23 Feb 2024

Se verrà estradato Assange, parleremo ancora di “mondo libero”? – #884

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Si è conclusa a Londra l’udienza per bloccare l’estradizione negli Usa di Julian Assange, dove il fondatore di Wikileaks rischierebbe 175 anni di carcere. La sentenza è attesa a giorni, mentre il mondo si mobilità in favore del giornalista. Parliamo anche di una proposta europea per mettere regole più stringenti sulla qualità dell’aria e della strategia del governo sull’immigrazione, prima di chiudere con la consueta rubrica la giornata di Italia che Cambia.

In questi giorni si gioca dinanzi all’Alta Corte di Londra quelli che molti giornali definiscono la “partita definitiva” sul futuro di Assange, accusato di spionaggio negli Stati Uniti, che ne chiedono l’estradizione e dove rischierebbe 175 anni di carcere. Ma non si tratta solo di Assange: come per ogni persona che ha il merito o più spesso la sfortuna di diventare un simbolo, un emblema di qualcos’altro, dietro al processo a un individuo si celano questioni più grosse, come la libertà di stampa e d’informazione, la censura, il controllo.

Comunque, ci arriviamo. Partiamo dal capire meglio la questione. Allora, vi premetto che la storia di Assange è molto lunga e complessa da raccontare in poche parole. Perciò facciamo così: io vi faccio una versione super riassunta solo per avere gli elementi essenziali di comprensione. Se poi volete approfondire vi propongo 2 cose: 1 vi abbonate a ICC e vi ascoltate la puntata di INMR+ dedicata proprio al caso Assange, in compagnia di due giornaliste, Veronica Tarozzi e Stefania Maurizi e/o 2, vi leggete il libro di Stefania Maurizi “Potere Segreto”, in cui la giornalista, che è l’unica giornalista italiana ad aver lavorato fianco a fianco con Assange e a non avergli mai voltato le spalle, ripercorre tutta la storia da principio.

Comunque veniamo alla storia breve. Assange è il fondatore di Wikileaks, una piattaforma fondata nel 2006 che ha rivelato scandali globali e controversie, il più noto dei quali è il video “Collateral Murder” del 2010, che mostra un attacco aereo statunitense a Baghdad, in Iraq, che uccise civili, inclusi due giornalisti.

La fonte di molti documenti di Wikileaks era Chelsea Manning, analista dell’esercito USA in Iraq, che consegnò a Wikileaks una vasta quantità di materiale segreto, e che per questo è finito in carcere negli Usa. Questi documenti portarono a importanti rivelazioni giornalistiche in collaborazione con grandi testate, ma anche a critiche per la gestione dei dati sensibili. In molti accusavano Assange di diffondere dati sensibili di persone coinvolte in scenari di guerra, anche se non ci sono notizie confermate di nessuna persona che sia stata messa in pericolo di vita dalle rivelazioni della piattaforma, e ad esempio Stefania Maurizi sostiene nel suo libro che questo genere di attacco fosse una controffensiva mediatica da parte dell’intelligence Usa.

Ad ogni modo, la figura di Assange è rimasta comunque perlopiù un eroe positivo, nell’opinione pubblica, fino al 2016, quando dopo aver pubblicato una serie di leaks che riguardavano il partito democratico e la sua candidata Hillary Clinton diventò improvvisamente controversa in occasione delle elezioni USA che incoronarono Trump, con accuse di aver collaborato con l’intelligence russa per influenzarne il risultato. 

Per 7 anni Assange è rimasto rinchiuso nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, perché coinvolto in una strana – e anche qui, possiamo dire abbastanza tranquillamente pretestuosa – accusa di violenza sessuale in Svezia, poi caduta. Nel 2015 le Nazioni unite definirono il trattamento riservato da Svezia e Gran Bretagna nei confronti di Julian Assange “detenzione arbitraria e illegale”, chiedendo una fine della persecuzione che venne però respinta al mittente. Anzi. Nel 2019 Assange viene arrestato e attualmente si trova nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, senza accuse a suo carico, assieme ai peggiori criminali del Regno Unito, e le sue condizioni di salute fisica e mentale sono, a quanto pare, piuttosto drammatiche. Nel frattempo gli Usa hanno chiesto l’estradizione di Assange, dove rischia di essere condannato a 175 anni di carcere in base a una legge anti spionaggio draconiana risalente alla prima guerra mondiale. 

