20 Mar 2024

La Francia contro il fast fashion, ecco la legge (in approvazione) – #899

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Il parlamento francese si appresta ad approvare una nuova legge contro il Fast fashion che mette nel mirino grandi catene come Shein e Temu. Parliamone. Facciamo anche una rettifica sulla questione delle temperature record in Brasile, parliamo di Haiti che è in mano alle gang criminali, della guerra civile in Myanmar e dei passi indietro del governo del Gambia sulle mutilazioni genitali femminili. E poi alla fine vi dico una cosa, per chi vuole venirci ad incontrare. 

Partiamo con una notizia molto interessante che arriva dalla Francia. Il governo francese conferma di muoversi abbastanza bene sul tema dei rifiuti e dei sistemi produttivi, e sta forse cercando di rendere il paese un po’ un pioniere nella lotta contro il fast fashion, con una legislazione mirata a ridurre l’impatto ambientale dei vestiti a basso costo. 

In pratica, come racconta GreenMe, il governo ha presentato una proposta di legge, da poco approvata alla Camera bassa che mira a regolamentare il settore tessile, prendendo di mira i marchi del fast fashion come Shein e Temu. Le due misure chiave della legge comprendono il divieto di pubblicità per tessuti economici e l’applicazione di un’imposta ambientale sui capi a basso costo.

Come ha ricordato anche la deputata Anne-Cecile Violland nel presentare la legge, l’industria tessile rappresenta attualmente il 10% delle emissioni di gas serra a livello globale e costituisce un grave spreco di risorse, come l’acqua. In particolare aziende come Shein che producono migliaia di nuovi capi ogni giorno sono una fonte significativa di impatto ambientale negativo. Piccola parentesi: Shein è una catena di fast fashion cinese che è diventata un po’ il simbolo di tutto il settore perché produce e distrugge capi d’abbigliamento con una velocità mai vista prima, al punto da aver portato alla creazione di una nuova locuzione, quella di ultrafast fashion. Shein inventa circa 7000 nuovi capi d’abbigliamento al giorno venduti a una media di 7 euro ciascuno, raggruppa a sua volta circa 6mila aziende cinesi ed è popolarissima fra i giovanissimi, la cosiddetta Gen Z, al punto da aver da anni ormai superato Amazon come app più scaricata.

E Temu è una azienda di e-commerce simile, nata più di recente. Ma ovviamente non si tratta solo di aziende cinesi, il problema appartiene anche a molte catene europee e americane. 

Ma torniamo alla legge francese. La legge proposta prevede che i produttori di fast fashion informino i consumatori sull’impatto ambientale della loro produzione. Inoltre introduce un sovrapprezzo legato all’impronta ecologica di ogni capo, che partirà da cinque euro e aumenterà a dieci euro entro il 2030. Tuttavia questo addebito non potrà superare il 50% del prezzo di vendita al dettaglio.

Altro aspetto interessante I proventi derivanti dalla tassa saranno utilizzati per sovvenzionare produttori di abbigliamento sostenibile per favorire una competizione più equa nel settore. In che senso più equa, direte voi? Beh, perché ovviamente i prodotti che seguono logiche di sostenibilità hanno costi maggiori, dovuti al fatto di non esternalizzare i costi ambientali, come invece fa il fast fashion. Quindi ecco, è un modo per riequlibrare i costi, in fin dei conti.

Altro aspetto interessante è il fatto che arrivi dalla Francia, perché Parigi è la capitale mondiale della moda insieme a NY, Londra e Milano e quindi ha un peso specifico, nel condizionare il mercato globale, maggiore. Vediamo.

Devo fare una rettifica parziale su una notizia riportata ieri. Nel riportare la notizia dell’ondata di caldo in Brasile, nella zona di Rio de Janeiro, ho parlato di temperatura percepita, seguendo in questo molti giornali. Solo che la temperatura percepita, in realtà, non vuol dire granché. 

