28 Giu 2024

Dibattito presidenziali Usa: Trump attacca, disastro Biden. I dem pensano a un sostituto – #958

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Il dibattito tv fra Trump e Biden è stato disastroso per l’attuale Presidente democratico e diverse voci interne ai dem iniziano a chiedere, ancora non ufficialmente ma ufficiosamente, che si ritiri dalla corsa presidenziale. Ieri è stata anche la giornata delle nomine dei vertici Ue, che hanno confermato Von der Leyen, Costa e Kallas nei ruoli di vertice, ma anche diverse spaccature in seno all’Unione. Parliamo anche della legge approdata in Parlamento che prevede il carcere per chi blocca il traffico per protesta e dei patti digitali, accordi fra famiglie per un corretto utilizzo dei device digitali da parte dei più giovani (e non solo).

Stanotte, attorno alle 3 italiane, c’è stato l’attesissimo dibattito in tv fra Trump e Biden, i due candidati presidenti americani. 90 minuti di botta e risposta. Come è andato? Be’, diciamo che nessuno dei due candidati ha brillato, ma in particolare Biden preoccupa i democratici. Come sintetizza Michael Shear, esperto del NYT che segue le presidenziali da oltre 16 anni, “L’ex presidente Donald J. Trump ha ripetutamente sferrato attacchi aggressivi, spesso fuorvianti, contro un presidente Biden traballante, offrendo a milioni di elettori un netto contrasto in una rivincita ad alta posta in cui la performance di Biden è stata ripetutamente nebbiosa e disarticolata.

E difatti sono le condizioni di Biden a tenere banco subito dopo il dibattito tra i democratici e in generale negli Usa, più che i temi trattati. Perché davvero, il presidente è sembrato confuso, continuava a incespicare sulle parole, non riusciva proprio ad ingranare. 

Il dibattito in sé è stato molto incentrato su reciproci attacchi personali, e temi appena sfiorati e toccati con una superficialità disarmante. Si è parlato di aborto, immigrazione, politica estera, ma appunto, il tutto punteggiato da attacchi personali sulle rispettive vicende giudiziarie (rispettive: quella di Trump e quella del figlio di Biden) e così via. Ma come vi dicevo, basta che vi facciate un giro sul NYT per capire che la questione è un’altra. 

Fin dal primissimo quesito, la voce del presidente Biden era poco più di un sussurro, un soffio. Ha iniziato a parlare in maniera quasi impercettibile, si è interrotto tossendo. Per qualche attimo si è temuto persino che facesse scena muta. Biden era salito sul palco con la necessità di placare le preoccupazioni sulla sua età e sulla sua capacità mentale. E invece le ha moltiplicate.

Persino Trump – racconta ancora il Times – sembrava quasi sorpreso mentre il suo avversario inciampava e lottava per trovare le parole. “Non so davvero cosa ha detto alla fine di quella frase,” ha detto Trump dopo che Biden ha risposto a una domanda sulla sicurezza delle frontiere non dieci minuti dopo l’inizio del dibattito. “Non credo che lo sapesse nemmeno lui.”

E considerate che Biden aveva liberato il suo calendario e si era rinchiuso a Camp David per giorni per prepararsi al dibattito. 

Al contrario i messaggi di Trump erano spesso infarciti di inesattezze o menzogne vere e proprie ma veniva comunicato in modo chiaro, feroce e impaziente. Biden, al contrario, stava a bocca aperta, gli occhi che si muovevano avanti e indietro, mentre il suo avversario parlava.

Comunque, questo dibattito è andato talmente male per Biden, che sembra aver rimesso al centro la questione innominabile, l’elefante nella stanza dei democratici, che inizia ad essere finalmente nominata. Leggo sempre sul NYT che subito dopo il dibattito Mark Buell, un importante donatore per Biden e i Democratici, ha detto che Biden deve seriamente considerare se è il miglior candidato. “Abbiamo tempo per mettere qualcun altro al suo posto?” ha detto Buell. Ha affermato che non sta ancora chiedendo ufficialmente a Biden di farsi da parte, tuttavia, ha aggiunto: “Abbiamo la responsabilità di valutare seriamente il pensiero degli americani in questo momento e metterlo davanti a Biden perché la posta in gioco in questa corsa è troppo alta.”

