Torniamo a parlare di clima. Sta facendo il giro del mondo la dichiarazione del segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che in un discorso all’American Museum of Natural History di New York ha detto: “gli esseri umani costituiscono una minaccia per la vita sulla Terra paragonabile al meteorite che ha causato l’estinzione dei dinosauri”. “Per quanto riguarda il clima, non siamo i dinosauri ma il meteorite”.
Che personalmente mi è suonata un po’ alla “I’m the one who knocks” di Breaking Bad, non so se avete presente la scena. Vabbé, comunque, sicuramente è una metafora suggestiva, anche se un po’ rischiosa. Provo a dirvi brevemente perché, dal mio punto di vista.
- innanzitutto perché non è corretta: noi siamo, al limite, sia il meteorite che i dinosauri. Siamo il meteorite in quanto minaccia, siamo i dinosauri in quanto specie dominante sul pianeta che rischia di estinguersi
- ci identifica come i carnefici, quelli cattivi, fa leva su una sorta di senso di colpa, che in genere non è una buona leva per cambiare. E anche qui, forse dovremo essere più clementi verso noi stessi: in fin dei conti stiamo facendo la cosa più naturale al mondo per una specie che non ha più predatori: moltiplicarsi a tutto spiano fino a esaurire le risorse e quindi andare incontro a un collasso della popolazione. Andatevi a vedere gli esperimenti con le piastre di Petri, se pensate che non sia così. Quindi, forse, più che mettere l’enfasi su quanto facciamo schifo, potremmo metterla su quanto siamo fighi che, pur con tutti i nostri limiti, stiamo cercando di cambiare rotta e scegliere consapevolmente di non estinguerci, sarebbe un’impresa incredibile per una specie vivente con leve genetiche espansive come la nostra.
Vabbé, a parte questo, la frase su dinosauri e meteoriti ha distolto l’attenzione da altre cose più interessanti dette da Guterres.
Ad esempio ha detto che noi esseri umani possiamo essere anche la soluzione, e che una parte di questa soluzione, a suo avviso, comprende tassare maggiormente l’industria dei combustibili fossili e vietare loro di fare qualsiasi tipo di pubblicità. Il segretario dell’ONU ha paragonato petrolio, gas naturale e carbone ad altri prodotti dannosi per la salute delle persone, come il tabacco, e ha invitato le aziende che se ne occupano a «smettere di agire come facilitatori della distruzione del pianeta».
Anche se le sue parole non avranno un effetto immediato, e forse è il motivo per cui Guterres può permettersi, fra virgolette, di dire cose del genere, è interessante che il segretario generale delle Nazioni unite parli in questo modo, con questa radicalità.
Fra l’altro, i modi per fare delle cose sensate ce li avremmo anche, e oggi conosciamo sufficientemente bene i sistemi complessi e come interagire con loro da sapere più o meno cosa ha senso e cosa non ha senso fare. Che mica è poco!
Ad esempio, prendiamo il tema degli oceani. Il Guardian intervista la biologa marina Helen Scales, che illustra come fermare il declino degli oceani in 5 punti. Che ho trovato molto interessanti, alcuni possono apparire scontati, ma sono presentati in maniera chiara e semplice quindi li ho trovato comunque un buon riassunto. Ve li riassumo.
1. Dare una mano alla natura reintroducendo alcune specie scomparse. La biologa spiega che alcune specie e habitat oceanici faticano a riprendersi da soli e necessitano di aiuto. Ad esempio, le lontre marine furono quasi eliminate alla fine del XIX secolo a causa della caccia commerciale per le loro pellicce. Poi dal 1960 al 1990, alcune lontre marine sono state trasferite per ripopolare luoghi in cui un tempo vivevano. Oggi ci sono circa 150.000 lontre marine in natura e un terzo di esse discende da lontre trasferite. Le lontre aiutano a mantenere sani e in equilibrio interi ecosistemi, ad esempio tenendo sotto controllo le popolazioni di ricci di mare, che altrimenti esplodono e distruggono le foreste di alghe kelp, che a loro volta hanno molte funzioni ecosistemiche essendo habitat di molte specie.
Quindi reintrodurre negli habitat specie che un tempo, c’erano, ovviamente non specie aliene, è un ottimo modo di facilitare le naturali capacità di recupero degli ecosistemi, secondo Scales.
2. Smettere di inquinare. E grazie al ca… direte voi. Però così è, non se ne scampa. Per salvare gli oceani, l’umanità deve fermare il flusso di inquinanti che vi si riversano.
