25 Ott 2023

Gaza, si intensificano i bombardamenti – #817

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Mentre a Gaza la situazione resta drammatica, con l’esercito israeliano che ha intensificato i bombardamenti, gli Usa sembrano in bilico fra lo svolgere una funzione distensiva, cercando di scongiurare l’invasione della Striscia da parte delle truppe israeliane, e al tempo stesso prepararsi ad un allargamento del conflitto, richiamando i propri cittadini da tutta l’area. Parliamo anche dell’enorme sciopero generale delle donne in Islanda, della Spagna che potrebbe aver trovato un governo, dell’incidente ferroviario in Bangladesh e infine del peso delle agenzie di rating sulle sorti degli Stati.

Torniamo a parlare della situazione a Gaza e come al solito cominciamo con gli ultimi aggiornamenti sulla situazione. Leggo dal Post che “Dopo aver annunciato che avrebbe intensificato i bombardamenti sulla Striscia di Gaza, negli ultimi due giorni l’esercito israeliano ha detto di aver colpito almeno 720 obiettivi legati ad Hamas. Sta continuando a chiedere l’evacuazione dal nord della Striscia, probabilmente in vista dell’annunciata invasione di terra, ma ci sono notizie di molti bombardamenti anche nelle zone del sud, dove negli ultimi giorni sono arrivati centinaia di migliaia di civili. 

Hamas dice che tra ieri e oggi nella Striscia almeno 700 persone sono state uccise nei bombardamenti israeliani. Lunedì sera Hamas ha liberato altri due ostaggi, due donne israeliane di 79 e 85 anni (dopo le prime due donne americane liberate venerdì scorso): una delle due ha raccontato di essere stata detenuta nei tunnel sotterranei di Hamas per 17 giorni mangiando solo formaggio e cetrioli. 

Mi sposto su Repubblica per segnalare che è stato particolarmente intenso il momento del rilascio dell’85enne Yocheved Lifshitz, perché c’è un video in cui si vede la donna che stringe la mano a uno dei suoi rapitori di Hamas e dice “shalom”, un saluto ebraico che significa “pace”. È emozionante vedere come le persone, alcune persone, siano capaci di mantenere una grande umanità anche in momenti come questo.

Torniamo sul Post: “Secondo l’esercito israeliano le persone prese in ostaggio da Hamas sono almeno 220 tra israeliani e stranieri. Da tre giorni stanno entrando nella Striscia camion di aiuti umanitari con cibo, acqua e medicine, ma non con il carburante, che sarebbe fondamentale per dare energia elettrica a ospedali e case. Sono passate più di due settimane dagli attacchi di Hamas del 7 ottobre: secondo il ministero della Salute di Gaza nella Striscia sono state uccise oltre 5.700 persone; negli attacchi di Hamas in Israele sono state uccise almeno 1.400 persone”.

Come riportano quasi tutti i media, la stragrande maggioranza di queste persone uccise a Gaza sono civili. Tuttavia l’esercito israeliano sembra molto soddisfatto del risultato perché, come spiega un articolo su Limes, “avrebbero ucciso dozzine di combattenti di Ḥamās”. Tsahal ha quindi annunciato che i bombardamenti sull’exclave palestinese non subiranno allentamenti. La mossa del Movimento islamico di resistenza per la Palestina di liberare due donne israeliane tra gli oltre duecento ostaggi catturati durante l’assalto del 7 ottobre non ha dunque sortito effetti sulla condotta bellicista del governo di Binyamin Netanyahu. 

Incontrando il presidente della Francia Emmanuel Macron, ‘re Bibi’ è stato assai chiaro nell’imputare ad Hamas ogni responsabilità per le morti tra i civili palestinesi, impiegati come scudi umani in superficie mentre i membri del gruppo paramilitare si riparano nei tunnel sotterranei. Per Netanyahu, “è una guerra tra civiltà e barbarie”. Le forti esternazioni del primo ministro israeliano paiono un preambolo per l’invasione di terra volta a debellare l’organizzazione terroristica.

