7 Lug 2023

Gender bond: la finanza “di genere” sbarca in Pakistan e Filippine – #761

Scritto da: Francesco Bevilacqua
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Pakistan e Filippine sono stati gli ultimi due paesi in ordine di tempo a emettere i Gender Bonds, obbligazioni a sostegno di progetti per la parità di genere. Parità di genere che sembra essere ancora ben lontana in Afghanistan, anche se grazie al nostro corrispondente Guglielmo Rapino vogliamo provare a proporvi una narrazione diversa. Ma facciamo tappa anche a Bologna – che da una settimana è la prima “città 30” d’Italia – e a Firenze, dove è prevista una grande mobilitazione sindacale e ambientale.

Nei giorni scorsi anche Pakistan e Filippine hanno emesso i loro Gender Bonds, ovvero obbligazioni che vanno a sostenere le politiche di genere. Vediamo meglio di cosa si tratta grazie alla spiegazione che fornisce Valori in un recente approfondimento. In pratica un Bond di questo tipo è un titolo che garantisce liquidità all’ente emittente, liquidità che può venire investita in ambiti o progetti particolari.

Ad esempio, si stanno diffondendo i social bond o i sustainability-linked bond, che vanno a finanziare progetti nei campi del sociale e della sostenibilità ambientale. I Gender Bonds appunto vanno a finanziare progetti legati alla parità di genere. In proposito Valori fa riferimento a Prospera, una rete internazionale che riunisce fondi “femministi” che sostengono progetti incentrati su donne, ragazze e persone transgender e non binarie.

Da pochissimo anche il Pakistan, paese in cui spesso i diritti delle donne e delle persone LGBTQIA+ non sono garantiti, ha emesso i propri Gender Bonds. In realtà si tratta di un’iniziativa privata lanciata da una società di investimento che si occupa di inclusione finanziaria in Pakistan. L’obiettivo è raccogliere un importo pari a circa 8 milioni di euro da destinare alla Kashf Foundation, che si occupa di microcredito. Anche le Filippine hanno seguito l’esempio con un Gender Bond che ha l’obiettivo di sostenere le microimprese femminili.

Sul tema segnaliamo un’altra iniziativa finanziaria per combattere in particolare la violenza economica di genere. Ne abbiamo parlato poco tempo fa in un articolo a firma della nostra Brunella Bonetti: si tratta di Monetine, progetto lanciato da Fondazione Finanza Etica che ha l’obiettivo di contrastare una forma d’abuso che riguarda il 33% delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza.

“Per la prima volta i programmi di educazione finanziaria sono stati pensati per coinvolgere non solo le donne in condizione di vulnerabilità economica e le persone che operano nei centri antiviolenza, ma anche gli operatori e le operatrici bancarie che possono svolgere un ruolo importante nell’individuare le situazioni a rischio», ci ha spiegato la project manager Barbara Setti.

Rimaniamo sul tema e parliamo di una notizia che arriva dall’Afghanistan, dove il regime talebano ha deciso di chiudere entro un mese tutti i centri estetici e i saloni di bellezza gestiti da donne del paese. Eppure, come fa notare l’Avvenire, Tuttavia, fortunatamente, non sempre i decreti dei talebani vengono attuati alla lettera. Secondo l’agenzia tedesca “Dpa” a Kabul ancora molte donne continuerebbero a mostrarsi in pubblico con il volto scoperto ed è tollerato studiare in casa, anche con corsi online”.

A questo proposito vi voglio segnalare una nuova rubrica inaugurata lunedì scorso, intitolata “Afghanistan davvero” e curata da Guglielmo Rapino, cooperante e giornalista, collaboratore di Italia Che Cambia e attualmente inviato in Afghanistan per Intersos, partner di questa nuova iniziativa editoriale. L’obiettivo è raccontare ciò che succede davvero nel paese asiatico, al di là della narrazione spesso lacunosa e sensazionalista di molti organi d’informazione. “L’Afghanistan e ancora più la zona di Kandahar, roccaforte talebana – ha spiegato Guglielmo – subisce moltissimo il peso dello stereotipo del fazzoletto di terra povero e fondamentalista. Riuscire a raccontarne la storia profonda, le persone, le contraddizioni e la vita quotidiana sarebbe una grande finestra di consapevolezza”.

Dal 1° luglio Bologna è la prima città 30 italiana, ovvero il primo Comune che ha istituito il limite dei 30 km/h sul proprio territorio. Il provvedimento naturalmente è molto più complesso di così: si pone una serie di obiettivi tra cui l’aumento della sicurezza stradale e la riduzione dell’inquinamento, da raggiungere attraverso diverse misure come l’installazione di infrastrutture per il monitoraggio del traffico, un parziale ri-design dell’assetto stradale urbano, campagne di sensibilizzazione culturali e, ovviamente, l’abbassamento – a eccezione di alcune arterie a grande scorrimento – dei limiti di velocità da 50 a 30 km/h.

Fino a gennaio sarà in atto una fase di sperimentazione e realizzazione delle misure previste, anche se non sono mancate già le prime polemiche, come quella di alcuni sindacati del settore trasporti che prevedono che “l’impatto sarà negativo sul trasporto pubblico, perché si rallenterà la percorrenza: a parità di servizio, i passaggi alle fermate saranno più diradati”. Anche le associazioni di commercianti, alcune forze politiche e una fette di cittadinanza si sono dichiarati contrari al provvedimento.

In un mio articolo dello scorso anno ho provato a spiegare perché l’abbassamento del limite e in generale una svolta nel modo di intendere la mobilità urbana non solo siano auspicabili e urgenti, ma abbiano anche ottime potenzialità, come dimostrano i numerosissimi casi di città e metropoli europee che hanno deciso di percorrere questa strada.

Non si ferma la lotta dell’ormai ex personale della GKN, che da ormai due anni sta portando avanti la battaglia per veder riconosciuti i propri diritti dopo la chiusura a sorpresa dello stabilimento toscano. Un articolo del Manifesto di mercoledì 5 luglio fa il punto della situazione, con gli operai che sono ancora in attesa delle retribuzioni a loro spettanti e della cassa integrazione in deroga concessa dall’INPS.

Molto interessante però è la mobilitazione prevista per il fine settimana, quando gli operai verranno raggiunti a Campi Bisenzio non solo da attivisti e delegati sindacali dalla Germania, dall’Austria e dalla Svizzera, ma anche dai giovani dei Fridays for Future, con l’obiettivo di accomunare le lotte sindacali ed ecologiste e fare fronte comune contro il tentativo di divisione e di far passare il messaggio che la sostenibilità ambientale non è compatibile con la tutela dei diritti di lavoratrici e lavoratori.

Scrivono in un comunicato i FFF: “Siamo tuttɜ sulla stessa parte della barca. La loro barca: che mandiamo avanti e da cui siamo lɜ primɜ ad essere buttatɜ fuori. Ora il pretesto per farci star zittɜ è quello di metterci contro: lavoratorɜ contro ecologistɜ, popoli contro popoli. Eppure, in questa marea tentiamo di ricompattarci, stringendoci e avanzando, cercando nuove opportunità per essere un blocco. Per farci classe dirigente. Per convergere ed insorgere”.

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