Come spiega ad esempio il climatologo Luca Lombroso su ilmeteo.net “Non occorre rincorrere notizie o dati clamorosi per dimostrare che i cambiamenti climatici sono già qua e ne vediamo le conseguenze. Nella fattispecie, in Brasile certo è in corso una potente ondata di caldo, con 37-38 e anche 40°C. La temperatura percepita però è un termine non corretto, la percezione è personale e dipende da vari fattori. Più correttamente si chiama “indice di calore”, e comunque questo valore mi lascia molte perplessità”.

In pratica, temperatura percepita è una locuzione tanto comune quanto scientificamente scorretta, perché la percezione della temperatura varia da persona a persona. Piuttosto, ci sono alcuni indici (detti indici bioclimatici) che cercano di unire la variabile temperatura assieme a quella dell’umidità, e a volte ad altre variabili come il vento o alla durata dell’esposizione, per determinare quanto la situazione meteorologica sia tollerabile (in media) dalle persone. 

Nel caso brasiliano l’indice in questione è noto come “Indice di calore” ed è una combinazione fra temperatura e umidità, unite alla durata dell’esposizione.  Temperature di 38/40° con un’umidità dell’80% creano un clima insopportabile, a cui le persone sono mediamente in grado di resistere solo per pochi minuti, mentre una esposizione prolungata a un mix del genere può diventare molto pericoloso, soprattutto quando la situazione persiste per giorni e giorni. Quindi il fatto che questo indice fosse così elevato a Rio è un dato di per sé preoccupante, ma piazzare quei 63° nei titoli dei giornali è allarmismo insensato, che offre un’ottima sponda a chi nega che esiste il cambiamento climatico. Rileggo la frase di Lombroso, per lasciarla sedimentare, e anche come promemoria per me: “Non occorre rincorrere notizie o dati clamorosi per dimostrare che i cambiamenti climatici sono già qua e ne vediamo le conseguenze.” 

Desta una certa preoccupazione internazionale la situazione di Haiti, paese che sembra ormai completamente nelle mani delle gang criminali. L’ultimo fatto di cronaca risale a lunedì, 18 marzo, quando 14 corpi sono stati trovati in un sobborgo della capitale Port-au-Prince in seguito a un attacco condotto da una banda criminale nelle prime ore del mattino. Ma, appunto, è solo l’ultimo. L’80 per cento di Port-au-Prince è controllato dalle bande criminali, accusate di compiere omicidi, stupri, saccheggi e rapimenti a scopo di riscatto.

Come racconta l’agenzia stampa AFP su Internaizonale, “Le violenze si sono intensificate all’inizio di marzo, quando alcune bande hanno unito le forze per attaccare siti strategici della capitale e costringere alle dimissioni Henry”.

Ariel Henry è l’ex primo ministro del paese, che si è dimesso appunto pochi giorni fa, l’11 marzo, impossibilitato a rientrare nel paese dopo una visita ufficiale in Kenya per dei colloqui su una missione multinazionale che dovrebbe aiutare le forze di sicurezza haitiane.

Lo stesso giorno, nel corso di una riunione d’emergenza in Giamaica organizzata dalla Comunità caraibica (Caricom), a cui hanno partecipato i rappresentanti delle Nazioni Unite e di alcuni paesi, tra cui gli Stati Uniti, è stata presa la decisione di affidare il potere a un consiglio di transizione, che avrà il compito di ripristinare la sicurezza e portare il paese alle elezioni. Ma il piano non sembra funzionare granché, per adesso.

Come racconta Claudia Fanti sul manifesto, “Era vana la speranza che l’accordo sulla creazione di un consiglio presidenziale di transizione ad Haiti, annunciato lunedì in Giamaica dopo le dimissioni di Ariel Henry, bastasse a riportare la calma nel paese. Jimmy “Barbecue” Cherizier, il potente capo della coalizione di bande criminali “Viv Ansanm” aveva subito spazzato via ogni illusione: la coalizione, aveva dichiarato, «non riconoscerà alcun governo risultante» dalle riunioni tenute in sede Caricom (la Comunità caraibica), in quanto «è responsabilità del popolo haitiano scegliere i leader che governeranno il paese».”