Nel frattempo, su richiesta dell’esercito israeliano l’azienda statunitense Alphabet – holding di Google e di altre piattaforme online – ha sospeso la diffusione di informazioni relative all’affollamento di utenti e al traffico in tempo reale in Israele e nella Striscia di Gaza. Tali informazioni mappate potrebbero infatti rivelare all’istante i movimenti delle truppe dello Stato ebraico.

Intanto continuano i posizionamenti delle varie potenze militari mondiali. Il governo Usa continua a giocare una partita doppia, in cui da un lato cerca di dissuadere quello israeliano dall’invadere Gaza, dall’altra si prepara a che ciò accada, con mosse offensive (tipo l’invio della mega portaerei di cui parlavamo lunedì) e difensive tipo questa riportata dal Washington Post: in pratica secondo il giornale americano, che cita fonti dell’Amministrazione, l’Amministrazione sta preparando piani di evacuazione per centinaia di migliaia di statunitensi presenti tra Israele e Libano, in vista di un possibile allargamento del conflitto.

Inoltre, in vista di un assalto a Gaza, il Pentagono ha inviato in Israele consiglieri militari, tra cui un generale del Corpo dei Marines esperto in guerra urbana, e sta accelerando l’allestimento di molteplici sofisticati sistemi di difesa aerea.

Ecco, questa è la situazione, all’incirca.

Intanto sembra essere vicina un’intesa per un governo spagnolo. Leggo dal Fatto Quotidiano: “Sarà di nuovo un governo a trazione socialista quello che si appresta a nascere in Spagna dopo le elezioni del luglio scorso. Il Psoe ha infatti annunciato di aver raggiunto un “accordo programmatico” per un nuovo “governo di coalizione progressista” con il movimento Sumar di Yolanda Diaz, rispettando così le premesse fatte da Pedro Sanchez prima di recarsi alle urne.

Un governo che, almeno nella sua impostazione ideologica, segna una continuità con quello precedente, composto sempre dal Psoe e da Unidas Podemos, confluito nella nuova formazione di sinistra guidata dall’ex ministra del Lavoro. Per potersi confermare come premier, Sanchez dovrà come sempre ottenere il sostegno di diversi altri partiti, tra cui gli indipendentisti catalani di Esquerra Repubblicana e di Junts per Catalunya, formazioni con cui continuano negoziati politici sottotraccia. In base a quanto previsto dalla Costituzione, se non riuscisse a ottenere la fiducia del Parlamento entro il 27 novembre il re dovrà sciogliere le Camere e indire nuove elezioni.

L’intesa programmatica tra Psoe e Sumar è stata annunciata dopo diversi giorni in cui le due formazioni hanno messo pubblicamente in scena divergenze su alcuni temi di dibattito pubblico, in particolare in materia di misure sul lavoro. Ma tra gli osservatori politici non c’erano dubbi che il patto sarebbe arrivato. “Questo accordo di governo sarà valido per una legislatura di quattro anni – si legge in un comunicato congiunto – Consentirà al Paese di continuare a crescere in modo sostenibile e con un mercato del lavoro di qualità, attraverso politiche basate sulla giustizia sociale e climatica e volte all’estensione dei diritti”. La riduzione della settimana lavorativa “senza diminuzioni salariali”, permessi di paternità e maternità più ampi, una riforma fiscale “equa” che “faccia sì che banche e grandi compagnie energetiche contribuiscano alla spesa pubblica” e un nuovo aumento del salario minimo sono alcuni dei principali impegni di governo assunti.

Ieri è stata una giornata particolare per l’Islanda. C’è infatti un enorme sciopero generale delle donne (e delle persone non binarie) per protestare contro le violenze di genere e le disparità di retribuzione salariale. 