Fine del racconto breve. Ma cosa sta succedendo in questi giorni? Ve lo dico a partire da un articolo della Redazione esteri della Stampa.

Leggo: “La caccia è quasi finita dopo 14 anni d’inseguimento implacabile, la preda è ormai a un passo dall’estradizione negli Stati Uniti: le cui prigioni – denunciano familiari e sostenitori sparsi per il mondo – potrebbero diventare la sua tomba. Per Julian Assange si consumeranno nei prossimi giorni le ultime speranze di un via libera in extremis della giustizia britannica almeno all’esame di un ulteriore appello di merito sulla sua consegna o meno alle autorità d’oltre oceano.

La partita finale sulla trincea dei tribunali del Regno si è chiusa oggi (ieri), dopo due giorni di udienza, dinanzi a un’accoppiata di giudici dell’Alta Corte di Londra. I quali hanno preso tempo per valutare le argomentazioni contrapposte delle parti nel ricorso contro il rifiuto di primo grado di riaprire il caso. Caso da cui dipende il destino di una certa idea d’informazione, oltre a quello personale dell’ex enfant terrible australiano, cofondatore di WikiLeaks e modello antagonista di giornalismo online: divenuto una sorta di nemico pubblico numero uno a Washington per essersi permesso di divulgare, a partire dal 2010, circa 700.000 documenti riservati – autentici e non privi di rivelazioni imbarazzanti, anche su crimini di guerra commessi fra Iraq e Afghanistan – sottratti al Pentagono o al Dipartimento di Stato grazie a simboli del whistleblowing come Chelsea Manning. 

L’esito interlocutorio delle udienze è stato comunicato in cella ad Assange, impossibilitato non solo a presenziare di persona ma anche ad assistervi in videocollegamento a causa dell’aggravamento – denunciato dai legali e da sua moglie Stella – di condizioni di salute sempre più precarie dopo quasi 5 anni di reclusione preventiva nel tetro carcere di massima sicurezza di Belmarsh (seguiti ai sette da rifugiato nella clausura murata di una stanza dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra).

La sentenza è attesa nei prossimi giorni. Se la Corte accetterà la sua richiesta di appello (ipotesi considerata non molto probabile, ma mai dire mai), comincerà un nuovo processo nel Regno Unito, mentre se la rigetterà Assange potrebbe in teoria fare ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, cosa che metterebbe in pausa il processo di estradizione. Anche se una sentenza del genere, secondo la sua difesa, sarebbe «l’inizio della fine» del percorso di Assange contro l’estradizione negli Stati Uniti. 

Intanto sia davanti all’Alta Corte londinese, che fuori dal consolato britannico di New York, così come in tante altre città del mondo si sono svolte centinaia di manifestazioni di solidarietà del movimento free Assange che chiede la liberazione del giornalista. E dichiarazioni di supporto sono arrivate anche da molti rappresentanti politici e istituzionali. Negli scorsi giorni Alice Jill Edwards, la relatrice speciale dell’ONU sulla tortura, ha chiesto al governo britannico di non estradare Assange negli Stati Uniti. Anche Anthony Albanese, il primo ministro australiano, ha detto che «è ora di riportare a casa» Julian Assange (che è un cittadino australiano). Oltre a ciò ormai non si contano le città del mondo che gli hanno dato la cittadinanza onoraria e gli appelli alla sua liberazione.

Insomma, l’opinione pubblica occidentale sembra essere tornata più o meno saldamente dalla parte di Assange. Sarà sufficiente a liberarlo, o perlomeno a impedirne l’estradizione?