Principio in realtà sacrosanto – dato che continuano a essere gli Stati uniti a imporre e a togliere le autorità ad Haiti -, se non fosse che a sostenerlo è il massimo rappresentante di quelle bande paramilitari che, dopo aver assunto il controllo dell’80% di Port-au-Prince, non ci pensano proprio a farsi estromettere dal processo decisionale. E a rimetterci è sempre la popolazione, stretta nella morsa, da un lato, di governi subordinati a interessi stranieri e, dall’altro, di gruppi paramilitari impegnati a mettere a ferro e fuoco il paese caraibico.

Insomma, la situazione resta grave, e lo conferma il fatto che le nazioni unite hanno evacuato il cosiddetto “personale non essenziale” da Haiti, lasciando in loco solo gli addetti alle “attività vitali”. Si sta inoltre organizzando un “ponte aereo” con la Repubblica Dominicana, che ha chiuso le frontiere per paura di un’estensione del conflitto, di fatto bloccando la strada ai civili che scappano dagli scontri e i massacri delle gang.

Intanto, la formazione del nuovo consiglio presidenziale, composto da sette membri votanti e due osservatori, procede con difficoltà. Tra i membri confermati c’è l’economista Fritz Jean, mentre sono esclusi dal consiglio individui con condanne passate, come l’ex leader golpista Guy Philippe, nonché coloro che si oppongono alla missione multinazionale di supporto alla sicurezza, missione che avrà inizio solo con l’insediamento del nuovo consiglio.

In tutto ciò, il governo degli Stati uniti continua a cercare di controllare la situazione dall’esterno e prova a ristabilire l’ordine temendo ripercussioni sul voto della diaspora haitiana nelle prossime elezioni presidenziali.

Intanto anche dal Myanmar arrivano notizie preoccupanti. Sono sempre le UN, in questo caso nella voce del loro Segretario generale Antonio Guterres, a lanciare l’allarme per le segnalazioni secondo cui l’esercito del Myanmar starebbe bombardando aree civili. 

Ne parla Al Jazeera, che racconta come siano ormai diversi i rapporti che continuano ad attestare attacchi aerei su villaggi nello stato di Rakhine, che avrebbero ucciso decine di persone.

In realtà gli scontri, all’interno della regione occidentale del paese, vanno avanti da novembre, ovvero da quando l’Arakan Army (AA)  ha attaccato le forze di sicurezza, interrompendo un cessate il fuoco che era stato in gran parte rispettato dal colpo di stato militare del 2021. 

L’Arakan Army sarebbe una organizzazione armata di stampo etnico che combatte contro l’esercito golpista, perché penso ricorderete che in Myanmar c’è stato un golpe militare nel febbraio 2021 in cui è stata deposta l’ex leader democraticamente eletta nonché premio nobel per la pace Aung San Suu Kyi.

Questi ultimi raid aerei da parte dell’esercito però sarebbero stati particolarmente violenti. Ad esempio il raid aereo che ha colpito il villaggio di Thar Dar, un villaggio prevalentemente Rohingya uccidendo 10 uomini, quattro donne e 10 bambini. Villaggio in cui, sempre secondo Al Jazeera, non c’era nessun combattimento. Quindi un bombardamento gratuito.

Considerate che Rohingya sono una minoranza etnico religiosa, di fede musulmana, praticamente da sempre perseguitati dalla maggioranza buddista del Myanmar (sì, anche dutrante il governo di Aung San Suu Kyi), e quasi un milione di loro vive in campi sovraffollati nel distretto di confine di Cox’s Bazar in Bangladesh, dove è fuggita nel 2017 per via della repressione militare. 

Le nazioni Unite invitano alla de-escalation, ma né la giunta militare al governo né le truppe ribelli sembrano essere intenzionati a retrocedere.

