Rieccoci dopo due giorni di pausa forzata, e ripartiamo da dove eravamo rimasti, ovvero dalla notizia che sta continuando a tenere banco su tutti i giornali del mondo: la situazione a Gaza. Il fatto più sconvolgente di questi giorni, che sta già cambiando gli equilibri mondiali, è stato il razzo lanciato martedì sera su un ospedale di Gaza, che ha provocato centinaia di morti. Non si sa esattamente quanti, i giornali parlano di circa 500 morti, ma è una stima.
Su questo fatto tragico, ci sono come al solito due versioni. Hamas sostiene che sia un razzo lanciato da Israele, Israele sostiene che sia un missile di Hamas difettoso. Entrambe le versioni, devo dire, hanno delle prove o perlomeno degli elementi a loro favore.
A favore della tesi che sia stato l’esercito Israeliano c’è il fatto che, leggo da un articolo sul FQ, “C’è un precedente che riguarda l’ospedale Al-Alhi di Gaza, (quello colpito dal missile). La struttura era già stata centrata alcuni giorni fa da un razzo israeliano e l’esercito di Tel Aviv aveva intimato per tre volte l’ordine di evacuazione. Passato sotto silenzio per ore, il primo attacco subito è stato sottolineato dalla Chiesa anglicana, che finanzia l’ospedale ed è indipendente dalle fazioni politico-militari presenti nella Striscia. E in Rete si ritrovano diverse tracce delle reazioni della stessa Chiesa al primo strike sulla struttura, avvenuto sabato scorso, che aveva provocato 4 feriti tra gli operatori sanitari”.
Quindi insomma ci sarebbero stati precedenti bombardamenti e ordini di evacuazione da parte di Israele, il che lascia intendere una volontà di attaccare, anche se non ne capisco onestamente il motivo strategico, visto che è una mossa che ti rende immediatamente ostile il mondo, è un crimine di guerra acclarato.
Dall’altro lato Israele ha mostrato una serie di filmati, mostrati peraltro in anteprima da Al Jazeera, quindi da una fonte non filoisraeliana, che testimonierebbero il lancio di un razzo da parte di hamas proprio in concomitanza con l’esplosione nell’ospedale e quindi sostiene che si sia trattato di un razzo difettoso di hamas, come ne sono esplosi, leggo, più di 400 dall’inizio del conflitto.
Quindi ecco, mi limito a riportarvi le due versioni perché davvero non ho i dati né le competenze per dirvi in questo caso come siano andate le cose. I governo occidentali hanno subito abbracciato la tesi israeliana, e quelli dei paesi arabi quella di Hamas, ma questo è abbastanza ovvio. Un fatto come questo è in grado di minare, soprattutto nel caso di Israele, l’appoggio da parte dell’opinione pubblica mondiale. Però ecco, questo non cambia di una virgola le possibilità che le cose siano andate in un modo o nell’altro. Semplicemente, credo che sia molto difficile da ricostruire.
Nel frattempo continua a proseguire il gioco dei posizionamenti, un gioco molto pericoloso che di nuovo ci presenta un mondo fatto a blocchi. La Repubblica di ieri, cartacea, apriva in prima pagina con un chiaro esempio di dissonanza cognitiva. Il titolo a tutta pagina era “Biden il mediatore”, e subito sotto c’erano due foto una accanto all’altra. Una riprendeva Biden e Netanyahu seduti uno di fronte all’altro (Biden è stato in visita a Netanyahu in questi giorni schierandosi apertamente al lato di Israele) e l’altra Putin e Xi Jinping che camminano assieme (Putin è stato ospite negli stessi giorni del forum cinese sulla nuova via della seta).
Fra l’altro, a confermare che la mediazione di Biden se l’è sognata il titolista, l’articolo di commento subito sotto a firma di Paolo Garimberti attacca dicendo: “Non era mai successo che un presidente americano andasse in prima linea durante una guerra. Joe Biden lo ha fatto esponendosi a un rischio enorme, non tanto fisico quanto politico.”
Poi, leggendo bene, si capisce che il titolo è dovuto al fatto che Biden ha insistito molto sul tema degli ostaggi, e quindi il mediatore è riferito alla figura che in genere tratta il rilascio degli ostaggi. Però diciamo che è un titolo quantomeno ingannevole. Forse potevo quasi farci una puntata di trova il bias.
