27 Ott 2023

La Danimarca rinuncia a mangiare carne? – #819

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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La Danimarca ha presentato un piano per ridurre drasticamente il consumo di carne e incentivare le soluzioni a base vegetale: parliamone. Parliamo anche di una nuova sparatoria negli Usa, del governo che ha provato, forse, a reintrodurre il nucleare in Italia senza autorizzazioni, della cattura di Co2 che non funziona e infine dell’ultima puntata della nostra inchiesta sul rigassificatore di Vado Ligure e di un’intervista a Vittorio Arrigoni.

La Danimarca potrebbe diventare il primo Paese al mondo a eliminare dalla dieta dei suoi cittadini i prodotti a base di carne. Ne parla, in Italia, solo un articolo di Today, ma ho trovato anche qualche fonte in inglese che cita la notizia. La notizia è che “Il governo di Copenaghen ha pubblicato nei giorni scorsi un piano d’azione che mira a aumentare la produzione e il consumo di alimenti a base vegetale e rispettosi del clima attraverso sostegni finanziari al settore pubblico, all’industria e ai centri di ricerca e sviluppo”.

Il piano d’azione da un lato spinge sull’aumento dei consumi di prodotti a base vegetale, puntando innanzitutto sui menù delle mense scolastiche e in generale del settore pubblico. Dall’altro lato punta a far diventare la Danimarca una potenza mondiale nella produzione di cibo “plant-based”, compresa la finta carne, e per farlo incentiverà le attività di ricerca e sviluppo, la formazione degli chef e le start-up. Tale piano si aggiunge a un fondo ad hoc da 100 milioni di euro lanciato già all’inizio di quest’anno per promuovere questo tipo di prodotti.

In questo caso, se ben capisco, non si parla di carne cresciuta in laboratorio, ma di plant based meat, ovvero prodotti alimentari a base di ingredienti vegetali come la soia, lavorati per imitare le caratteristiche di specifici tipi di carne, come la consistenza in bocca, il sapore, l’aspetto.

Su questo il governo della Danimarca, sempre secondo il piano, vorrebbe fare del paese un esempio a livello mondiale. “L’aspirazione del governo è che l’approccio innovativo della Danimarca nella produzione e nel consumo di alimenti a base vegetale sia di ispirazione per il resto del mondo”, si legge nella dichiarazione ufficiale.

Secondo i calcoli del ministero dell’Agricoltura, lo sviluppo di un’industria del cibo alternativo alla carne potrebbe portare ricavi pari a 3,5 miliardi di euro alle casse pubbliche (compresi i risparmi per la sanità) e creare circa 27mila posti di lavoro. Per il ministro Jacob Jensen, “gli alimenti a base vegetale sono il futuro”: la transizione dalla carne “è necessaria” e “non c’è dubbio che una dieta più ricca di vegetali aiuta a ridurre la nostra impronta climatica”, ha aggiunto.

Ora, vediamo di dare un commento sensato. Prima cosa, bene che il governo danese cerchi di risolvere il problema della carne. Considerate che solo l’industria della carne bovina, fra produzione, lavorazione e consumo, causa nel paese otto milioni di tonnellate di Co2 all’anno. Un quantitativo pari al 40% dell’obiettivo che il Paese si è imposto per ridurre le emissioni di gas serra. Il 55% delle emissioni nel settore alimentare, in Danimarca, sono causate dal consumo e dalla produzione di carne di manzo. Senza considerare il tema della sofferenza animale negli allevamenti intensivi, della salute umana, degli altri impatti sugli ecosistemi, delle malattie, dell’antibiotico resistenza e così via, tutti fenomeni collegati all’allevamento di animali da carne.

Quindi bene. Certo, c’è comunque un aspetto che mi preoccupa in questo tipo di soluzione: che sono soluzioni additive. Che aggiungono complessità al sistema. Siamo già in un sistema ipercomplesso e per molti versi ingovernabile. Visti i grossi cambiamenti che dobbiamo fare, dovremmo sforzarci di semplificare tutto il più possibile, sennò è come far inversione con una portaerei in un canale di Venezia. Insomma dovremmo trasformare la portaerei in una gondola e invece continuiamo a costruire nuovi pezzi della portaerei.

