Torniamo a parlare di Palestina, di Gaza, di Israele, di proteste e di università. Facciamo che vi faccio un po’ una panoramica delle varie cose che stanno succedendo, ok? Partiamo da lì, dall’epicentro, da Gaza. Cosa succede sul campo?
Quello che ci arriva, negli ultimi giorni, sono soprattutto numeri. Primo numero: 15mila. Sono, secondo le stime della Mezzaluna Rossa Palestinese i bambini che sono stati uccisi a Gaza dal 7 ottobre. Anzi, dice mezzaluna Rossa, più di 15mila. Cosa vuol dire 15mila bambin ie bambine uccise non lo so, non so proprio immaginarlo, penso che nessuna mente sia in grado di immaginarlo e per fortuna, perché chiunque ne rimarrebbe istantaneamente annichilito, se solo ce lo riuscissimo a figurare.
Questi oltre 15 mila bambini fanno parte delle oltre 35mila persone uccise dagli attacchi israeliani a Gaza. A cui si aggiungono altri 500 palestinesi circa uccisi negli attacchi delle forze israeliane e dei coloni in tutta la Cisgiordania occupata. Dove, peraltro, Hamas non c’è e non c’è mai stata.
Altro numero: 450mila. Sempre un numero che non vuol dire niente per il nostro cervello, troppo grande per poterlo capire. Eppure sono le persone che, secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei rifugiati palestinesi (Unrwa), sono state costrette a lasciare i loro rifugi a Rafah dal 6 di maggio, dopo che l’esercito Israeliano ha iniziato a sfollare i civili e ha di fatto iniziato l’operazione militare.
L’Unrwa ha aggiunto che i residenti di Rafah affrontano una situazione sempre più precaria, di stanchezza e fame, e l’unica speranza è un cessate il fuoco. “Le strade a Rafah sono vuote e le famiglie fuggono in cerca di sicurezza. Le persone affrontano una costante stanchezza, fame e paura”, si legge nella nota dell’agenzia Onu. “Nessun posto è sicuro. Un cessate il fuoco immediato è l’unica speranza”.
Rafah: parliamone. Rafah, giusto per ricordarlo, è una città a Sud della Striscia di Gaza dove sono stati convogliati tutti gli sfollati che lasciavano le altre zone via via che venivano bombardate e rase al suolo. E quindi bombardare e attaccare anche Rafah significa rischiare una ennesima carneficina e lasciare le persone letteralmente senza un luogo dove andare.
Comunque, su Rafah non è che si capisca bene. Tutti che cercano di dissuadere Netanyahu e il suo governo dall’attaccare Rafah, qualche giorno fa i rappresentanti Ue hanno fatto sapere che “Un’operazione a Rafah metterebbe a dura prova le nostre relazioni”, ancor prima Biden aveva detto che avrebbe persino interrotto il rifornimento di armi a Israele se l’esercito avesse attaccato Rafah. Tutti che usano il condizionale, tutti che dicono se, ma la realtà è che l’esercito israeliano ha già iniziato operazioni militari a Rafah. Sì, è vero, forse non quelle su ampia scala, non ci sono stati grossi bombardamenti, ma l’esercito è già entrato a Rafah. E sembra che si prepari a ampliare l’attacco, visto che – notizia di ieri – l’Idf ha schierato una ulteriore brigata nei pressi della città.
Secondo il sindacalista e attivista Giorgio Cremaschi, intervistato su Italia che Cambia da Laura Tussi, questa dinamica sarebbe in realtà un modo che hanno i governi occidentali per mostrare che stanno facendo qualcosa, che stanno facendo pressione, che sono in disaccordo, senza in realtà fare nulla. Leggo:
«Ha già ucciso 35.000 persone di cui 15.000 bambini, ma si prepara ad ammazzarne molti, molti di più. Israele dice e intima alla popolazione civile di spostarsi dalle tende. Chissà dove? Dove non bombarda, ma bombarda dappertutto. Il portavoce dell’esercito israeliano ha appena dichiarato che la guerra durerà un anno e le autorità occidentali e le stesse Nazioni Unite fanno finta e dicono che Israele non deve attaccare Rafah, ma lo sta facendo. Dicono che Israele non deve provocare una crisi umanitaria, ma è già in atto la crisi umanitaria. Dicono che Israele non deve colpire i civili, ma lo fa ogni minuto. Ecco, stanno facendo finta».
