15 Ott 2024

Entra in vigore la direttiva sulla qualità dell’aria! L’Europa verso inquinamento zero – #1002

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Mentre il Consiglio europeo dà il via libera alla nuova direttiva sulla qualità dell’aria, che mette regole molto più stringenti e permette ai cittadini di chiedere risarcimenti se si ammalano a causa dell’inquinamento, i negoziatori che stanno svolgendo il lavoro preliminare per COP29 di Baku hanno raggiunto un importante accordo sui cosiddetti  mercati volontari del carbonio. Parliamo anche del ritorno delle tigri in Kazakistan e di una strage jihadista in Burkina Faso. 

Ci sono due notizie importanti nell’ambito della legislazione ambientale-climatica. La prima arriva dall’Ue, la prendo da GreenMe ed è che il Consiglio europeo ha adottato formalmente la Direttiva sulla qualità dell’aria, che stabilisce nuove regole sulla qualità dell’aria in tutta l’Unione europea. Vediamo cosa prevede.

Le novità principali sono tre.

Innanzitutto chiede agli stati di monitorare in maniera più efficace la qualità dell’aria, seguendo una modellazione più recente e completa. 

Poi definisce nuovi standard di qualità dell’aria per gli inquinanti da raggiungere entro il 2030, più in linea con le linee guida più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Standard stringenti che riguardano il particolato PM10 e PM2,5, il biossido di azoto e il biossido di zolfo.

Fra l’altro questa direttiva si inserisce nel piano europeo inquinamento 0 entro il 2050, un piano molto ambizioso che punta a quello che promette nel nome.

Ora, faccio una piccola digressione, ma per capire di cosa stiamo parlando. Dire che dobbiamo ridurre drasticamente gli inquinanti nell’aria significa dire che dobbiamo ridurre le fonti di questi inquinanti. E sapete quali sono le fonti di questo inquinamento?

Per il particolato soprattutto:

  • Automobili a combustione, soprattutto i motori diesel
  • Riscaldamento domestico (stufe a legna, pellet ecc).
  • Industrie e centrali elettriche a carbone

Per il biossido di azoto:

  • sempre automobili.
  • Processi industriali.
  • e sempre centrali elettriche a carbone, petrolio e gas naturale.

Per il biossido di zolfo:

  • Sempre combustione di combustibili fossili
  • Raffinazione del petrolio.

Quindi ecco capite che eliminare l’inquinamento dell’aria significa eliminare questa roba qua. Che non è una roba da poco.

Inoltre in base a questa direttiva, spiega l’articolo, i cittadini potranno chiedere un risarcimento per i danni alla salute nei casi in cui le norme Ue sulla qualità dell’aria non vengano rispettate. Infatti la nuova norma garantisce un accesso giusto ed equo alla giustizia per coloro che sono o possono essere colpiti dalla mancata attuazione della direttiva.

L’articolo poi cita i rischi dell’inquinamento atmosferico, che è attualmente il più grande rischio ambientale per la salute in Europa, dal momento che gli inquinanti sono estremamente dannosi sia per gli esseri umani che per l’ambiente. Secondo le stime, sono circa 300mila i decessi prematuri in Europa che ogni anno sono dovuti all’inquinamento atmosferico. 

L’articolo non cita, ma sarebbe importante farlo, che l’inquinamento ambientale è in calo costante da anni sia in Italia che in Europa. Ciò non toglie che la strada sia ancora lunga, ma siamo su un cammino corretto.

Che succede adesso? Succede che gli Stati membri hanno due anni per recepire la normativa con delle leggi nazionali. Entro il 2030, la Commissione europea riesaminerà gli standard di qualità dell’aria e successivamente ogni cinque anni, per valutare i miglioramenti. Molto bene.

Un altro passo in avanti importante arriva invece dai negoziati tecnici che si stanno svolgendo in vista di COP 29, la conferenza delle parti sul clima che si terrà quest’anno, fra poche settimane, a Baku, in Azerbaijan. 

Sembra essere stato raggiunto un accordo sui mercati volontari del carbonio. In pratica uno dei meccanismi previsti dall’accordo di Parigi per uscire dal carbonio, quindi per smettere di gettare anidride carbonica e altri gas climalteranti in atmosfera sono appunto questi mercati volontari del carbonio, delle piattaforme in cui individui, aziende o organizzazioni possono acquistare o vendere crediti di carbonio per compensare le proprie emissioni di gas serra o promuovere iniziative di sostenibilità ambientale.