Dobbiamo smettere di mangiare carne? Bene, perché non incentivare un maggior consumo di ortaggi e legumi locali e stagionali? Potremmo semplicemente togliere la carne, buona parte di essa almeno. E invece quello che facciamo è aggiungere un’altra filiera, quella della finta carne. E poi ci sarà quella della carne in laboratorio, e poi i prodotti a base di insetti. Lo facciamo, di fondo, perché viviamo in una società basata sulla crescita, in cui togliere è un tabù, perché fa contrarre le economie. E quindi capisco benissimo che i governi facciano queste scelte. Solo che così continuiamo a complicare il sistema e arriveremo al punto in cui sarà talmente inestricabile che non sarà più governabile né più semplificabile. 

Invece, dovremmo iniziare a modificare gli assunti di base del sistema. Tipo la crescita. E un po’ sta succedendo eh! Tipo in Europa, ne abbiamo parlato spesso qui. Ma ecco, se c’è qualcosa su cui dobbiamo accelerare, per far rallentare tutto il resto, è quell’aspetto lì.

Mercoledì sera negli Usa (quando da noi era notte) ci sono state due grosse sparatorie nella città di Lewiston, in Maine, in cui sono morte molte persone. Il numero ancora oreciso non si sa, ma sarebbero almeno 16, probabilmente più di 20.

Leggo dal Post che “Le autorità locali non hanno ancora comunicato ufficialmente quante persone siano state uccise, ma alcuni funzionari delle forze dell’ordine che hanno parlato in forma anonima con diversi media americani – tra cui l’agenzia di stampa Associated Press e il Washington Post – hanno detto che sarebbero almeno 16. È un numero comunque descritto come provvisorio e che potrebbe salire.

Gli attacchi sono stati compiuti in un ristorante e in una pista da bowling della città. Al momento la polizia ha identificato un solo sospettato per entrambi gli attacchi: Robert Card, un istruttore di tiro con armi da fuoco delle riserve dell’Esercito degli Stati Uniti. Card è ricercato dalla polizia del Maine: ci sono centinaia di agenti di polizia che lo cercano a Lewiston e nelle zone circostanti.

Le autorità locali hanno diffuso una foto di Card, e hanno detto alle persone di diverse città della zona di rifugiarsi nelle proprie case e di non uscire. Un funzionario delle forze dell’ordine, parlando in forma anonima con diversi giornali statunitensi, ha detto che da un’analisi dei precedenti di Card risulta che in passato aveva avuto problemi di salute mentale e che la scorsa estate era stato ricoverato per due settimane presso un ospedale psichiatrico. Le motivazioni degli attacchi al momento non sono chiare.

La polizia ha detto di aver trovato a Lisbon, una piccola città poco distante da Lewiston, un veicolo che si ritiene sia stato usato da Card per andare nei luoghi degli attacchi. Gli ospedali della zona hanno richiamato tutto il personale disponibile e hanno sospeso i trattamenti non urgenti per poter curare le molte persone ferite negli attacchi.

Comunque, con ogni probabilità siamo di fronte all’ennesimo caso di shooting negli States, un fenomeno purtroppo ricorrente, che è molto facile ricollegare all’estrema facilità con cui negli Usa si può reperire un’arma. Un dibattito che sappiamo essere ricorrente, ma che spesso si conclude con dei nulla di fatto. Biden ha provato a inserire un po’ di paletti e limitazioni sul possesso di armi da fuoco, ma onestamente sono poca cosa e la lobby delle armi negli Usa continua ad essere molto molto potente.

Torniamo a parlare di politica nostrana, e del presunto tentativo – dico presunto perché non ce n’è la certezza al momento – di blitz notturno della maggioranza di alcuni parlamentari di maggioranza per reintrodurre il nucleare dalla finestra nel nostro paese. Leggo sulla Stampa: “Inserire gli «impianti energetici» fra le opere destinate alle difesa nazionale. Lo chiedeva un emendamento al decreto legge Sud presentato dai relatori durante l’esame notturno in commissione Bilancio e ritirato dopo le proteste delle opposizioni, che ritengono di aver «sventato un vero e proprio blitz» in una seduta piuttosto movimentata chiusa alle 4 del mattino”.

In una misura dedicata alla gestione dei flussi migratori, il decreto qualifica come opere destinate alla difesa e sicurezza nazionale hotspot e Cpr. L’emendamento firmato da Ylenja Lucaselli (FdI), Mauro D’Attis (FI) e Francesco Saverio Romano (Nm), puntava ad aggiungere all’elenco (dove la legge prevede ad esempio basi navali, caserme, basi missilistiche, poligoni e strutture di addestramento) anche gli impianti energetici.

Ma qual’era il rischio? Secondo l’opposizione questo emendamento, presentato all’ultimo momento, apriva il rischio di applicare i requisiti di segretezza e le deroghe alle procedure di autorizzazioni anche a rigassificatori o centrali nucleari. In pratica poteva essere un modo per costruire impianti di questo genere senza passare per l’approvazione del parlamento. 

