9 Nov 2023

Gaza, è possibile la pace oltre l’orrore? – #827

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Torniamo a parlare di Gaza, dei continui bombardamenti, del numero di vittime, soprattutto bambini e bambine, che continua a salire e della tremenda quotidianità di chi sopravvive. È possibile cercare una pace realistica adesso? Come si fa a fermare questa carneficina? E come, al tempo stesso, ad evitare che le atrocità del governo israeliano siano benzina per nuovo odio antisemita, verso persone che non c’entrano niente? Parliamo anche della questione della pista da sci italo-svizzera che rischia di distruggere un ghiacciaio e delle proteste ambientaliste.

Dopo qualche giorno, torniamo a parlare della situazione a Gaza, che continua ad essere disastrosa. I bombardamenti dell’esercito israeliano stanno continuando ad demolire interi edifici e a fare stragi di civili. Sono stati superati i 10500 morti, di cui, questo dato continua a sconvolgermi e non riesce ad essere un freddo numero, 4324 minorenni. 

E allora partiamo proprio da qui. Dalle condizioni di chi vive ancora là dentro, in quella sorta di inferno sceso in terra appeso fra la vita e la morte. Ringrazio di cuore la mia collega Selena Meli per avermi segnalato alcune testimonianze che proprio grazie ai social le persone stanno diffondendo. Vi faccio una premessa: è una roba pesante, molto pesante. Questa volta ho scelto di parlarvene, perché personalmente sento un po’ il dovere di raccontare anche le atrocità che stanno succedendo. Ma se avete una brutta giornata e non ve la sentite, andate pure avanti di due minuti, davvero.

Veniamo a queste testimonianze. Ad esempio il videoblog di un ragazzo, che racconta la vita sotto i bombardamenti costanti. O un post della giornalista Jennifer Guerra che descrive dieci aspetti a cui non pensiamo abitualmente ma che caratterizzano la vita di chi vive sotto le bombe, tipo: l’aria costantemente piena di polvere e veleni, dovute agli edifici che collassano in continuazione, polvere che senza mascherine ne protezioni si appiccica agli occhi facendoli bruciare, entra nel naso e nella gola, causa irritazione e chissà quali altri danni ai polmoni. E l’acqua manca e di certo non si può usare per sciacquarsi la faccia.

O il rumore costante di missili, esplosioni, ambulanze, che non da mai tregua, grida e urla di disperazione. E l’odore, l’odore di decomposizione che arriva da sotto gli edifici sventrati. Così come quello di urina e feci, perché senza acqua i water non scaricano più. E quello dei rifiuti che si accumulano come montagne perché nessuno passa più a prenderli. E le mosche che hanno invaso l’aria, attratte da questi odori forti. E tanti altri punti. Mi fermo qui, con un certo mal di pancia devo dire. 

La descrizione sensoriale di odori e rumori ha una potenza evocativa fortissima che ci trascina di peso dentro a quel contesto, va maneggiata con cautela, ma a volte credo che sia necessaria. Ora, immagino che tante cose si stiano smuovendo dentro di voi. Fermatevi un attimo ad ascoltarle, ad osservarle, vi do qualche secondo. Nel mio caso c’è un senso di disperazione misto a rabbia ed impotenza. Ecco teniamoli lì, perché dobbiamo capire cosa farcene. Fra poco ne parliamo.

Intanto vi voglio far ascoltare una riflessione della collega stessa Selena Meli, che ha corredato di un vocale l’invio di questi contributi e così a tradimento ve ne faccio sentire un pezzetto perché fa una riflessione molto interessante sull’utilizzo dei social come strumento informativo in contesti di guerra.

Nel frattempo, è rientrata in Italia Giuditta Brattini, cooperante veronese della onlus Gazzella di cui abbiamo ospitato un contributo anche qui su INMR. E racconta a La Tribuna di Treviso la sua esperienza:

«Gli ultimi 15 giorni a Gaza li ho trascorsi nel parcheggio Unrwa a Rafah, e poi altri due giorni in una struttura di una ong sempre a Rafah. Abbiamo dormito nelle macchine, all’aperto. Scarseggiavano acqua e generi alimentari. Sicuramente rispetto alla situazione di 1 milione e 400 mila persone evacuate dalle loro case, la nostra era una condizione privilegiata. Avevamo un bagno, senza doccia, per 40 persone».