Comunque, al di là dei titoli dei giornali, ci sono tanti sommovimenti strategici in atto, anche cose apparentemente piccole che però sommate insieme producono risultati tangibili. Un elemento abbastanza eclatante è che mercoledì (18 ottobre) gli Usa hanno bloccato con il veto la bozza del Consiglio di Sicurezza Onu preparata dal Brasile che chiedeva una “tregua umanitaria” nel conflitto tra Israele e Hamas per consentire l’accesso degli aiuti alla Striscia di Gaza. Un testo che, a differenza di quello russo che non è passato al voto lunedì, “condanna inequivocabilmente gli atroci attacchi terroristici di Hamas“, e ha ottenuto 12 voti a favore, il no degli Usa, e due astensioni, Russia e Gran Bretagna.
Sempre sulla situazione geopolitica, vi leggo come Daniele Santori su Limes descrive gli intrecci fra il governo dell’Iran, le milizie di Hezbollah e quelle di Hamas, e anche il delicato equilibrio fra i governi di Israele e Turchia alla luce di quello che sta accadendo.
“Dopo la sorprendente e umiliante offensiva di terra lanciata da Ḥamās (Hamas) la mattina del 7 ottobre lo Stato ebraico non ha altra alternativa che entrare a Gaza per provare a ristabilire una parvenza di deterrenza. Mentre Ḥizbullāh (Hezbollah), da nord, sembra non attendere altro che l’obbligato passo falso del nemico sionista per costringerlo a combattere su due fronti. Con i persiani (l’Iran) che si preparano ad aprire un terzo fronte trasferendo armamenti e milizie verso la Siria occidentale.
E gli israeliani che brancolano palesemente nel buio. Affidandosi al massiccio aiuto dell’America, che intende inviare nel Mediterraneo orientale una seconda portaerei, con relativo gruppo di battaglia, mettere a disposizione di Gerusalemme duemila marines con compiti di sostegno logistico, approvare un nuovo pacchetto di aiuti militari da due miliardi di dollari per l’alleato mediorientale (e l’Ucraina), oltre agli armamenti già consegnati allo Stato ebraico negli scorsi giorni.
Gli Stati Uniti si stanno facendo coinvolgere sempre meno indirettamente nel conflitto, mentre l’Iran ne resta formalmente fuori. Non è America e Israele contro Iran, ma America e Israele contro gli agenti di prossimità dell’Iran. Uno dei quali – Hamas, che ha acceso la miccia palestinese – veniva dato per cerebralmente morto non solo dall’intelligence israeliana ma anche dal resto dei servizi segreti mediorientali. Già in questo sta la misura del successo dei persiani, che stanno costringendo la superpotenza a impaludarsi di nuovo nel pantano mediorientale. Controvoglia, senza motivazioni strategiche. Con la stessa astrategicità che contraddistingue la reazione israeliana agli stimoli provenienti da Teheran, questi sì manifestazione di una visione propriamente strategica.
Il tutto nella prospettiva di una guerra lunga che promette di cambiare i parametri della competizione mediorientale e la cui posta in gioco nel medio-lungo periodo rischia di diventare la sopravvivenza stessa di Israele. Già travagliato da linee di faglia forse non ricomponibili. Ed eccessivamente dipendente da un’America internamente fratturata e tendente all’isolazionismo.
Ma gli effetti della sorprendente mossa persiana non sono limitati al confronto Israele-Iran per interposti Hamas ed Hezbollah. Influiranno in profondità sulla natura delle relazioni tra lo Stato ebraico e i suoi “alleati” mediorientali. Vecchi e nuovi. Il saudita Muḥammad bin Salmān (MbS), per esempio, ha dovuto improvvisamente innestare la retromarcia sulla normalizzazione con Gerusalemme, naufragata e destinata a sprofondare negli abissi mediorientali.
E anche gli Stati arabi che hanno già stabilito rapporti formali con Israele potrebbero essere costretti a rivedere il livello della cooperazione – o peggio – qualora il numero di vittime civili provocato dalla rabbiosa vendetta di Tsahal superasse la (peraltro molto elevata) fisiologica soglia di resistenza della celeberrima piazza araba. Forse oltrepassata con la strage dell’ospedale al-Ahli, che le opinioni pubbliche mediorientali attribuiscono inequivocabilmente a Gerusalemme.
Più avanti l’articolo introduce il tema dei rapporti fra Israele e Turchia, chiave strategica di questo conflitto. Di recente infatti c’è stata “La riconciliazione tra Turchia e Israele, celebrata in pompa magna lo scorso 19 settembre con lo “storico” incontro tra Erdoğan e Netanyahu a New York. Durante il quale i due veterani del Medio Oriente hanno grottescamente discusso, tra le altre cose, la normalizzazione tra Gerusalemme e Riyad. A riprova di come il presidente turco non avesse alcun sentore di quanto stesse bollendo nella pentola gaziana.