Per fortuna non dappertutto è così, l’occidente non è un blocco compatto internamente né esternamente. Abbiamo parlato delle enormi proteste nelle Università, e dopo ne riparliamo, ma considerate che nemmeno dentro allo stato di Israele sono tutti d’accordo. Già dentro al governo raccontano i giornali di liti e spaccature fra la fronda più estremista e quella più moderata. Ad esempio, sempre notizia di ieri, il ministro della Sicurezza nazionale Ben-Gvir, uno dei più estremisti, avrebbe chiesto di destituire il ministro della Difesa Yoav Gallant dopo che quest’ultimo ha chiesto al premier Netanyahu di “dichiarare che Israele non governerà la Striscia di Gaza”. Gallant stava accogliendo una delle principali richieste palestinesi, ovvero un dopoguerra in cui Israele lascia la Striscia, ma non tutti sembrano essere d’accordo.
E il disaccordo e la spaccatura interna diventa ancora più lampante se osserviamo la società israeliana nel suo complesso. Un bell’articolo di AltrEconomia a firma di Lidia Ginestra Giuffrida mostra quanto siano eterogenee anche le manifestazioni e proteste contro il governo Netanyahu. Si va da una maggioranza che la giornalista definisce sionisti liberali, di centrosinistra, che già l’anno scorso protestavano contro il governo Netanyahu e la riforma della giustizia. Poi ce n’è una parte concentrata soprattutto sul tema degli ostaggi e del loro rilascio. E poi invece una parte, più piccola e isolata ma comunque consistente, composta da chi si oppone proprio alla occupazione israeliana e al regime di Apartheid che vige nello stato di Israele, in cui i Palestinesi sono a tutti gli effetti cittadini di serie b o c, che non votano e hanno pochissimi diritti.
Insomma, complessità come al solito.
Allontanandoci un po’ dall’epicentro, vi riporto una notizia – anzi due – che invece arrivano dagli Usa. Dalle università Usa.
Martedì, due giorni fa, Mike Lee, presidente della Sonoma State University, che è uno dei campus dell’Università Statale della California, ha pubblicato una lettera in cui accettava diverse richieste degli studenti pro Palestina che da alcuni giorni stavano manifestando e si erano accampati nell’università.
La lettera rendeva la SSU la prima e per ora unica università statunitense ad accettare le richieste dei manifestanti e quindi di fatto a boicottare Israele. La lettera di Lee annunciava l’istituzione di un Comitato consultivo degli studenti per la giustizia in Palestina incaricato di supervisionare alcune attività della SSU, fra cui gli investimenti economici e trovare “alternative etiche” agli investimenti verso Israele, oltre al boicottaggio delle collaborazioni accademiche e degli scambi con università israeliane.
Insomma, accettava le richieste che molti studenti che protestano negli Usa stanno facendo alle proprie università. Il giorno dopo però Mildred Garcia, cancelliera dell’Università statale della California (USC), ha sospeso Mike Lee sostenendo che avesse preso quella decisione e scritto quella lettera senza seguire la giusta e necessaria procedura.
C’è poi il caso del Festival che si chiama Great Escape, grande fuga, e da cui tutti stanno letteralmente scappando. Ne parla il Guardian in un lungo articolo in cui descrive come più di 100 artisti abbiano rinunciato a partecipare all’edizione 2024 in solidarietà con la Palestina, boicottando l’evento a causa della sponsorizzazione di Barclays, grande banca accusata di finanziare il conflitto a Gaza attraverso investimenti in aziende che forniscono armi a Israele.
La petizione contro Barclays, iniziata da How To Catch A Pig e The Menstrual Cramps, ha guadagnato il supporto di numerosi musicisti come Alfie Templeman, Delilah Bon e i Massive Attack. Nonostante le pressioni, il festival non ha interrotto la partnership con Barclays, e questo ha causato una vera e propria emorragia di artisti e una lineup completamente da rifare.
È un fenomeno interessante, molto interessante. La mia impressione, confermata anche da vari sondaggi, è che l’opinione pubblica occidentale sia in stragrande maggioranza contraria all’invasione israeliana della Palestina.