Sulle persone dice: «La popolazione è stremata, il 46% delle abitazioni sono state distrutte o danneggiate. Guardare al futuro è difficile, e si aspetta con ansia il cessate fuoco. I palestinesi sanno che dopo dovranno affrontare come al solito i tempi della ricostruzione delle case e convivere con le difficoltà derivanti dalla mancanza di acqua, cibo, elettricità e lavoro».

E ancora: «La narrazione degli eventi ci parla di numeri morti e feriti, case e infrastrutture distrutte, mancanza di acqua e cibo… Dati e informazioni utili a comprendere la gravità di quanto accaduto e che evidenziano il rischio di sopravvivenza per la popolazione. Ma si tornerà a ricostruire. Il prezzo più alto lo pagheranno i bambini che a dieci anni hanno già visto numerose aggressioni armate e hanno conosciuto l’impatto distruttore della violenza. Cresceranno con conseguenti disordini post traumatici che segneranno per sempre la loro vita. Con questa aggressione la Carta Internazionale della tutela dei diritti dei bambini finisce nel cestino, insieme ai dettati della IV Convenzione di Ginevra».

Va bene, allarghiamo leggermente il nostro obiettivo per cercare di capire com’è la situazione dal punto di vista militare, come sta andando l’invasione dell’esercito israeliano dentro la striscia di Gaza.  

Le novità sono che le truppe israeliane sono entrate dentro Gaza City, che come scrive Ansa “è ormai un campo di battaglia, dove si combatte strada per strada”. L’esercito “- ad un mese esatto dal massacro di Hamas del 7 ottobre – continua ad avanzare nell’enclave palestinese dopo aver tagliato in due la Striscia. “Per la prima volta da decenni stiamo combattendo nel cuore di Gaza City, nel cuore del terrore”, ha annunciato il comandante israeliano del fronte sud Yaron Finkelman. Mentre il ministro della Difesa Yoav Gallant ha messo nel mirino direttamente il capo di Hamas nella Striscia: Yahya Sinwar “si nasconde nel suo bunker” e non ha più “contatti con i suoi associati”, ma “sarà eliminato” anche lui”.

Mercoledì mattina i paesi del G7, l’organismo informale che un tempo riuniva le 7 principali economie al mondo, oggi è diciamo il sottogruppo dei paesi occidentali dalle economie più grandi, hanno chiesto in un comunicato congiunto «pause e corridoi umanitari» nella guerra, per favorire l’assistenza e l’evacuazione dei palestinesi da una parte, e il rilascio degli ostaggi israeliani dall’altra. 

Al tempo stesso però, dopo l’incontro il segretario di Stato americano Antony Blinken parlando ai media ha escluso del tutto un immediato cessate il fuoco, cioè la fine dei combattimenti, perché, ha detto “permetterebbe ad Hamas di mantenere gli oltre 200 ostaggi che si pensa abbia rapito in Israele negli attacchi di Hamas del 7 ottobre”. 

Come scrive il Post però, Gaza city è isolata e “Al momento ci sono pochissime informazioni su quello che sta succedendo sul campo. Martedì centinaia di palestinesi sono scappati dalla città di Gaza per andare verso le città del sud: Israele le definisce una zona sicura per i civili, ma intanto sta continuando a bombardarle”.

Quello che sta succedendo a Gaza, sta alimentando altro odio in altre parti del mondo e riappare lo spettro dell’antisemitismo. Come scrive sempre sulla Tribuna di Treviso Ferdinando Camon (ringrazio Francesca Nicastro per la segnalazione) “Adesso essere ebreo è di nuovo pericoloso, sulle porte delle case appaiono scritte contro gli ebrei, a Vienna, a Roma, a Parigi, a Lione…: scritte del tipo “Qui abita un ebreo”, oppure la stella di Davide, che ha lo stesso significato”.