Tanti giornali ne parlano e tanti fanno il parallelismo con un altro enorme storico sciopero femminile che si tenne in Islanda nel 1975 e che dette il via a una ondata di scioperi simili in diversi paesi occidentali. Come scrive Kevin Carboni su Wired: “È il primo sciopero di questo tipo dal 1975, quando in Islanda venne organizzato una mobilitazione nazionale di tutte le donne del paese, per rimarcare il loro apporto fondamentale all’economia e alla società. Quasi 50 anni dopo, la platea di partecipanti si è allargata ma le ragioni della protesta restano le stesse”.

Sono 30 le organizzazioni che hanno preso parte alla campagna e persino la prima ministra Katrin Jakobsdottir ha partecipato al corteo. Non ci sono ancora dati certi sui numeri, ma c’è stata una mobilitazione ampissima, e si parla già del più grande sciopero femminile nella storia del paese. Un’azione di profondo impatto politico, con l’interruzione sia del lavoro retribuito che di quello domestico e di cura, che per consuetudine ricadono di più sulle spalle delle donne.

Come ha detto al Guardian rifa Snaedal, una delle organizzatrici della protesta, “La violenza contro le donne e il lavoro sottopagato sono due facce della stessa medaglia e hanno effetto l’una sull’altra”. Per questo, il contrasto alla violenza di genere è stata al centro delle istanze che le donne hanno portato nelle strade islandesi, assieme alla parità retributiva e salariale. 

L’articolo cita poi alcuni dati: secondo il report sul divario di genere compilato ogni anno dal World Economic Forum, in Islanda, più di una donna su tre ha subìto violenza nella propria vita e nonostante il paese sia tra i più vicini al raggiungimento della parità di genere, il divario salariale in alcune professioni sarebbe ancora a circa il 21%.

Una condizione che perdura nonostante una legge del 2017 imponga alle società e alle aziende di certificare l’uguaglianza degli stipendi tra uomini e donne a parità di mansioni lavorative. La richiesta delle organizzazioni è quindi che sia sancito l’obbligo di rendere pubblici gli stipendi nei settori dove si ha una maggioranza di lavoratrici femminili, come quello assistenziale e delle pulizie, dove gli stipendi sarebbero significativamente più bassi.

Vi segnalo prima di passare ad altro un articolo molto approfondito del Post che si chiama “L’altra volta in cui le donne scioperarono in islanda”, che racconta appunto lo scioperlo del 1975, passato alla storia come kvennafri, cioè giorno libero delle donne, in cui circa il 90% della popolazione femminile del paese incrociò le braccia. Fu una data storica che cambiò completamente l’approccio politico alla questione femminile, innescando una lunga stagione di riforme. Cinque anni dopo, nel 1980, la popolazione elesse la sua prima presidente donna, Vigdis Finnbogadottir, che fu anche la prima donna al mondo a essere scelta in modo democratico come capo di stato.

Piccolo break, fra le notizie, per una comunicazione di servizio. Abbiamo decisio di raccontare le storie delle persone che hanno cambiato qualcosa nella loro vita grazie a Italia che Cambia. Negli anni in molti e molte ci hanno detto che ICC ha avuto un impatto sulle loro vite, e questo è molto bello. Adesso vorremmo iniziare a raccontare queste storie, per cui se in qualche forma o misura ICC ha cambiato la tua vita, in meglio, scrivi una mail a redazione@italiachecambia.org.

Se invece l’ha cambiata in peggio, che ti devo dire, vienici a cercare!

C’è stato un grosso incidente ferroviario in Bangladesh lunedì pomeriggio, in cui almeno 17 persone sono morte e 100 persone sono state ferite. L’incidente è avvenuto a 80 chilometri a nord-est di Dacca, la capitale del paese: un treno merci si è scontrato con il retro di un treno passeggeri, facendo rovesciare tre carrozze con a bordo passeggeri.