Come racconta Maria Cecilia Guerra, deputata e responsabile lavoro nella segreteria Pd “Abbiamo chiesto spiegazioni, ma i relatori non sono stati in grado di darle. Hanno provato a sostenere che serviva per portare l’elettricità a caserme e Cpr, cosa ovviamente non vera. Se vogliono introdurre un provvedimento cosi grave lo facciano nel decreto energia, alla luce del sole».

Ovviamente non abbiamo la certezza che le intenzioni dei 3 parlamentari di destra fossero effettivamente quelle denunciate dall’opposizione, ma un po’ il sospetto c’è. Fra l’altro questa cosa arriva pochi giorni dopo che Rafael Grossi, direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea), ha detto alla nostra premier Giorgia Meloni, durante un colloquio che “L’Italia ha una grande competenza in fatto di energia nucleare e può giocare un ruolo importante in questa partita”. E lo ha detto in un colloquio sulle crisi internazionali che vedono l’Agenzia in prima linea, dal conflitto russo-ucraino, con le centrali nucleari di Kiev possibile bersaglio di bombardamenti, all’Iran che ostacola le ispezioni nei siti sospettati di essere utilizzati per arricchire l’uranio (e quindi costruire ordigni atomici). 

Aggiungendo infine: “Naturalmente sono gli italiani a dover decidere. La Iaea può mettere a disposizione il suo know how”, avverte il diplomatico argentino.

Insomma, non ho chiaro il quadro, ma un po’ il sospetto che questa nuova corsa agli armamenti, con anche la corsa all’indipendenza energetica dalla Russia possa spingere alcuni attori a fare pressioni per un ritorno al nucleare del nostro paese, c’è. 

Personalmente la stessa situazione internazionale così delicata mi fa pensare che non esista un momento peggiore per fare una scelta del genere.

Restando in tema energia e cattive idee, ho trovato un interessante articolo sul Post che racconta come le tecnologie di cattura e stoccaggio di CO2 dall’atmosfera, di fondo, non stiano funzionando granché, nonostante i miliardi di investimenti. 

“L’azienda petrolifera statunitense Occidental Petroleum (Oxy) ha svenduto uno dei più grandi impianti per la cattura e il sequestro dell’anidride carbonica al mondo a causa degli alti costi di gestione e della bassa resa del sistema. Il progetto era stato avviato più di dieci anni fa e secondo le analisi di Bloomberg dimostra quanto sia ancora difficile sviluppare iniziative sostenibili per ridurre l’immissione nell’atmosfera di nuova anidride carbonica (CO2), il principale gas serra responsabile del riscaldamento globale. Le tecnologie di questo tipo sono spesso promosse dalle aziende petrolifere come un modo per abbattere l’inquinamento prodotto dai loro impianti di estrazione e trattamento degli idrocarburi, ma ci sono ancora dubbi sulla sostenibilità economica di alcune di queste soluzioni.

Le tecniche più esplorate per rimuovere la CO2 consistono nella sottrazione alla fonte (CCS), con particolari macchinari collegati direttamente agli impianti industriali che la producono (acciaierie o raffinerie, per esempio), oppure nella rimozione dall’atmosfera (DAC) attraverso filtri e sistemi di aspirazione. L’anidride carbonica ottenuta viene poi conservata ad alta pressione allo stato liquido, spesso nel sottosuolo. Entrambe le tecniche sono ancora sperimentali, con la DAC che sembra essere più promettente per eliminare la CO2 ormai in circolazione e la CCS per evitare che ne venga immessa di nuova.

In attesa del perfezionamento della DAC, nell’ultimo decennio molte aziende del settore petrolifero si sono concentrate sulla CCS, teoricamente più semplice da realizzare e sfruttabile dal punto di vista economico. La CO2 ricavata dai fumi di scarico degli impianti, infatti, può essere iniettata nei pozzi quasi esausti, in modo da aumentare la pressione al loro interno e ricavare petrolio e gas altrimenti difficili da estrarre.

Poi l’articolo racconta la storia dell’impianto fallimentare della Oxy, per passare alle stime su quanti impianti servirebbero, secondo i programmi internazionali di riduzione della CO2: “Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia l’aumento degli impianti di CCS è comunque necessario per evitare che sia immessa nell’atmosfera nuova CO2. Per raggiungere gli obiettivi sulla decarbonizzazione si dovrebbe attivare almeno un impianto al mese delle dimensioni di quello di Century per i prossimi dieci anni. In parallelo dovranno essere costruiti molti impianti di DAC per sottrarre l’anidride carbonica già in circolazione nell’atmosfera, il cui accumulo comporta un peggioramento del riscaldamento globale”.