L’intesa tra Turchia e Israele ha ontologicamente il potenziale per cambiare il Medio Oriente, e non solo. Il progetto di condurre il gas israeliano in Europa attraverso un gasdotto sottomarino e l’infrastruttura turca può rivoluzionare la partita energetica che si gioca nel Mediterraneo orientale.
A ciò si aggiunga che la cooperazione di intelligence sviluppata da Ankara e Gerusalemme nell’ultimo triennio ha già prodotto risultati tutt’altro che trascurabili in chiave anti-iraniana, permettendo, per esempio, a Turchia e Israele di arginare l’influenza di Teheran nell’Alto Iraq. Dove alla coppia turco-israeliana si sono di recente aggregati anche gli Emirati Arabi Uniti, ai quali infatti la Repubblica Islamica ha indirettamente inviato inequivocabili segnali di disagio.
Poi l’articolo descrive molto nel dettaglio alcune mosse strategiche dei paesi coinvolti negli ultimi mesi, interessanti ma meno rilevanti, che v salto, per andare verso la conclusione dove parla della situazione attuale:
“La spregiudicata mossa persiana ha colto Erdoğan in mezzo al guado. Nello scorso biennio il presidente turco ha consapevolmente fatto emergere in superficie l’intesa con Israele, disarticolando contestualmente la struttura della Fratellanza musulmana – Hamas compresa – in territorio turco. Convinto che non gli sarebbe più servita e che il conflitto israelo-palestinese fosse una reliquia del passato. Peccato mortale per colui che un decennio fa si atteggiava a “re di Gaza”.
Perché nel giro di poche ore l’Iran ha ristabilito i parametri classici della geopolitica mediorientale. Ponendo la Turchia di fronte a un atroce dilemma: puntare sulla partnership con Israele rinunciando di fatto – quantomeno nel futuro prevedibile – all’ambito ruolo di Stato-guida del mondo musulmano o rincorrere l’Iran nella contesa per la leadership dell’ecumene islamica mandando a monte la preziosa intesa con lo Stato ebraico.
Entrambe le opzioni danneggerebbero notevolmente la postura globale di Ankara. Anche perché non è detto che la prima sia effettivamente percorribile. Nelle prime fasi della guerra l’opinione pubblica turca ha esibito una sorprendente maturità strategica. Accodandosi alla narrazione di Erdoğan e soprattutto del suo alleato ultranazionalista Devlet Bahçeli, che ha castigato la “barbarie” di Israele almeno tanto quanto le “azioni disturbanti” di Hamas.
Ma la strage dell’ospedale al-Ahli rischia di rendere questo approccio insostenibile. Israele sta mettendo a durissima prova la proverbiale pazienza degli anatolici, che nella notte tra il 17 e il 18 ottobre hanno letteralmente assediato le rappresentanze diplomatiche israeliane in Turchia – inducendo Gerusalemme a mettere in stato d’allerta i propri cittadini – e si sono poi riversati in massa verso la base Nato di Kürecik (operata dagli americani)”.
Fra l’altro leggo da altri giornali che moltissimi paesi arabi sono stati scossi dalle proteste anti israeliane e non solo. leggo su Open che “A Beirut, in Libano, si sono verificati scontri e violenze nei pressi dell’ambasciata degli Stati Uniti nel corso di una manifestazione contro i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza.
Ad Amman, in Giordania, sono oltre 5mila le persone che si sono ritrovate davanti all’ambasciata israeliana per protestare contro i bombardamenti su Gaza. La situazione è tesa anche in Egitto e in Marocco, dove le manifestazioni hanno convinto il ministero degli Esteri israeliano a evacuare lo staff delle sue ambasciate.
In Germania è stato introdotto un divieto di manifestazioni pro-Palestina (cosa abbastanza assurda, che probabilmente ha a che fare con la storia tedesca e il fatto di non aver ancora fatto del tutto i conti con la tragedia dell’olocausto), ma mercoledì pomeriggio la gente si è riunita e scontrata con la polizia, di nuovo a Berlino, nel quartiere Neukölln. Gli agenti di polizia sono stati attaccati con lanci di pietre e bottiglie. Sono stati lanciati petardi e sono stati appiccati incendi. Secondo quanto riporta Bild gli agenti hanno arrestato diverse persone e sono stati usati idranti per disperdere la folla.