In pratica le aziende inquinanti possono comprare crediti (ovvero una sorta di licenza ad inquinare) finanziando attività di piantumazione di alberi, protezione delle foreste e cose del genere. Un sistema che in passato ha mostrato un sacco di limiti, con i crediti che venivano conteggiati più volte e una percentuale risibile di progetti presenti che davano davvero dei risultati in termine di riduzione delle emissioni.

Quali sono quindi le novità che si vorrebbero introdurre? Sostanzialmente due: una valutazione del rischio condotta da esperti indipendenti e metodologie di calcolo più credibili. Vediamole meglio.

Come spiega un articolo su Rinnovabili.it, “L’intero articolo 6 dell’Accordo di Parigi è dedicato a meccanismi per la cooperazione tra stati e altri enti verso l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra e riguarda principalmente i mercati del carbonio. L’articolo istituisce un ambito di “cooperazione volontaria” e definisce due tipi di mercati del carbonio: quelli con scambi bilaterali (articolo 6.2) e il mercato globale del carbonio con scambi multilaterali (articolo 6.4)”.

Si tratta di uno degli articoli più discussi. Nel 2015 il testo del Paris Agreement lasciava da definire molti particolari indispensabili per istituire davvero e far funzionare questi meccanismi. Difficoltà tecniche e interessi politici hanno rallentato il processo. Ancora l’anno scorso, le posizioni di Stati Uniti ed Europa, ad esempio, erano su sponde opposte. Washington premeva per un articolo 6.4 con poche regole, Bruxelles voleva un quadro più sicuro a costo di aumentare la complessità del sistema di scambio dei crediti.

La scorsa settimana è arrivata una svolta che potrebbe superare le divergenze politiche. A Baku, l’ultima riunione tecnica tra le parti ha dato fumata bianca. È stato approvato il framework per il funzionamento dei mercati volontari del carbonio. Cosa prevede?

  • un meccanismo che assicuri maggior tutela dei diritti umani e dell’ambiente: ogni nuovo progetto che vuole poter generare crediti da scambiare sul mercato volontario del carbonio deve presentare una valutazione del rischio indipendente, che valuti 11 ambiti diversi (dall’acqua alle popolazioni indigene);
  • un meccanismo che assicura più coerenza con gli obiettivi internazionali di sviluppo: ogni nuovo progetto deve chiarire come contribuisce al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile (come la fine della povertà), oltre all’obiettivo primario di ridurre le emissioni di gas serra.

Questo nuovo funzionamento, chiamato Sustainable Development Tool, sostituirebbe quello oggi in vigore, il Clean Development Mechanism, molto criticato perché non in grado di assicurare l’effettiva utilità per il clima dei progetti certificati né l’assenza di effetti collaterali di qualsiasi tipo. Il Tool approvato la scorsa settimana si applicherebbe anche ai progetti esistenti, in caso si volesse traghettare i loro crediti nel nuovo sistema Onu.

Diciamo che l’approccio scelto è vicino a quello più “agile” preferito dagli Stati Uniti ma sono presenti delle clausole e dei meccanismi di revisione del quadro ogni 18 mesi che permetterebbero di modificare le regole e renderle più stringenti in un secondo momento. Intanto, comunque, interessante che si sia arrivati ad un accordo su un punto centrale.

Il Times of Central Asia racconta una bella storia di reintroduzione di un grande carnivoro in Kazakistan. Due settimane fa, due tigri dell’Amur ( o tigri siberiane) sono state prelevate da uno zoo nei Paesi Bassi e portate nella Riserva Naturale Statale Ile-Balkhash, nel sud del Kazakistan.

Ovviamente non sono quelle le tigri destinate a ripopolare il territorio, ma – si spera – la loro prole. Le tigri infatti, un maschio e una femmina, vivranno in un recinto appositamente costruito all’interno della riserva, perché avendo vissuto la loro vita in cattività non sono adatte a vivere in natura. Ma si prevede che i loro cuccioli diventino le prime tigri selvatiche a riapparire sul territorio kazako dopo più di 70 anni. E nel 2025, altre tre o quattro tigri arriveranno in Kazakistan dalla Russia.