Per fortuna questa cosa sta già avvenendo almeno in parte, e la popolazione, in molte parti del mondo non è mai stata così sensibile come oggi al tema dell’inquinamento, della plastica, del monouso.
Oltre alla plastica, sulla quale dice la biologa dovremmo concentrarci su smettere di produrla e non tanto sul riciclarla, l’altro pericolo citato è quello dei “prodotti chimici eterni” i PFAS, di cui abbiamo parlato spesso, e che sono praticamente indistruttibili, si accumulano all’infinito e – per quel che riguarda la vita marina – aumentano lo stress sulle popolazioni di foche, leoni marini, delfini e balene.
3. Limitare la pesca. Un altro modo piuttosto ovvio per salvare molte specie oceaniche è smettere di catturare e ucciderene così tante per il commercio. Come abbiamo visto qualche settimana fa, a metà del XX secolo, i balenieri commerciali avevano ucciso più del 99% della sottospecie di balene blu dell’Antartide. Dopo il bando alla pesca delle balene, negli ultimi anni gli scienziati li hanno avvistati di nuovo intorno all’isola della Georgia del Sud. I loro canti, registrati su idrofoni attraverso l’Oceano Meridionale, hanno annunciato il ritorno delle balene.
L’articolo fa anche altri esempi di vari tipi di regolamentazione efficace della pesca ma il senso è: tutte le attività di pesca devono essere gestite in modo efficace e i loro danni limitati, in particolare la pesca industriale.
4. Mantenere intatte diverse aree marine. Un metodo comprovato per aumentare la vita marina è lasciare completamente in pace parti degli oceani, senza pesca o estrazione. Un numero scioccante di aree marine protette – questo anche in Italia – è ancora soggetto a pesca, spesso legalmente e utilizzando metodi altamente distruttivi.
Solo una piccola porzione dell’oceano globale è sotto una protezione totale, ma queste riserve stanno raccogliendo benefici fenomenali. Una delle più grandi è il monumento nazionale marino Papahānaumokuākea, che copre oltre 1,5 milioni di kmq dell’Oceano Pacifico intorno alle isole nord-occidentali delle Hawaii. Gli studi hanno dimostrato che i banchi di tonni che migrano attraverso i mari circostanti sono in aumento, probabilmente perché i loro siti di riproduzione sono ora protetti. Gran parte dell’oceano necessita di protezione simile, come le migliaia di montagne sottomarine profonde, ricche di foreste di coralli e spugne.
5. Infine, vietare l’estrazione mineraria in acque profonde (il cosiddetto deep sea mining). Il futuro dell’oceano dipende in parte anche dal fatto che una nuova industria distruttiva possa iniziare a sfruttare o meno i fondali marini per minerali rari. Moltissime forme di vita si trovano solo in quei luoghi e svolgono ruoli vitali nella salute oceanica che gli scienziati stanno appena iniziando a comprendere. Tutto ciò potrebbe essere a rischio se l’estrazione mineraria andrà avanti.
Forare i fondali oceanici significa installare macchinari grossi come case per raschiare e aspirare rocce del fondale marino su vaste aree ogni anno, senza sosta, per decenni a venire.
Come scrive la biologa, qui la domanda non è se l’estrazione mineraria in acque profonde potrebbe influenzare l’oceano, ma quanto gravi sarebbero quegli effetti. È necessario almeno un decennio di ricerca coordinata e ben finanziata per rispondere correttamente a questa domanda. Ma le compagnie minerarie, sostenute dai governi, vogliono iniziare entro l’anno prossimo.
E qui l’articolo si conclude con una sorta di appello a tenere alta l’attenzione su quest’ultimo punto perché quest’anno sarà cruciale per il futuro dell’estrazione mineraria in acque profonde. I negoziati continuano presso l’Autorità Internazionale dei Fondali Marini – i custodi dell’industria – e alcuni paesi hanno presentato una proposta di moratoria di 10 anni. Noi ovviamente li racconteremo.
Va bene, torniamo su questioni più geopolitiche. Leggo su Limes che oggi iniziano le più grandi esercitazioni Nato nel mar Baltico di sempre. Si tratta di esercitazioni annuali che si chiamano Baltic Operation, e che appunto ci sono tutti gli anni, ma che quest’anno particolarmente folte. Ben venti paesi della Nato prenderanno parte a questa 53ª e le grandi dimensioni di queste esercitazioni sono dovute, secondo Limes, un po’ al fatto che ci sono due membri in più nella Nato, Svezia e Finlandia, un po’ per via delle tensioni con la Federazione Russa.