Parliamone un secondo. Perché se sicuramente assistiamo al cosiddetto doppio standard di cui parla sempre Cremaschi nell’articolo su ICC per quanto riguarda governi e istituzioni, con reazioni e sanzioni diverse nei confronti, ad esempio di Israele e Russia, devo dire che non vedo la stessa cosa nell’opinione pubblica. Anzi, vi dirò, mi spingo a dire che forse vedo il contrario. Chissà, magari proprio per controbilanciare in qualche modo l’ipocrisia della politica, vedo una certa, diffusa, e abbastanza incomprensibile simpatia per Putin e per l’invasione russa dell’Ucraina.
Vi do qualche ultima notizia su Israele-Palestina e poi passiamo ad altro. Una cosa di cui si sta parlando parecchio da ieri è l’aggressione a Gabriele Rubini, in arte Chef Rubio, cuoco e attivista pro Palestina molto famoso in Tv, che è stato massacrato di botte.
Ora, la verità è che non so se la notizia sia effettivamente collegata a questa vicenda. Vi spiego, lo chef ha postato sul suo profilo «X» dove è molto seguito e dove non ha mai nascosto le sue posizioni pro Palestina, con post anche un po’ al limite dell’antisemitismo, tant’è che è finito sotto inchiesta per post antisemiti e istigazione all’odio razziale.
Comunque, Rubio posta un video in cui si vede completamente tumefatto in volto e sgorgante fiotti di sangue da una profonda ferita alla testa. E in cui dice «Mi hanno aspettato, hanno tagliato i fili del cancello elettrico. Sono stati gli ebrei sionisti, erano in sei. Mi hanno preso a martellate». In un secondo post aggiunge di avere punti in testa e una frattura all’orbita facciale.
Una storia molto brutta, ma di cui onestamente i contorni mi appaiono ancora troppo nebulosi per poter affermare qualcosa di perentorio. Non sappiamo chi erano le persone che hanno aggredito Rubio, gli unici indizi sono le sue parole, dalle quali però non si capisce da cosa lo abbia dedotto. E poi il fatto che il pestaggio sia accaduto in una data non a caso, ovvero il 15 maggio, 76° anniversario della cosiddetta Nakba, la “Catastrofe”, durante la quale due terzi dei palestinesi furono espulsi dalle loro terre e i loro villaggi vennero distrutti per lasciare spazio al neonato stato di Israele. Insomma, di certo non possiamo escluderlo, ma al momento nemmeno confermarlo.
Se volete approfondire la nakba vi lascio un altro articolo sotto Fonti e articoli, una intervista della nostra Lisa Ferreli a Fawzi Ismail, medico palestinese, presidente di Amicizia Sardegna-Palestina, in cui si parla anche di questo.
Intanto ieri c’è stato un incontro molto importante dal punto di vista geopolitico, fra Putin e Xi Jinping. Incontro avvenuto, racconta Limes, in occasione del 75° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Mosca e Pechino, con Putin che si è recato in Cina a trovare Xi, il quale lo ha accolto con tutti gli onori del caso.
Onori, sottolinea l’articolo, che non erano stati riservati al segretario di Stato Usa Antony Blinken nel suo recente viaggio a Pechino. Xi ha anche ha elogiato la capacità delle relazioni sino-russe di reggere “alle tempeste e ai cambiamenti” internazionali. Considerate che nel 2023, l’interscambio economico ha raggiunto la cifra record di 240 miliardi di dollari, soprattutto grazie alle importazioni cinesi di beni energetici russi e alle esportazioni in Russia di macchinari, prodotti elettronici e industriali.
Il viaggio di Putin in Cina segue quello di Xi in Europa, durante il quale sia il presidente della Francia Emmanuel Macron sia la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen hanno cercato di pressarlo affinché Pechino interrompa il supporto allo sforzo bellico russo mediante la fornitura di beni a uso duale civile/militare.
Senza troppo successo, evidentemente. Conclude l’articolo: “Sebbene la guerra d’Ucraina abbia colpito alcuni interessi della Cina continentale, Pechino ha confermato ancora una volta la sempre più asimmetrica partnership con Mosca. Gli equilibri tra le due grandi potenze sembrano infatti sbilanciati in favore della Repubblica Popolare”.
Diversi giornali, da Repubblica al Corriere, dedicano ampio spazio a quella che viene definita la “Stretta del governo” sui bonus edilizi. Nel gergo giornalistico quando si parla di stretta, o di giro di vite, si intende il fatto di chiudere i rubinetti dei soldi, sostanzialmente.