Onestamente non lo so, e la storia di Assange è una di quelle storie che mi fa arrabbiare, diciamo così. Parecchio. Soprattutto mi fa arrabbiare quando sento parlarne come figura controversa. Ieri un articolo del Post dal titolo “Non abbiamo ancora capito Julian Assange” metteva un po’ sullo stesso piano estimatori e detrattori, facendone emergere un ritratto di luci ed ombre, alcuni dubbi sul suo metodo, sul suo carattere. 

Ma a mio avviso mancando clamorosamente il punto. Assange è perseguitato per aver rivelato al mondo gli orrori della guerra commessi dall’esercito americano in Iraq. Punto. A me non interessa se è una brava persona o uno stronzo, e non mi interessa nemmeno – in questo frangente specifico – se è stato in contatto con gli hacker russi durante le elezioni americane del 2016 (e detto fra parentesi, anche qui nessuna delle informazioni che ha rivelato sono state mai smentite, quindi ha fatto comunque un lavoro giornalistico). Il punto qui è: rivelare i crimini di guerra di enorme interesse pubblico commessi dall’esercito di quella che almeno allora era incondizionatamente la nazione più potente del mondo, può essere considerato un reato che vale 175 anni di carcere sì o no? 

Ecco dalla risposta che daremo, come società, ma anche nel caso specifico dalla risposta che daranno i giudici di questo processo, capiremo quanto ha ancora senso parlare di modello occidentale, di libertà di stampa, di occidente libero e democratico e così via.

Qualche giorno fa parlavamo della qualità dell’aria in Europa, e di come al netto di quello che possiamo pensare stia migliorando nettamente ormai da diversi decenni. Oggi arriva la notizia di un ulteriore interessante passo in avanti, sempre in ambito europeo, su questo argomento. 

Nella giornata di ieri è stato infatti raggiunto un accordo provvisorio dalla presidenza del Consiglio e dai rappresentanti del Parlamento europeo sulla proposta di fissare standard rafforzati di qualità dell’aria a livello europeo per il 2030. 

In pratica la proposta vuole raggiungere l’obiettivo di inquinamento zero, ovvero di un ambiente privo di sostanze tossiche nell’UE, entro il 2050, in modo da allineare gli standard di qualità dell’aria dell’UE alle raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS).

Come ha commentato Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente in un comunicato stampa dell’associazione ambientalista,  “L’accordo provvisorio raggiunto dalle istituzioni UE riguarda una serie di sostanze inquinanti, tra cui particelle fini (PM2,5 e PM10), biossido di azoto (NO2), biossido di zolfo (SO2), benzo(a)pirene, arsenico, piombo e nichel, tra gli altri, e stabilisce standard specifici per ciascuno di essi. Ad esempio, i valori limite annuali per gli inquinanti con il maggiore impatto documentato sulla salute umana, PM 2,5 e NO2, verranno ridotti rispettivamente da 25 µg/m³ (microgrammi per metro cubo) a 10 µg/m³ e da 40 µg/m³ a 20 µg/m³. 

Unica nota stonata la possibilità di richiedere da parte degli Stati membri, entro il 31 gennaio 2029 e per ragioni specifiche e a rigorose condizioni, un rinvio del termine per il raggiungimento dei valori limite di qualità dell’aria. Speriamo che il nostro Paese non punti da subito solo sulle deroghe, ma agisca speditamente per uscire dalla cronica emergenza smog che caratterizza ampie porzioni del nostro territorio, a danno dei cittadini e delle cittadine che continueranno a respirare aria inquinata”. 

Il comunicato ricorda anche, purtroppo, che quella della qualità dell’aria è “Un’emergenza cronica per l’Italia che, secondo gli ultimi dati dell’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) è tra i primi paesi in Europa per morti attribuibili all’inquinamento atmosferico con circa 47mila decessi prematuri all’anno dovute al PM2.5 su un totale di 253.000 morti nei 27 Paesi membri.  