Questo è quanto. Se volete trovare delle riflessioni più profonde vi invito a leggere il bell’articolo che il nostro caporedattore Francesco Bevilacqua e la giornalista Laura Tussi hanno scritto oggi su ICC dal titolo “In Palestina ci sarà mai la pace?”. Vi leggo solo l’inizio, lo trovate come tutti gli altri sotto fonti e articoli.
“Sto scorrendo le foto che Yousef – il mio amico di Jenin che gestisce un’associazione che si occupa di educazione di adolescenti – mi ha appena mandato. Non mi vergogno dire che dopo due o tre immagini ho chiuso il suo messaggio. Troppo crude per essere vere. Eppure lo sono. “La guerra è orribile”, “come possono le persone uccidersi a vicenda?” si sente spesso dire. Banalità, frasi fatte, slogan. Ma in questo momento non mi vengono in mente altre parole”.
Devo dire di essermi ritrovato molto in queste parole, di aver provato sensazioni contrastanti dentro. Una voce che mi diceva “non guardarlo” per bisogno di autoprotezione e di restare lucido e un’altra voce che mi diceva: “tu non riesci a guardarle quelle immagini, e intanto ci sono persone che quelle cose le stanno vivendo, che non possono premere una x col polpastrello e chiudere un video perché quel video è la loro realtà”.
Che fare? Non ho ovviamente una risposta. Solo un piccolo invito, che faccio a me per primo, per seminare un briciolo di pace. Di fronte all’accelerare degli eventi, credo che sia importante fermarsi e fare un respiro. Radicarsi a terra e cercare innanzitutto di capire. Prima di giudicare, prima di trovare un colpevole, prima di voler convincere gli altri di aver ragione.
Marshall Rosenberg, inventore della Cnv, diceva spesso una frase, che racchiude il senso della nonviolenza in generale, a mio avviso. Ovvero che nella vita bisogna fare una scelta importante: scegliere se avere ragione o essere felici. Questo non vuol dire che la ragione non esista, o che per forza stia sempre nel mezzo. Ma che a volte per rincorrerla, costruiamo un sacco di sovrastrutture e facciamo un sacco di danni, e che la vita potrebbe essere molto più semplice.
Vi segnalo anche che mercoledì è uscita la penultima puntata della nostra inchiesta sul rigassificatore di Vado Ligure a firma della nostra Emanuela Sabidussi, che questa volta si è incentrata sugli impatti di questa nuova nave su un ecosistema importantissimo e abbastanza fragile come quello marino. Un aspetto devo dire che non ho visto fin qui trattato o approfondito da altre inchieste.
Emanuela ha contattato e intervistato Gabriella Motta, biologa e guida ambientale escursionistica, ornitologa del Parco del Beigua e divulgatrice scientifica, che ci fa scoprire un sacco di aspetti “interessanti” (si fa per dire) legati ai possibili impatti di questa opera sull’ecosistema marino della zona. Buona lettura!
Chiudiamo come al solito con la consueta rubrica “La giornata di ICC”, la rubrica in cui il nostro direttore Daniel Tarozzi ci racconta gli articoli o i fatti salienti di ICC di oggi.
La puntata di oggi è un po’ particolare perché, visto che non ci siamo sentiti negli ultimi due giorni, Daniel ci racconta un po’ come è andato complessivamente il suo viaggio in Canada e poi annuncia una super novità! Ovvero l’uscita del suo nuovo libro “Come amano gli italiani?” che racconta come cambiano l’amore e il sesso nel nostro paese e nel nostro immaginario. Un tema affascinante e molto attuale. A te la parola Daniel:
AUDIO DISPONIBILE NEL VIDEO/PODCAST
Grazie Daniel, tema davvero attuale dicevo, perché – dirò una banalità enorme e me ne scuso, ma un po’ penso che sia vera, se imparassimo culturalmente, socialmente, ad amare meglio, ad essere più aperti e onesti con noi stessi e con gli altri sulla natura delle nostre emozioni e sentimenti, ecco, quella sarebbe già una buona base per costruire una società più pacifica.
Oggi è venerdì e quindi è anche il giorno in cui esce INMR Sardegna, alla sua seconda puntata, quindi chiedo anche a Laura Fois, nostra caporedattrice sarda, di dirci qualcosa sulla puntata appena uscita. A te Laura:
AUDIO DISPONIBILE NEL VIDEO/PODCAST
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