Il Post è uno dei pochi giornali a nominare l’accaduto, quindi un plauso al Post che è molto democratico  nei confronti delle tragedie, mentre l’agenda di molti giornali attribuisce peso a una tragedia a seconda dell’area geografica in cui avviene. È vero, ci sono luoghi del mondo in cui episodi del genere capitano più di frequente, ma la sensazione è che nell’agenda dei giornali, e un po’ diciamocelo, anche nel nostro immaginario, ci siano vite che valgono più di altre. E forse i giornali potrebbero fare qualcosa per scardinare questo immaginario inconscio, proprio dando maggior risalto a queste notizie.

Comunque, torniamo ai fatti. Secondo un dirigente dell’amministrazione locale che ha parlato con l’agenzia di stampa AFP, Sadiqur Rahman Sabuj, il numero dei morti potrebbe aumentare perché gli addetti alle operazioni di soccorso non hanno finito di liberare le persone rimaste intrappolate nelle carrozze rovesciate e si pensa che alcune siano state schiacciate al loro interno. Nelle due carrozze maggiormente coinvolte nell’incidente viaggiavano circa 300 persone.

Lo scontro è avvenuto mentre il treno passeggeri stava deviando. È stata avviata un’indagine per determinarne le cause, al momento ancora da chiarire. Un dipendente delle ferrovie che ha parlato con BBC Bengali chiedendo di non essere citato per nome ha detto che probabilmente l’incidente è stato causato da un errore nella trasmissione delle comunicazioni ai treni.

Gli incidenti ferroviari in Bangladesh non sono rari a causa dell’obsolescenza delle infrastrutture ferroviarie, molto usate dalla popolazione. Nel luglio del 2022 almeno 11 persone morirono in uno scontro tra un treno passeggeri e un vagone merci; nel novembre del 2019 almeno 19 nello scontro tra due treni passeggeri. In questi giorni molti bangladesi si stanno spostando tra città per la festività induista di Durga Puja, iniziata venerdì e in corso fino a martedì”.

Cambiamo argomento, parliamo di debito pubblico. C’è un articolo molto interessante scritto da Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea a Pisa, che parla degli intrecci pericolosi fra agenzie di rating e fondi d’investimento e come questo possa mettere a pericolo di speculazione il debito sovrano degli stati. 

È un articolo abbastanza tecnico, proverò a spiegare i passaggi più ostici, ma capisco che alcune cose potrebbero essere difficilmente accessibili. 

Leggo: “Il debito mondiale è stimato intorno a 307mila miliardi di dollari, di cui circa 100mila sono costituiti da debiti pubblici (ovvero debiti degli enti pubblici, degli stati principalmente,  il resto sono debiti di privati, aziende e famiglie). Si tratta di cifre record, quasi raddoppiate rispetto al 2015. Per pagare gli interessi su questo debito pubblico serve una quantità di risorse finanziarie pari al 15-17% del Pil globale e se i tassi salissero ancora si arriverebbe presto al 20%. 

“Una cifra spaventosa da cui dipende la tenuta degli Stati e, nel caso del debito privato, di famiglie e imprese. Ma dove si trova la liquidità per finanziare una simile montagna di carta? In parte, soprattutto nel caso del debito americano, ci pensa la Federal Reserve con il dollaro, ma neppure questo intervento basta”. Tradotto, la banca centrale americana stampa moneta (stampa si fa per dire) con cui rifinanzia il debito americano, in parte. “Diventano indispensabili, dunque, le risorse del famoso “risparmio gestito” che negli ultimi anni si è concentrato nelle mani di pochissimi grandi fondi finanziari, destinati a divenire così essenziali per la vita stessa dei Paesi e quindi in grado di dettare le regole del funzionamento dell’economia e della politica”.

Che sarebbe il risparmio gestito? Sarebbero i fondi d’investimento, gli hedge funds, ovvero i fondi che investono per conto di terzi. 