Un membro del Comitato Nazionale Democratico, Nadia B. Ahmad, ha chiesto al Presidente Biden di terminare la sua campagna. “Ora sarebbe un buon momento per Biden di ritirarsi citando preoccupazioni di salute”.

Certo, manca poco tempo, e se questa scelta deve essere fatta va fatta adesso. Al momento, l’immagine che emerge dal dibattito presidenziale Usa è abbastanza inquietante. Il paese con l’esercito e l’economia più grandi del mondo è conteso fra un matto e bugiardo seriale, e una persona semi incapace di intendere e di volere. E al momento è governato da una persona semi-incapace di intendere e di volere, al punto che mi domando quali decisioni stia effettivamente prendendo attualmente il presidente e quali e quante le stia prendendpo il suo staff. 

In tutto ciò, consideriamo che il mandato presidenziale Usa dura 4 anni. Se Biden sta così oggi, come starà fra 4 anni? Comunque, vedremo se i prossimi giorni ci riserveranno delle sorprese.

Ieri sera c’è stato anche il Consiglio europeo, e anzi questa doveva essere la notizia di apertura di oggi se non fosse che l’esito del dibattito americano mi ha convinto ad aprire con quello. Perché ieri sono state ufficializzate le nomine dei principali ruoli del nuovo corso dell’Unione europea, nuovo corso che è abbastanza simile al precedente, basato sull’asse Popolari-socialisti-liberali: Ursula von der Leyen è stata confermata alla presidenza della Commissione europea, il socialista António Costa, ex primo ministro portoghese, per il Consiglio, Kaja Kallas, premier estone, come alto rappresentante dell’Unione europea. 

Giorgia Meloni ha preferito astenersi su von der Leyen ed ha votato contro sugli altri due nomi, appoggiata in questa sua linea divergente, praticamente solo dall’ungherese Viktor Orbán.

I giornali italiani si concentrano moltissimo sul ruolo di Meloni, definita di volta in volta emarginata, fatta fuori, autoesclusa. La nostra premier che è stata al centro del dibattito, anzi è stata il dibattito, alludendo più volte allo scandalo per essere stata fatta fuori dai giochi. 

Il consiglio europeo di ieri è stato molto molto denso. Siamo a Bruxelles e per tutto il pomeriggio fino all’ora di cena i leader europei hanno parlato della cosiddetta “Agenda Strategica”, ovvero di quale sarà il programma di questa nuova legislatura, basato su tre pilastri: Economia, Difesa e Democrazia. Noto, senza stupore, ma solo per verbalizzare la cosa, che ambiente non è proprio nominato.

Il programma è stato preparato da Von der Leyen e ampiamente emendato da Germania e Francia, i paesi che – scrive Repubblica – anche stavolta hanno dato le carte nelle scelte fondamentali dell’Ue. 

Poi si arriva alle 22 e solo allora, a cena inoltrata, i leader iniziano a discutere le nomine. Con ampi preamboli e frasi diplomatiche del caso. Leggo ancora su Repubblica. “Gli stessi Popolari hanno approcciato il summit cercando di indorare la pillola. «Nessuna decisione verrà presa senza l’Italia», ha detto il “negoziatore” del Ppe, il premier polacco Tusk. Facendo intendere che ufficialmente la decisione sarebbe stata presa durante il Consiglio europeo. Ma senza considerare la possibilità di modificare le candidature. E in effetti Meloni non l’ha presa bene. Durante la prima parte della riunione è rimasta silenziosa. E quando Michel ha aperto il dibattito, tutto è cambiato. Dalla sala sono uscite Von der Leyen e Kallas (al momento premier estone) per evitare qualsiasi forma di conflitto di interessi. La speranza che il “Pacchetto” venisse approvato con il consueto meccanismo del silenzio-assenso è svanita in un attimo. Meloni: «Non ci sto»”.