Che è un dato drammatico intendiamoci. Ma anche qui, visto che ormai ho la pulce nell’orecchio, sono andato a sbirciarmi il trend storico, e indovinate un po’ Negli ultimi dieci e passa anni l’inquinamento dell’aria nel nostro paese è calato costantemente e in maniera consistente!

Insomma, siamo rimasti nelle ultime posizioni perché anche il resto d’Europa è migliorato molto, negli anni. Questo ovviamente non deve diventare una scusa per accontentarsi, il percorso verso un’aria pulita è ancora lungo, però è importante riconoscere e celebrare anche i traguardi raggiunti.

AltrEconomia ha pubblicato un’inchiesta molto interessante, anche se forse interessante non è il termine giusto, sulla gestione dei flussi migratori da parte del governo, dalla quale sembra emergere un disegno abbastanza chiaro: gestire gli sbarchi in maniera emergenziale, creare disagi e un congestionamento costante di persone a Lampedusa in modo da poter approvare più agevolmente leggi molto restrittive. 

Ma andiamo con ordine. Nel nuovo governo, il Ministero dell’Interno rispetto al passato ha fortemente ridotto qualità e quantità dei dati pubblicati nel cruscotto statistico giornaliero e nella sua rielaborazione di fine anno, relativi all’immigrazione. Il che già di per sé è sintomo di una certa opacità, diciamo. 

Gli unici dati resi disponibili dal ministero sul 2023 sono che sono sbarcate sulle coste italiane 157.651 persone, il dato più alto dal 2017 ma inferiore al 2016, quando furono 181.436. Che le prime cinque nazionalità dichiarate al momento dello sbarco, che rappresentano quasi il 50% degli arrivi, sono di cittadini della Guinea, Tunisia, Costa d’Avorio, Bangladesh, Egitto. E che i minori soli sono stati 17.319. Fine.

Ma AltrEconomia è riuscita ad ottenere, attraverso un’istanza di accesso civico generalizzato, altri dati, che permettono di capire diverse cose. Un primo dato che balza all’occhio è che le autorità italiane hanno classificato come operazioni di polizia oltre 1.000 sbarchi, per un totale di quasi 40mila persone, poco più di un quarto di tutti gli arrivi via mare. Questo, scrive il giornalista, nonostante gli effetti funesti che la confusione tra “law enforcement” e ricerca e soccorso ha prodotto proprio in occasione del naufragio di Cutro di fine febbraio dell’anno scorso a pochi metri dalle coste calabresi, quando morirono più di 90 persone, e sulla quale sta indagando la Procura di Crotone.

Fermiamoci un attimo. Che vuol dire questa roba? In pratica le attività della guardia costiera possono essere di due tipi, relativamente alle barche di immigrati. Possono essere “Attività Search and Rescue” ovvero di salvataggio, oppure di Law enforcement, ovvero operazioni di polizia nei confronti di persone che tentano illegalmente di entrare in Italia. Fino al 2019 praticamente tutte le operazioni erano classificate come Search and Rescue, ma le cose sono cambiate con Salvini Ministro dell’Interno. 

La qualifica delle “persone” è cambiata d’un tratto: alle persone “soccorse” sono state affiancate quelle “intercettate nel corso di operazioni di polizia di sicurezza”, tecnicamente definite operazioni di “Law Enforcement”. Tecnicamente la differenza la fa se l’imbarcazione è giudicata in difficoltà o meno, ma il dramma di Cutro mostra che questo tipo di giudizio è molto relativo e discrezionale. Le operazioni di LE erano tornate a calare negli scorsi anni e hanno avuto nuovamente un’impennata quest’anno, con il nuovo governo. 