L’insuccesso di Century non è però isolato e si inserisce in una serie di mezzi fallimenti legati alle tecnologie di CCS, a dimostrazione di quanto sia difficile la gestione della CO2. I problemi sono in genere più economici che tecnologici, ma determinano comunque gli insuccessi come quello di Oxy. Le speranze sono ora riposte nella DAC, una tecnologia ancora poco matura, e questo spiega come mai il costo per la rimozione dell’anidride carbonica continui a essere alto, nonostante le prime soluzioni fossero disponibili già diversi anni fa.

Oxy si è impegnata a raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, una delle prime grandi compagnie petrolifere a farlo, di conseguenza avrà bisogno di più sistemi per ridurre le proprie emissioni nei prossimi anni. Per adesso ha avviato la costruzione di un nuovo impianto che si chiama Stratos, sempre in Texas, per la rimozione dell’anidride carbonica dall’atmosfera (DAC). 

Molte altre grandi aziende che producono enormi quantità di CO2 con le loro attività, come Amazon e Airbus, hanno già stretto accordi con Oxy per acquistare il servizio di sottrazione dell’anidride carbonica attraverso Stratos”. Tuttavia come conclude anche l’articolo, “I sistemi di sequestro della CO2 saranno del resto necessari, ma non potranno fare molto se non saranno compresi in strategie più ampie che partano tutte dallo stesso presupposto: produrre meno anidride carbonica possibile alla fonte”.

Concludiamo la puntata con due segnalazioni da Italia che Cambia. La prima: è uscito l’ultimo articolo della nostra inchiesta regionale ligure sul rigassificatore di Vado Ligure. 

Questa volta Emanuela Sabidussi prova a mettere assieme le varie tessere del mosaico emerse fin qui, per tirare delle conclusioni finali sul senso (o il mancato senso) di questa opera. Vi leggo l’incipit:

“Dopo settimane passata ad esplorare la questione della nave rigassificatore di Vado Ligure eccomi giunta alla fine – almeno per ora – della mia inchiesta. E ci arrivo con una sensazione di incompletezza e ingiustizia: la prima dettata dalle mille sfaccettature tecniche che avrei potuto ancora esplorare e per mancanza di tempo non ho fatto. Ma non solo: i tasselli che si aggiungono di settimana aumentano e dunque, come spesso accade nella vita, più che mettere un punto al lavoro fino ad ora svolto, mi viene più naturale optare per un punto e virgola, sicura che che ci saranno nuovi risvolti e informazioni degne di essere analizzate e riportate”.

La seconda sensazione invece è frutto di qualcosa di più profondo: sono tante le argomentazione analizzate di chi è a favore e soprattutto di chi è contro questo progetto e se è complesso riuscire a tirare una linea e prendere una posizione netta è pur vero che ci ritroviamo davanti l’ennesimo caso di politica verticistica. Ovvero di decisioni prese da chi spesso, come in questo caso, non vive un territorio, ma è nella posizione di decidere le sorti di esso”. 

Trovate l’articolo completo sotto fonti e articoli. 

Segnalo anche che oggi esce un altro articolo molto interessante, e molto attuale, su Vittorio Arrigoni. Forse i più giovani di voi non lo ricorderanno, ma Vittorio Arrigoni era un attivista e volontario italiano per i diritti dei palestinesi, ucciso nella striscia di Gaza in circostanze mai del tutto chiarite, si presume per mano di una cellula di Al Queda nel 2009. 

Ammetto che varie volte mi è successo di pensare a Vittorio Arrigoni in questi giorni, “che cosa avrebbe fatto o detto?”. Ecco, nell’articolo Laura Tussi lo fa rivivere nelle parole della madre Egidia Beretta. Mi ha colpito soprattutto il passaggio in cui la donna legge quanto scrisse all’indomani del funerale del figlio.

«Questo figlio perduto, ma vivo come forse non lo è stato mai, che, come il seme che nella terra marcisce e muore, darà frutti rigogliosi. Eravamo lontani con Vittorio, ma più che mai vicini. Come ora, con la sua presenza viva che ingigantisce di ora in ora, come un vento che da Gaza, dal suo amato Mediterraneo, soffiando impetuoso ci consegni le sue speranze e il suo amore per i senza voce, per i deboli, per gli oppressi, passandoci il testimone».

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