A Lione una donna è stata pugnalata sulla porta della sua abitazione, da un aggressore che poi, fuggendo, ha disegnato sulla porta una svastica. A Parigi le stelle di Davide disegnate sulle abitazioni sono ormai numerose, sto guardando le foto sui siti d’informazione che consulto, e vedendo che le stelle di Davide si ripetono perfettamente uguali mi domando se sono disegnate a mano libera o impresse con qualche stampo, e opto per la seconda risposta”.

“Se così è, c’è gente che gira per Parigi, Lione, Vienna…, con lo stampo della stella di Davide, e quando è davanti alla casa di un ebreo spruzza il disegno da una bomboletta che tiene in tasca. Mi pare un brutto segno. Bruttissimo”.

Ma che possiamo fare per fermare questa spirale di odio e violenza? Mi ha colpito molto una riflessione del grande scrittore israeliano David Grossman, pubblicata pochi giorni dopo i feroci attentati da parte di Hamas, che oltre a descrivere gli orrori di quei giorni dice anche, in un passaggio

“Sabato 7 ottobre 2023 è davvero andata perduta per sempre, o si è congelata per molti anni, la minuscola possibilità di un dialogo vero, della riconciliazione con l’esistenza dell’altro popolo? 

Dovranno passare molti anni, anni senza guerre, prima che si possa pensare a una riconciliazione, a una guarigione. Nel frattempo, possiamo solo immaginare l’intensità delle ansie e dell’odio che ora schizzeranno in superficie. Spero, prego, che ci siano palestinesi in Cisgiordania che, nonostante l’odio nei confronti dell’Israele occupante, vorranno prendere le distanze, nelle azioni o con una condanna, da quanto hanno commesso membri del loro popolo”.

Ovviamente questa riflessione arrivava prima che la risposta militare di israele assumesse le attuali dimensioni, ma questo senso di inevitabilità mi ha colpito, questo senso di pace impossibile, almeno adesso. È possibile che sia così, almeno in quel pezzo di mondo. Mi rendo conto che anche immaginare una pace adesso, con migliaia, milioni di persone che hanno perso parenti, figli, col terreno ancora intriso di sangue è forse naif, e non tiene conto della enorme sofferenza e delle ferite di questi popoli. Uso il plurale, perché anche il popolo israeliano è un popolo che è storicamente ferito, che ha costruito sulle sue ferite anche la sua identità e la sua voglia di riscatto. 

Torniamo un attimo a quel dolore, frustrazione, sgomento che abbiamo provato quando leggevo le testimonianze all’inizio. Noi non siamo lì a Gaza, non abbiamo perso parenti sotto alle bombe. Siamo ancora nelle nostre case, al caldo, con acqua e cibo. Abbiamo il lusso di poterci permettere di incanalare correttamente quella rabbia, quella frustrazione, quel senso di impotenza. E allora il mio auspicio è che lo ascoltiamo, quotidianamente, e poi lo incanaliamo verso la costruzione della pace, non verso nuovo odio. 

Che non diventi fuoco per costruire altri razzismi, altri odi etnici, altre discriminazioni, altre ingiustizie, ma che sia invece il carburante per creare un mondo più giusto, più equo, più empatico. Sembra una frase fatta e un po’ retorica, ma è proprio dal fuoco di una ingiustizia che può nascere l’origine di un’altra, in una catena di odio che può proseguire per secoli. A un certo punto va interrotta. E quello stesso fuoco che sentiamo dentro, che altro non è che energia, può essere davvero incanalata verso altro. 

In questo senso vi condivido anche una lettura della storia di Israele, forse un pelino di parte ma molto interessante, che mostra la genesi e l’evoluzione dello stato d’Israele da una prospettiva che potremmo definire filoisraeliana, ma comunque rigorosa storicamente. L’articolo in questione si chiama “Una striscia di sangue lunga un secolo” ed è scritto da Edoardo Bernkopf.

Tutto questo, ovviamente, non deve diventare una scusa per ignorare il grido di terrore che viene da Gaza eh. Va ascoltato, ogni giorno, e quell’orrore deve finire adesso. Ma ecco, facciamo in modo che non ne generi altro, altrove. Spero di essermi spiegato.