Ora, sicuramente c’è un tema, che è quello dell’esclusione del nostro Paese dagli incarichi che contano e dalla possibilità di giocare un ruolo di primo piano. Non so dire se sia esclusione o autoesclusione, certo è che le parole del cancelliere tedesco Olaf Sholtz trapelate ieri (volontariamente) dall’incontro a porte chiuse dei socialisti suonavano abbastanza perentorio. Non vogliamo nessun tipo di accordo con il gruppo di Meloni, escludere le destre sovraniste è l’unico modo per sconfiggerle (che poi su questo avrei qualcosa da ridire ma vabbé).

Quindi ecco, nei fatti le decisioni sono state prese dall’asse franco-tedesco, con Macron e Scholz che hanno giocato un ruolo di primo piano e mi chiedo un po’ quanto sia legittimo, fra l’altro considerando che i due leader in questione sono al momento i leader con minor legittimità elettorale in campo europeo, risultati alla mano. Comunque, vorrei in realtà soffermarmi un attimo sulle nomine stesse, tema su cui nessun giornale si sofferma ma che credo siano un filino più importanti.

Perché, se su Antonio Costa non ho niente da ridire onestamente, personaggio molto amato in Portogallo e autore, in parte, della rivoluzione verde del Portogallo, dimessosi a novembre per uno scandalo corruzione che però sembrerebbe non lo riguardasse (c’erano intercettazioni che tiravano in ballo il suo nome ma sembrerebbe fossero riferite all’omonimo ministro dell’economia), un po’ più di dubbi me li generano sia il bis di Von der Leyen che la nomina di Kallas.

Von der Leyen non sembra ormai da tempo quella della prima ora, ecologista convinta e fautrice del green deal, ma complice anche lo slittamento a destra dei popolari, di cui è membro, sembra aver lasciato perdere le tematiche ambientali e essersi posizionata più su una linea bellicista convinta. Tant’è che come ci suggeriva in una puntata di INMR+ Dario tamburrano, fresco adesso di nuova elezione, il green deal stesso sembra essersi spostato almeno in parte verso un piano di conversione bellica dell’economia. 

E poi c’è la premier estone Kaja Kallas, che è la nuova Alta rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Un ruolo molto importante, è una sorta di ministro degli esteri ma ancor più istituzionale, è quello che tiene i rapporti diplomatici e così via. Ecco, in questo ruolo – e in questo momento storico – è stata scelta una persona che a febbraio è stata inserita da Mosca nella lista dei ricercati: è il primo leader straniero ad avere ricevuto questo trattamento dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. 

Così ne parla Francesca Basso sul Corriere: “La Russia è la sua ossessione. E forse non potrebbe essere altrimenti. È una questione anche di famiglia: durante le deportazioni sovietiche dall’Estonia, sua madre Kristi di appena sei mesi fu trasferita a forza con la madre e la nonna in Siberia e vi rimase fino ai dieci anni. Antiputiniana, in questi mesi Kallas ha esortato gli altri leader Ue a sostenere con fermezza finanziariamente e militarmente l’Ucraina. Quando ha cominciato a circolare il suo nome per la guida della diplomazia Ue, c’è chi ha sollevato dubbi per i suoi rapporti tesissimi con Mosca.

Una fonte anonima, riportata dal sito Politico, aveva messo in guardia: «Stiamo davvero mettendo qualcuno a cui piace mangiare i russi a colazione in questa posizione?». 

Posizioni, quelle di Kallas, che sono comprensibili in quanto leader estone, visti i trascorsi e la situazione del suo paese con la Russia, ma ecco, forse sceglierla in questo momento per questo ruolo non è il massimo. O meglio: è indice di dove vuole andare l’Europa, verso uno scontro frontale con la Russia di Putin.

Non è una bella prospettiva, devo dire. E viene da chiedersi: che possiamo fare. A questo proposito, vi invito a leggere un articolo che abbiamo pubblicato ieri su ICC, in cui la nostra Laura Tussi intervista il padre comboniano Alex Zanotelli, che ribadisce l’importanza, dal suo punto di vista, della protesta e della disobbedienza.