Si tratta del coronamento di un piano annunciato nel 2010 dal il governo kazako. Sette anni dopo, è stato sviluppato il programma vero e proprio, attuato dal Ministero dell’Ecologia e delle Risorse Naturali del Kazakistan, con il supporto del WWF e del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo. 

Ed è stato individuato il luogo adatto dove fare questa reintroduzione. Ovvero l’Ile-Balkhash, un’area naturale molto importante del delta del fiume Ile che è l’unico delta fluviale preservato in Asia Centrale, mentre gli altri si sono degradati a causa della desertificazione.

Secondo il ministero, la riserva Ile-Balkhash può ospitare una popolazione di fino a 100 tigri.

Pensate che le tigri un tempo erano autoctone del Kazakistan, ed erano anche molto numerose. Poi dalla fine dell’800 è iniziato il tracollo della popolazione. L’eliminazione delle tigri è stato frutto di azioni mirate, anche attraverso azioni militari, sia una conseguenza della distruzione del loro habitat e delle principali fonti di cibo — come il cervo rosso del Tugai, le gazzelle gozzute, i saiga, i kulani, i caprioli e i cinghiali. In 50 anni si arrivò così alla loro estinzione, nel 1948.

Si parla di estinzione perché le tigri che abitavano quell’area erano conosciute come tigri del Turan, presenti in tutta l’Asia Centrale, nel Caucaso e nel nord dell’Iran, ora estinta completamente appunto. Ma i biologi suggeriscono che le tigri del Turan e le tigri dell’Amur, native dell’Estremo Oriente russo, non siano sottospecie distinte, ma appartengano allo stesso gruppo di grandi felini. Da qui la scelta di reintrodurre questa sottospecie che è la più simile.

Secondo il piano, il miglioramento nell’approvvigionamento alimentare naturale delle tigri presente nella riserva, insieme al suo isolamento, aiuterà a evitare conflitti tra tigri e uomini nella zona. 

Fra l’altro questo non è il primo progetto di reintroduzione di specie in via d’estinzione in Kazakistan. Nel giugno 2024, otto cavalli di Przewalski sono stati reintrodotti nella Riserva Naturale di Altyn Dala. 

Quello della reintroduzione di grandi mammiferi in habitat naturali è un tema molto discusso anche da noi, dagli orsi, ai lupi, ai cervi ai cinghiali. Se l’argomento vi interessa ne parla il nostro direttore Daniel Tarozzi nella prima puntata del nostro nuovo podcast per abbonati, Soluscions.

E a proposito di legame con la natura vi segnalo anche un bell’articolo dell’etologa e fondatrice di Eticoscienza Chiara Grasso, sui benefici dell’outdoor education, dati alla mano. Che devo dire sono strabilianti.

Ieri su Domani, scusate il caos temporale, ma Domani è il nome del giornale in questione, è uscito un articolo del politologo Mario Giro dal titolo “Un altro massacro nel Burkina Faso che nazionalizza le miniere”. Ve ne parlo per due motivi. Il primo è che la notizia, anche se n realtà è un po’ vecchia, è importante e l’articolo ha un sacco di elementi interessanti. Il secondo è che il titolo è piuttosto equivoco, ma su quello ci torniamo dopo. Iniziamo dai fatti. 

I fatti in questione non sono in realtà recenti, si riferiscono alla fine di agosto, quando c’è stato un terribile massacro di civili in una zona rurale del Paese, ad opera di un gruppo jihadista. A Barsalogho, a 140 chilometri a nord della capitale Ouagadougou sono stati uccisi circa 600 abitanti e contadini della zona. La strage è opera dello Jnim, il gruppo armato jihadista affiliato ad al Qaeda che da tempo organizza scorribande e ha preso il controllo parziale del Nord del paese.

Secondo l’esperto, “I jihadisti approfittano della debolezza degli stati saheliani – come anche in Mali e il Niger – per attaccarli e seminare il terrore nella popolazione, provocando importanti movimenti di sfollati”.

Comunque, la strage del gruppo terroristico è stata a sua volta una reazione alla costruzione, voluta dal governo di Ibrahim Traorè e dall’esercito, di una trincea in funzione difensiva contro gli stessi jihadisti. Che però è diventata la tomba dei locali.