Prima di chiudere questo capitolo, un piccolo aggiornamento anche su come i governi delle grandi potenze continuano a fare le loro mosse e sembra che il Mediterraneo stia diventando una sorta di hotspot mondiale, come era un po’ anche durante la guerra fredda. Paolo Mauri, esperto di strategie militari, racconta sul Giornale come “In un raro annuncio, il dipartimento della Difesa Usa ha reso noto che un sottomarino lanciamissili da crociera a propulsione nucleare (SSGN) della classe Ohio è arrivato nell’area di responsabilità dell’U.S. Central Command, ovvero in medioriente, sostanzialmente.

Mentre tra il 30 ottobre e il 4 novembre un particolare aereo da ricognizione dell’U.S. Air Force chiamato nuke sniffer, perché deputato alla raccolta di particelle radioattive nell’atmosfera, sembra aver seguito le tracce di un sottomarino nucleare russo. Ah, piccolo inciso, quando si parla di sottomarini nucleari non significa che abbiano al loro interno ordigni nucleari, ma che sono a propulsione nucleare. 

Volevo parlarvi anche del presidenzialismo, altro tema caldpo sui giornali di questi giorni, ma magari ne parliamo domani che è un tema che va spiegato bene. Invece ne approfitto per aggiornarvi sulla questione della pista da sci transfrontaliera fra Italia e Svizzera che rischia di distruggere un ghiacciaio, di cui abbiamo parlato giorni fa. C’è un aggiornamento. Come scrive Alberto Marzocchi sul Fatto Quotidiano:

“L’anno scorso era stata la siccità a mandare all’aria i piani. Questa volta, invece, sono stati gli organizzatori a fare il possibile per far saltare tutto. Come? Portando oltre i 3mila metri di quota le ruspe, per spaccare e scavare un ghiacciaio – già fragilissimo – e sconfinando su un’area per la quale non c’era alcuna autorizzazione per fare i lavori. Ci troviamo sul ghiacciaio del Teodulo, sul Cervino. Qui la Fis (Federazione internazionale sci e snowboard) ha ben pensato – per ragioni economiche e di sponsor – di portare le gare di Coppa del Mondo, creando una pista nuova sul ghiacciaio, la Gran Becca, che parte da 3720 metri sul livello del mare (record per una competizione) e si chiude, dopo 3,7 chilometri di tracciato, in località Laghi Cime Bianche, a 2840 metri. 

Ma lo ha fatto aprendo il cantiere – con tanto di ruspe – in una zona vietata in territorio svizzero. Lo ha stabilito pochi giorni fa la Commissione cantonale delle costruzioni (CCC) del Canton Vallese che, a metà ottobre, ha ordinato la sospensione dei lavori e ha aperto un procedimento giudiziario.

Ma, come si dice, lo spettacolo deve andare avanti, accada quel che accada. Il risultato è che la pista – che insiste per due terzi sul territorio italiano, Comune di Valtournenche – è stata modificata, in modo da non coinvolgere la porzione elvetica sulla quale era vietato scavare. Nei giorni scorsi contro la realizzazione del tracciato, che ospiterà le prime gare di discesa libera transfrontaliere della storia (Zermatt e Cervinia) sabato e domenica, hanno preso posizione glaciologi, associazioni ambientaliste, media (svizzeri, per lo più, anche se oggi su la Repubblica è intervenuto lo scrittore Paolo Cognetti) e addirittura – fatto abbastanza raro – alcuni atleti, come i francesi Johan Clarey e Alexis Pinturault: “Questa prova, dal punto di vista ecologico, non ha alcun senso“. Il primo, già l’anno scorso, aveva detto: “Sono convinto che questo appuntamento non abbia futuro. Basta osservare le condizioni dei ghiacciai, che peggiorano di anno in anno”.

