aperte. Oggi è il riferimento per chi deve compilare le domande per ottenere dei sussidi o stampare i moduli da consegnare ai funzionari dell’immigrazione. È un ufficio per i lavoratori in smartworking. È uno dei pochi posti in cui si può usare la toilette senza dover acquistare qualcosa.
Uno dei problemi delle biblioteche però, che emerge chiaramente dall’articolo, è che questa storia viene narrata solo ed esclusivamente come storia di successo, mentre esistono divese zone d’ombra nelle quali è necessario guardare.
“Questa narrazione, per quanto commovente, oscura la realtà. Nessuna istituzione assume ‘magicamente’ le responsabilità dell’intero stato sociale, di sicuro non una che è sottofinanziata come la biblioteca pubblica. Se le biblioteche sono riuscite a espandere il loro scudo protettivo, lo hanno fatto dopo una serie di decisioni difficili, che hanno comportato dei costi”.
A Toronto gli incidenti (violenze, intimidazioni o episodi simili) sono aumentati di cinque volte dal 2012 al 2021. A Edmonton, una città di 900mila abitanti, ai bibliotecari viene insegnato come somministrare il naloxone, un antidoto nelle overdose da oppioidi. Capita che le addette (la maggioranza dei dipendenti delle biblioteche sono donne) denuncino tentativi di stupro. In generale, tutti sembrano condividere la frustrazione di non riuscire ad aiutare chi si rivolge a loro.
In alcune biblioteche è stato introdotto un sistema di sicurezza all’ingresso simile a quello che si trova negli aeroporti, ma questo sistema, se ha reso lo spazio più sicuro, ha anche allontanato gli utenti più bisognosi, al punto che il sistema è stato presto abbandonato. In un’altra biblioteca, dopo un episodio di accoltellamento, è stato introdotto un metal detector e agenti all’ingresso. Schierare la polizia è una soluzione ipotizzata da più parti ma, dal punto di vista etico e pratico, non è certo in linea con lo spirito delle biblioteche.
Insomma, la storia delle biblioteche che diventano luoghi di accoglienza è da un lato una storia bella e incoraggiante, dall’altro è un campanello d’allarme, perché se uno spazio si ritrova ad essere “l’ultimo spazio pubblico” significa che qualcosa è andato storto.
Non ne abbiamo parlato perché non ero sicuro che fosse una notizia vera, ma pare ci siano state le elezioni regionali in Molise. Allora ho chiamato il nostro direttore Tarozzi, che nel 2012 fece il giro d’Italia in Camper in tutte le regioni, che mi ha confermato che il Molise esiste, lo ha visto, e quindi parliamone. Sì lo so che quella del Molise che non esiste è una roba di 15 anni fa, però è un evergreen, passatemela.
Comunque, ve ne parlo seguendo un articolo di Daniela Preziosi su Domani, che racconta come il dato più sconcertante che ancora una volta ci troviamo a commentare è, indovinate un po’, quello sull’affluenza. “Per tutto il pomeriggio sulle agenzie resta solitaria una dichiarazione attonita di un consigliere grillino: «L’astensionismo ha già penalizzato il movimento alle politiche. Alle regionali ci auguravamo almeno il 50 per cento, mentre la percentuale dei votanti è calata di 4 punti rispetto a cinque anni fa». È andata così: alle elezioni regionali del Molise, che si sono svolte domenica e lunedì, l’affluenza è calata sotto la soglia psicologica del 50 per cento, giù fino al 47,94 rispetto al 52 del 2018”.
L’altra notizia è che, come avrete intuito, è andata male, molto male per la cosiddetta alleanza giallorossa, visto che Pd e M5S correvano assieme. Lo spoglio è lento, ma assegna da subito una vittoria inequivocabile a Francesco Roberti, candidato della destra più Italia viva. Alla fine chiude con il 62,3 per cento.
Come commenta Daniela Preziosi: “Finisce dunque male anche questo esperimento di alleanza fra Pd e Cinque stelle, con il candidato Roberto Gravina che non entra in partita e si ferma al 36,2 per cento. Sfuma per l’avvocato Giuseppe Conte, che aveva battuto in lungo e in largo la piccola regione, il sogno di avere un «governatore». E anche quello (più realistico, confessato a mezza bocca prima del voto) di essere il primo partito dello schieramento di sinistra: la palma è al Pd, che pure bordeggia il 15 per cento. Poco intellegibile il fatto che il Pd avesse scelto come candidato l’uomo di Conte, sindaco di Campobasso, a cui lo stesso Pd in città ha sempre fatto un’opposizione senza sconti. Il candidato civico, Emilio Izzo, si ferma all’1,4 per cento”.
Ultima cosa che avrete intuito fra le righe, è che Italia Viva di Renzi correva con la destra, compiendo quel passo che in molti ipotizzavano da tempo.
Insomma, ogni cosa al suo posto. Immagino solo Schlein e Conte che pregano che sia tutto un brutto sogno, di svegliarsi sudati con qualcuno che gli dica, tranquilli, il Molise non esiste.
Ultima notizia del giorno, un po’ al volo, segnalo che ieri mattina c’è stata in Calabria una grossa operazione anti ndrangheta. I carabinieri hanno eseguito 43 ordinanze di custodia cautelare in varie città della Calabria, nei confronti di altrettante persone accusate a vario titolo di associazione di tipo mafioso, associazione a delinquere semplice, truffa, estorsione, corruzione e illecita concorrenza.
Alcune sono state portate in carcere mentre altre sono state messe agli arresti domiciliari. In totale nell’inchiesta che ha portato agli arresti, coordinata dalla direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, sono indagate 123 persone: tra queste ci sono anche diversi politici locali, tra cui Mario Oliverio, del PD, presidente della Regione tra il 2014 e il 2020.
Oliverio è accusato di associazione per delinquere aggravata dalle modalità mafiose, ma non è stato arrestato. L’inchiesta riguarda nello specifico presunti rapporti illeciti avuti da politici e imprenditori con esponenti della cosca Papanice, attiva a Crotone.
#Romagna
Domani – Emilia-Romagna, Francesco Paolo Figliuolo sarà nominato commissario alla ricostruzione
il Post – In Romagna si cerca di capire quanto inquinamento abbia lasciato l’alluvione
#biblioteche
Internazionale – L’unico spazio pubblico rimasto
#Molise
Domani – È Renzi la terza gamba di Meloni. In Molise la sinistra perde ancora
#ndrangheta
il post – In Calabria sono state arrestate 43 persone nell’ambito di un’indagine sulla ’ndrangheta: sono indagati anche alcuni politici locali
#foreste
The Guardian – Destruction of world’s pristine rainforests soared in 2022 despite Cop26 pledge
#clima
The Guardian – ‘We could lose our status as a state’: what happens to a people when their land disappears
#India
la Svolta – India: l’empowerment femminile viaggia (gratis) in autobus