E secondo quello che traspare dai giornali, il governo sarebbe intenzionato – anzi starebbe già facendo – una serie di azioni per ridimensionare il complesso dei bonus edilizi, a partire dal Superbonus 110%, che è praticamente terminato alla fine dello scorso anno (a parte alcune eccezioni) ma che adesso viene ulteriormente depotenziato, in maniera retroattiva.
Leggo dal Corriere: “Dal Superbonus ai bonus «ordinari» per le ristrutturazioni domestiche è ormai chiaro che il governo ha cambiato marcia e sembra intenzionato a mettere mano a tutto il complesso delle norme – molto articolate – che regolano le detrazioni fiscali sui lavori in casa”.
L’articolo poi passa in rassegna le varie novità, che vi provo a riassumere. C’è innanzitutto il capitolo Superbonus 110%. Che sarebbe quella misura fortemente voluta dal M5S durante il governo Conte e che sostanzialmente offriva agevolazioni sotto forma di sgravi fiscali di un importo maggiore del costo, a chi voleva fare interventi per l’efficientamento energetico-sismico degli edifici. Dalla fine dello scorso anno non si possono fare più richieste per il bonus 110, a parte rare eccezioni, e la misura andrà scomparendo, ma comunque sono state approvati degli emendamenti che, diciamo, spalmano ulteriormente il peso fiscale di questa misura sulle casse statali.
In particolare:
- l’obbligo retroativo di spalmare la detrazione fiscale in 10 anni, anziché in quattro/cinque come oggi previsto.
- il divieto per le banche di compensare i crediti d’imposta derivanti da bonus fiscali con i contributi previdenziali
Sono due robe abbastanza tecniche, ma il senso è che lo stato spalma su più anni, a livello di bilancio, il peso del Superbonus.
Comunque, come dicevamo, la “stretta” non riguarda solo il Superbonus ma anche il bonus ristrutturazioni, che è un po’ il capostipite dei vari bonus edilizi.
Il bonus ristrutturazioni consiste in una detrazione dall’Irpef da ripartire in 10 quote annuali di pari importo, del 36% delle spese sostenute, fino a un ammontare complessivo massimo di 48.000 euro. In precedenza, per le spese sostenute dal 2012 fino alla fine di quest’anno, il bonus è stato alzato al 50% e il limite massimo di spesa è stato portato a 96.000 euro per unità immobiliare.
Il governo ha già fatto capire che non vorrà prorogare ulteriormente questa versione pompata del bonus, quindi già da gennaio 2025 il bonus quasi sicuramente tornerà alla sua forma originaria, ovvero al 36% su un massimo di 48 mila euro.
Poi, e qui arriva l’ulteriore novità, il governo intende tagliare ulteriormente, per almeno 5 anni, ovvero dal 2028 al 2033, questo bonus, portandolo al 30%. Questo in realtà per questioni se ho ben capito di bilancio. Cioé: il Superbonus doveva pesare, in termini di bilancio, fino al 2028. Spalmandolo su 10 anni arriva di fatto al 2033, e quindi va a pesare su 5 anni in più del previsto, per quanto in maniera minore.
Per cui, per compensare in chiave di bilancio il peso del Superbonus su quel quinquennio, il governo taglia il bonus ristrutturazioni. Questo è il quadro.
Questo è un po’ il quadro. Da cui emerge che al governo non interessa investire sulla ristrutturazione e l’efficientamento energetico degli edifici, anzi è qualcosa su cui tagliare abbondantemente, per investire su altro. Ora la domanda è: come sta insieme questa cosa con la nuova direttiva Case Green approvata dall’Ue, che prevede un abbattimento del 55% entro il 2030 delle emissioni delle abitazioni europee rispetto ai livelli del 1990?
Oppure il governo confida che il Parlamento che emergerà dalle prossime elezioni europee sia molto diverso dall’attuale e rimetta in discussione tutto l’impianto del Green Deal?
Audio disponibile nel video / podcast
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Altreconomia – Le mille facce e differenze del movimento israeliano contro Benjamin Netanyahu
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Corriere della Sera – Chef Rubio aggredito a Roma: «Sono stati gli ebrei sionisti, erano in sei. Io preso a martellate». Solidarietà dai movimenti pro Gaza
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