Sempre su questo tema vi segnalo anche un articolo molto interessante uscito su Repubblica di ieri dello scrittore Premio Strega Paolo Cognetti che racconta la dura vita del’ambientalista. È un articolo molto sottile e ironico che prende un po’ in giro un certo tipo giornalistico di riportare le notizie, e di stereotipare la figura dell’ambientalista, tipico fra l’altro anche della stessa Repubblica:

“È dura, la vita dell’ambientalista. Non fai in tempo a sospirare di sollievo per la pista da bob scampata a Cortina, a passare in Val Susa a tirare un petardo sui cantieri della Tav, e scopri che sono spuntate le ruspe sul ghiacciaio sopra a casa tua. Riponi la bandiera, posi il sampietrino, e vedi che il ghiacciaio che frequenti fin da bambino, che si squaglia a vista d’occhio di anno in anno, viene arato dagli escavatori per fare una pista da sci”.

Quello è il ghiacciaio per cui d’estate ti chiamano le televisioni. Ti chiedono: Quand’è che scomparirà del tutto? E chi lo sa, rispondi, si diceva 2100, ma qui sembra che la cosa stia accelerando, non so mica se arriva al 2050. Vedi questa foto che non pensavi mai di vedere e ripensi ad altre immagini che hai impresse in testa.

Cosa sta succedendo, ti chiedi? Svuoti la molotov nel serbatoio della macchina e ti informi. Anche un estremista sa informarsi. Eccoci, in breve: hanno inventato una nuova pista da sci che si chiama la Gran Becca. Sai che quello è il soprannome del Cervino perché te lo raccontava tuo papà da piccolo. La pista è transfrontaliera, ovvero parte nel comune di Zermatt (Svizzera) e arriva in quello di Valtournenche (Italia), che tanti conoscono con il nome di Cervinia. Dai 3.800 metri della cosiddetta Gobba di Rollin ai 2.800 dei cosiddetti Laghi di Cime Bianche (scusate la pignoleria, ma ci tengo sempre a ricordare che i nomi alla montagna li abbiamo dati noi, lei ne fa tranquillamente a meno).

Più avanti: “Oh ambientalista: nell’attesa che ti venga a prendere la Digos, lassù in baita, leggi che il presidente degli albergatori valdostani ha parlato in pubblico di voi. Ha detto: c’è gente che spera che la Valle d’Aosta venga inselvatichita, che i suoi 120mila abitanti se ne vadano in Piemonte, in Lombardia, all’estero, che qui torni tutto un bosco scorrazzato dai lupi e dagli orsi. Noi dobbiamo lavorare! Che futuro avete in mente per noi, black block? E tu ripensi a quella funivia Cervinia-Zermatt che ha inaugurato proprio l’anno scorso. Non tutti sanno di questa funivia: ora si può andare dall’Italia alla Svizzera a volo d’angelo, a 4.000 metri. Andata e ritorno costa 240 euro. Il presidente degli impianti di Zermatt ha detto: è perché vogliamo evitare il turismo di massa. Tradotto: a noi non interessano le famigliole che vengono su con il panino nello zaino, ci interessano gli arabi, i russi, gli inglesi, gli americani. Vogliamo lasciar fuori le famigliole e fare i soldi con i milionari.

Se andate sul sito di Zermatt vedete la proposta che questi fanno: una settimana da Milano a Parigi, le città dello shopping, passando per Cervinia, il Monte Rosa e Zermatt. È il grand tour del terzo millennio, lusso e natura, diamanti e ghiacciaio.

E ancora: “Vi rompiamo le scatole, signori, perché nessuna fonte appartiene al proprietario del terreno. Magari ha il diritto di attingere l’acqua. Ma la fonte appartiene, in modi regolati dalla legge, anche a tutti quelli che vengono dopo. Altrimenti il proprietario delle fonti del Po potrebbe chiudere il rubinetto e lasciare la pianura padana all’asciutto. Vi rompiamo le scatole perché un ghiacciaio è un bene pubblico, è una falda acquifera, non lo potete usare come vi pare. È l’acqua che beviamo anche noi. Non potete accelerare il suo scioglimento triturandolo per fare una pista. Non è di Zermatt, non è di Cervinia, è di milioni di persone tra il Monte Rosa e la laguna veneta. È anche mio, che per altro sono un cittadino valdostano”.

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