Che altro emerge dai dati? Un altro aspetto è che ci sono stati mesi in cui dalla Tunisia sono sbarcate anche oltre 20mila persone. Una tendenza che ha conosciuto una brusca interruzione a partire dal mese di ottobre 2023, quando gli sbarchi in quota Tunisia, al netto delle condizioni meteo marine, sono crollati a poco meno di 1.900, attestandosi poco sotto i 5mila nei due mesi successivi.

Il motivo? Il fatto che a settembre 2023 Unione europea e Italia hanno stretto il “solito” accordo che prevede soldi e forniture in cambio di “contrasto ai flussi”, ovvero contrasto ai diritti umani. .

“Un altro dato utilissimo per capire come “funziona” la macchina mediatica della presunta “emergenza immigrazione” – continua l’articolo –  è quello dei porti di sbarco. Il primo e incontrastato porto sul quale lo scorso anno è stata scaricata la stragrande maggioranza degli sbarchi è Lampedusa, con quasi 110mila arrivi (di cui “solo” 7.400 autonomi) contro i 5.500 di Augusta, Roccella Jonica, i 4.800 di Pantelleria e i 3.800 di Catania. In passato non è sempre stato così. Ma Lampedusa è troppo importante per due ragioni: dare in pasto all’opinione pubblica l’idea di una situazione esplosiva e ingestibile, bloccando i trasferimenti verso la terraferma (vedasi l’estate 2023), e contemporaneamente convogliare quanti più richiedenti asilo potenziali possibile nella macchina del trattenimento dell’hotspot”.

Poi, c’è il classico mito sfatato (che già si sapeva eh, ma p sempre interessante ricordarlo): nonostante l’enorme peso mediatico e politico che viene affibbiato alle Ong, “i dati, ancora una volta, confermano il loro ruolo ridotto a marginale. Nel 2023, gli assetti delle Organizzazioni non governative hanno salvato e sbarcato in Italia neanche 9mila persone. Poco più del 5% del totale. Anche nei mesi più intensi degli arrivi la quota delle Ong è stata limitata”.

Peraltro, come noto, le poche navi umanitarie intervenute sono state deliberatamente indirizzate verso porti lontani. Il primo per numero di persone sbarcate è stato Brindisi (quasi 1.400 sbarcati su 9mila), ovvero 285 miglia in più rispetto al Sud-Ovest della Sicilia. Segue Lampedusa con 980, vero, ma poi ci sono Carrara (535 miglia di distanza in più dalla Sicilia), Trapani, Salerno, Bari, Civitavecchia, Ortona.

Una recente analisi di Sos Humanity -ripresa dal Guardian a metà febbraio- ha stimato che questo modus operandi delle autorità italiane possa aver complessivamente fatto perdere alle navi delle Ong 374 giorni di operatività. Nell’anno in cui sono morte annegate ufficialmente almeno 2.500 persone e intercettate dalle milizie libiche e riportate indietro, sempre ufficialmente, quasi 17.200.

Devo dire che al di là del dramma delle persone coinvolte in questi viaggi e tratte disumane, trovo sempre interessante quando temi complessi come l’immigrazione vengono affrontati facendo ricorso a dati, perché i dati ci permettono di capire la situazione, prima ancora che di giudicarla. E capire come stanno le cose, soprattutto su argomenti così politicizzati e ideologizzati, è davvero essenziale.

Allora, vi volevo parlare oggi anche del fatto che ci sono le elezioni in Sardegna questo weekend. Ma poi 1) avevo tantissime altre notizie, e impegnative, da darvi e 2) ne hanno parlato in maniera molto approfondita i colleghi Alessandro Spedicati e Laura nella nuova puntata di INMR Sardegna. Quindi io do la parola ad Alessandro Spedicati, che ci presenta brevemente la puntata di oggi, e soprattutto vi consiglio di ascoltarvi la rassegna sarda, che trovate sotto fonti e articoli.

Audio disponibile nel video / podcast

Oggi esce anche la nostra storia della settimana, realizzata da Paolo Cignini a cui passo la parola per farcela introdurre.

Audio disponibile nel video / podcast

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