Le foto della trincea piena di cadaveri sono state postate sui social come monito contro prossime imprese simili. In questo modo lo Jnim dimostra di controllare il territorio e aver preso in ostaggio la popolazione, stretta ormai in una tenaglia micidiale tra esercito e terroristi. I mercenari russi sono anch’essi sulla difensiva dopo i colpi ricevuti nei paesi confinanti e la rarefazione degli approvvigionamenti logistici dalla madrepatria occupata dalla guerra in Ucraina.

Insomma, la situazione dei civili nelle aree a nord del paese è davvero complicata. E l’esercito del Burkina Faso è praticamente da solo a provare ad arginare l’avanzata jihadsista. I tanto promessi aiuti europei e americani – questo lo aggiungo io – non sembrano essere pervenuti. E quelli russi iniziano a vacillare. 

Qui poi l’articolo fa un passaggio logico un po’ vacillante e passa a parlare della nazionalizzazione delle miniere. Leggo: “Nelle stesse ore in cui il massacro diventava pubblico, la giunta al potere ha annunciato di aver nazionalizzato tutte le miniere d’oro del paese, quinto produttore africano. Attualmente la situazione della produzione d’oro e di altri minerali preziosi è la seguente: nove miniere gestite dai canadesi; quattro dai russi e quattro dai turchi; due da società indiane e due australiane. Una sola miniera è in mani burkinabé”.

E più avanti: “Attorno allo sfruttamento dell’oro vi sono molti interessi anche se il Burkina non ha né le competenze e l’esperienza per gestire le miniere in proprio, tenendo conto che si tratta di investimenti e produzioni abbastanza recenti. Tra l’altro il settore dell’estrazione non è del tutto sotto controllo: attualmente si contano nel paese più di 600 siti di estrazione artigianale, con circa un milione di persone che vivono direttamente di tale attività. L’estrazione artigianale dell’oro (detta “orpaillage”) si è sviluppata negli ultimi due decenni. Il governo dovrà ora affidarsi a tecnici stranieri: saranno ancora una volta i russi com’è avvenuto in altri stati confinanti? Oppure saranno scelti altri, in nome di una maggior autonomia?

“L’idea che circola oggi tra le élite del continente è che occorra smettere di dipendere da qualcuno: meglio diversificare e avere numerosi partner con i quali negoziare di volta in volta condizioni migliori. L’unica certezza è che la raffinazione dell’oro burkinabé avverrà negli Emirati, come per quello di tutta la regione. È ovvio che occorre anche garantire una maggior sicurezza a chi opererà in futuro: se i massacri continuano avvicinandosi alle città più grandi, sarà molto complicato per il governo trovare partner affidabili”.

Dicevo all’inizio che ci sono alcune cose strane sia nel titolo che in alcuni passaggi della notizia. L’articolo in sé è interessante. ma:

  • Il titolo – che ricordo è “Un altro massacro nel Burkina Faso che nazionalizza le miniere” – lascia intuire che ci sia un legame fra la nazionalizzazione delle miniere e la strage di civili. Cosa che invece non c’è
  • Più volte nel pezzo si allude in maniera un po’ velata a delle possibili criticità di questa operazione di nazionalizzazione delle miniere. Che per carità, ci sono davvero eh! In primis quella delle competenze. Ma non si fa riferimento alla rilevanza storica di un Paese africano fra i più poveri che prende in mano le sue risorse, togliendole a Canada, Russia, Turchia. Quindi un po’ a tutti, senza favorire apparentemente nessuno.

Insomma, mi sembra un articolo che – non so dire quanto consapevolmente o in cattiva fede – ma di fatto getta cattiva luce su un’operazione che, senza negare le criticità, resta un fatto storico. 

Fra l’altro, ho fatto una rapida ricerca, e l’autore Mario Giro, che Domani presenta semplicemente come politologo, è in realtà un politico ed ex diplomatico, nonché ex viceministro degli affari esteri nei governi Renzi e Gentiloni, quindi insomma, uno che almeno dal lato politico ha curato gli affari esteri italiani anche in Africa. E che quindi – ipotizzo – non vede di buon occhio la spinta all’autodeterminazione del Paese africano. 

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