Il Post racconta che l’Assemblea nazionale del Gambia, siamo in Africa occidentale, ha votato in favore di un provvedimento che prevede la revoca del divieto di mutilazione dei genitali femminili. 

La ridico spiegandola perché sennò non si capisce. In Gambia fino al 2025 erano diffuse e consentite diverse pratiche, tipo l’infibulazione, in cui gli attributi genitali esterni delle donne vengono parzialmente o totalmente rimossi per motivi culturali o religiosi, spesso con grandi sofferenze fisiche e psicologiche. 

Nel 2015 queste pratiche erano state vietate, con un voto dell’Assemblea nazionale, il parlamento monocamerale del Paese. Ma due giorni fa lo stesso parlamento, composto da 58 membri, di cui solo cinque donne, ha votato per ritirare quel divieto, con, pensate 42 votoi a favore sui 47 membri presenti alla votazione. 

Ora la proposta dovrà essere esaminata da alcune commissioni del governo, ma se dovesse essere approvata, come prevedono diversi analisti citati per esempio dal New York Times, il Gambia sarebbe il primo paese al mondo a eliminare le tutele in vigore contro queste pratiche, che sono considerate una grave violazione dei diritti umani a livello internazionale.

Come racconta ancora l’articolo, “Il Gambia ha circa 2,6 milioni di abitanti, è una repubblica presidenziale ed è a maggioranza musulmana. Di solito nel paese le mutilazioni genitali femminili consistono nel tagliare il clitoride e le piccole labbra di bambine e ragazzine quando hanno tra i dieci e i quindici anni. 

Ora, mi sono chiesto: ma com’è possibile che un’usanza del genere sia stata ripristinata, dopo essere stata vietata? Non si tratta in questo caso di dare un giudizio su una cultura differente, per quanto in casi come questo il mio personale relativismo culturale vacilli, quanto della del fatto che in genere quando una popolazione si libera di una usanza dolorosa e oppressiva almeno per una fetta di essa è molto più difficile poi ripristinarla.

La risposta sta nel fatto che anche se in Gambia era in vigore dal 2015, il divieto delle Mgf non è praticamente mai stato applicato. Un rapporto pubblicato dall’UNICEF nel 2021 dice che il 76 per cento delle donne tra i 15 e i 49 anni ha subìto un qualche tipo di mutilazione dei genitali. 

Poi nel 2023 per la prima volta tre medici sono stati multati per averle fatte. E paradossalmente queste condanne sono state sfruttate da un importante imam gambiano e da alcuni politici per avviare una campagna in favore dell’eliminazione del divieto, sulla base del fatto che le mutilazioni sarebbero importanti a livello culturale, oltre che un obbligo religioso.

Il Gambia, comunque, non è un caso isolato. Le mutilazioni dei genitali femminili hanno forti valenze culturali e religiose in diversi paesi e sono praticate in almeno 27 paesi africani, tra cui Egitto, Etiopia, Kenya, Burkina Faso, Nigeria e Senegal.

Secondo un rapporto dell’UNICEF, nonostante diverse campagne internazionali di sensibilizzazione, al momento sono 230 milioni le donne che hanno subìto una qualche forma di Mgf: 30 milioni in più rispetto ai dati del 2016. Questo non tanto perché la pratica si stia diffondendo di più rispetto al passato, ma perché c’è stata una grossa crescita della popolazione nei paesi dove vengono praticate. E in quei paesi sono non solo fonte di sofferenza, ma spesso anche causa di infezione e una delle principali cause di morte per le donne e ragazze più giovani.

Dopo il voto favorevole del parlamento gambiano la proposta di legge per eliminare il divieto dovrà essere esaminata da alcune commissioni del governo, che potranno proporre emendamenti prima di rinviarla al parlamento per un’ultima votazione, prevista tra circa tre mesi. Ultimo elemento: tutti i parlamentari presenti alla votazione erano uomini.

Audio disponibile nel video / podcast

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