“Anni di abbattimento del carico fiscale sui profitti e sulle rendite hanno reso l’indebitamento la strada obbligata per finanziare la spesa sociale (tradotto, abbiamo tolto un sacco di tasse sui profitti e sulle rendite e quindi di entrate per lo stato) e quando l’inflazione, scatenata dalla speculazione, ha spinto le banche centrali al rialzo dei tassi quel debito è diventato onerosissimo e dunque la strada dei grandi fondi, dei “padroni” del mondo, si è spalancata in un duplice modo: con le privatizzazioni, per il costo dello Stato sociale, e con il finanziamento del debito a tassi altissimi. Verrebbe da pensare che l’inflazione speculativa sia stata costruita dai fondi proprio per arrivare qui. In una situazione siffatta acquistano ancor più peso le agenzie di rating”. 

Ecco che entrano in gioco: sarebbero le agenzie che danno un voto su una serie di investimenti, esprimendo un giudizio su quanto sono sicuri.

Ormai da tempo queste agenzie di esprimono pagelle determinanti nella formazione delle strategie di investimento dei fondi pensione e dei fondi istituzionali e persino per l’elaborazione delle condotte monetarie della Banca centrale europea; sono decisive quindi nell’orientare proprio il vastissimo mondo del risparmio gestito e incidono sull’istituto di Francoforte (Bce), che, pur dotato di propri organismi di valutazione, considera in maniera assai attenta i giudizi delle agenzie.

Sappiamo che le tre agenzie principali sono Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch ma quello che, appunto, forse ricordiamo meno è la loro proprietà su cui vale la pena effettuare un breve ripasso. Moody’s appartiene a Warren Buffet, attraverso il fondo Berkshire, e ad una decina di grandi fondi finanziari, tra cui BlackRock. Standard & Poor’s è controllata, attraverso McGraw-Hill, da un grande fondo come Capital World e, di nuovo, da BlackRock, Vanguard e Capital Research Management, mentre Fitch è riconducibile ad Hearst Corporation. In sintesi, i soggetti che esprimono valutazioni decisive sulla finanza, pubblica e privata, e in particolare sui debiti, sono nelle mani di realtà finanziarie che partecipano direttamente al mercato finanziario.

Per essere più chiari, le sorti globali discendono dalle valutazioni di società private che devono fare profitti e che sono partecipate, in particolare dopo la crisi del 2008, dai più grandi fondi finanziari del Pianeta, impegnati a scommettere a piene mani contro molti debiti, vendendo assicurazioni in caso di loro fallimento”. 

Quello che il professore sta cercando di dire è che i fondi speculativi sono sia gli arbitri della partita che una squadra in campo. Si capisce che non funziona.

“Ma ciò che rende ancora più incredibile una simile situazione è la duplice circostanza che queste agenzie sono già state causa di enormi disastri finanziari, come nel 2001 e nel 2008 -garantendo però lautissimi proventi ai loro azionisti-, e che dovrebbero sottostare al controllo dell’agenzia europea Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati, dimostratasi a più riprese del tutto inadeguata. Del resto, la normativa europea e internazionale consente che organismi il cui “core business” è la valutazione di strumenti finanziari cruciali, come nel caso dei debiti sovrani, possano essere di proprietà degli stessi player che scommettono su tali strumenti finanziari e, non di rado, li producono.

Ma perché la politica non propone un semplice regolamento, molto chiaro, per cui le agenzie di rating non possono essere di proprietà di soggetti finanziari che, evidentemente, non possono essere imparziali? Gli strumenti di valutazione utilizzati dai presunti mercati sono in realtà formidabili macchine da soldi che spesso si alimentano con i pareri negativi che esprimono. Forse la strada più logica sarebbe quella di creare un’agenzia di rating internazionale e indipendente, priva del tutto di scopi di lucro e votata, in termini statutari, all’interesse pubblico. Ma, probabilmente, si tratta di un’utopia perché il mercato, ormai, sembra non esistere senza la speculazione.

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