Vi leggo giusto un passaggio: 

Chiede la giornalista: “Una tragica situazione sussiste in Europa, ma anche in Medioriente. Con questi forti venti di guerra, con queste volontà e con questi contrasti. Come possiamo, in quanto società civile, attivarci e cosa possiamo fare per porre un freno e per cercare di invertire la rotta?” 

Risponde Zanotelli: “L’ho detto anche altre volte: la penso come la pensa padre Berrigan, che forse voi non conoscete. Berrigan era un gesuita, non so se sia ancora vivo. Un gesuita americano che ha animato la resistenza nei giovani contro la guerra in Vietnam. Si è fatto la bellezza di quattro mesi di galera e lui diceva: “Inutile parlare di pace, se non altro perché parlare di pace costa tanto quanto fare la guerra”. Bisogna avere il coraggio di protestare, di praticare la disobbedienza civile, di finire in galera, come ha fatto per esempio Ultima Generazione”.

Finire in galera per protestare, diceva Padre Zanotelli. Ecco, questo poteebbe essere molto più facile, perlomeno in Italia. Infatti è appena passata in commissione e approdata in parlamento quella che è stata definita dai giornali la norma anti-Gandhi, ma potrebbe essere più che altro una norma anti attivisti climatici. Sto parlando del ddl sicurezza, che ieri è passato in commissione, dopo che tutti gli emendamenti dell’opposizione sono stati respinti, e quindi approda in parlamento. 

Leggo su la Repubblica, articolo a firma di Alessandra Ziniti, “Il testo della maggioranza approderà in aula così, portando una stretta mai vista al diritto di protestare. Carcere, addirittura fino a due anni, se si è in gruppo e con il proprio corpo si blocca il passaggio di veicoli. Teoricamente persino un gruppo di studenti che fa un sit-in di protesta davanti una scuola fermando il traffico per qualche minuto rischia il carcere”.

Più nel dettaglio la nuova legge prevede carcere fino a un mese per chi da solo blocca una strada e da sei mesi a due anni se il reato viene commesso da più persone riunite. Laddove la legge attualmente prevede solo una multa da mille a quattromila euro. Questa modifica di fatto istituirebbe il reato penale di blocco stradale punibile appunto con la reclusione.

È una roba, onestamente, molto molto grave. Premesso che stiamo parlando di un ddl, che adesso approda in parlamento e dovrà essere discusso e approvato da entrambe le camere, ma ecco, questa misura presente che impedisce alle persone di bloccare il traffico mi sembra davvero assurda e senza precedenti, a meno di non tornare indietro di un secolo, agli anni venti del secolo scorso (e a giudicare dagli scandali che continuano a emergere sulle simpatie dei giovani meloniani di Gioventù nazionale, forse non siamo tanto distanti). 

Il mio pensiero va subito agli attivisti e attiviste di Ultima generazione che ormai da diversi anni portano avanti questo tipo di protesta nel nostro paese, bloccando spesso il traffico con l’idea che di fronte a un pericolo enorme e imminente come la crisi climatica, sia lecito creare del disagio nelle persone per spingerele a prendere coscienza del problema. 

Ora, magari possiamo discutere sul fatto che la cosa funzioni o meno, che sia una buona leva per la consapevolezza oppure no, io stesso non ho le idee chiarissime su questo, ma penso che sia fondamentale che tutto ciò, che questa disobbedienza civile nonviolenta abbia la possibilità di proseguire. 

Sapete cosa sono i patti digitali? No? Be’, non lo sapevo nemmeno io. Conosco invece molto bene la necessità da cui nascono, che è una delle più grandi sfide del nostro tempo, ovvero dare delle regole e dei limiti all’uso dei dispositivi digitali, smartphone in primis, ai bambini e ragazzini/e. 

I patti digitali sono appunto dei patti, fra famiglie, per fare proprio questa cosa qua. Non vi dico altro perché ne parliamo oggi su ICC e allora ho chiesto a Susanna Piccin, che ha scritto l’articolo, di introdurceli. Mi raccomando però, leggetevi l’articolo che p davvero molto molto interessante.

Audio disponibile nel video / podcast

Riferimento a elezioni francesi.

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