Le attività pianificate riguarderanno la guerra antisommergibile, esercitazioni di tiro, operazioni anfibie e di sminamento. Le simulazioni hanno inoltre la tacita funzione di mettere pressione sull’emarginata ma ultrafortificata exclave russa di Kaliningrad.
Sul sito dello Us naval Institute ho trovato qualche numero di queste esercitazioni. parliamo di Trenta navi da guerra di 20 nazioni che si sono radunate nell’ultima settimana a Klaipėda, in Lituania per queste esercitazioni che dureranno dal 7 al 20 giugno. E poi: quattro gruppi anfibi e unità operative multinazionali composte da oltre 50 navi, 25 aerei e 9.000 persone provenienti da 20 paesi.
Sempre in tema di geopolitica, segnalo anche che ieri il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares ha detto che la Spagna chiederà alla Corte internazionale di giustizia, il più importante tribunale delle Nazioni Unite, di unirsi al Sudafrica nel caso in cui accusa Israele di star violando la Convenzione sul genocidio nella guerra nella Striscia di Gaza.
La Spagna diventa così il primo paese europeo a dire formalmente di volersi unire al Sudafrica in questo caso da quando quest’ultimo l’ha presentato davanti alla Corte di giustizia a dicembre del 2023: in questi mesi hanno fatto la stessa richiesta il Messico, la Colombia, il Nicaragua, la Libia e l’Autorità palestinese.
Siamo quasi in chiusura, e vi voglio segnalare un articolo per la serie “cose sensate e dove trovarle”. L’articolo è di circa una settimana, pubblicato dal NYT, e a firma di Megan Kimble.
Racconta di quanti progressi si siano fatti nella progettazione delle autostrade in Colorado. Leggo: “Quando negli anni cinquanta (1950) fu costruita la INTERSTATE 25 attraverso Denver gli ingegneri spostarono un fiume.
Erano gli anni Cinquanta e nulla avrebbe ostacolato la costruzione di un sistema autostradale nazionale. Il governatore del Colorado e altri dignitari, tra cui l’ingegnere capo del dipartimento autostradale dello Stato, hanno riconosciuto il momento posando per una foto in piedi sui binari del bulldozer, accanto alla trincea che sarebbe diventata l’Interstate 25.
Oggi i dipartimenti autostradali statali si sono ribattezzati agenzie per i trasporti, ma la costruzione, la riparazione e l’ampliamento delle autostrade sono ancora le attività principali.
Quindi è notevole che nel 2022 il capo del Dipartimento per i trasporti del Colorado abbia annullato l’ampliamento da lungo tempo atteso della INTERSTATE 25.
La decisione di non fare nulla è una delle più importanti degli ultimi anni re offre una visione nuova per il futuro della pianificazione dei trasporti. Non costruire più. Nel Colorado quella visione nuova è stata catalizzata dal problema cambiamento climatico.
Nel 2019 il governatore Jared Polis firmò una legge che richiedeva allo stato del Colorado la riduzione delle emissioni dei gas serra del 90% entro 30 anni. Lo stato cercando di capire come riuscirci alla fine ha puntato sui guidatori. Ai trasporti è dovuto il singolo più grande contributo alle emissioni dei gas serra negli Stati Uniti, sono responsabili di circa il 30% del totale; il 60% di quel 30% viene da automobili e camion. In pratica: per ridurre le loro emissioni, gli abitanti del Colorado dovrebbero guidare meno.
Nel giro di poco più di un anno dall’adozione della norma, nel 2021, il Dipartimento dei Trasporti del Colorado (CDOT) ha cancellato due importanti espansioni autostradali, tra cui la Interstate 25, e ha spostato 100 milioni di dollari su progetti di transito. Nel 2022, un ente di pianificazione regionale di Denver ha riassegnato 900 milioni di dollari dalle espansioni autostradali ai cosiddetti progetti multimodali, tra cui autobus più veloci e migliori piste ciclabili.
Ora altri Stati stanno seguendo l’esempio del Colorado. L’anno scorso, il Minnesota ha approvato un pacchetto di spesa per i trasporti da 7,8 miliardi di dollari con disposizioni modellate sulla norma sui gas serra del Colorado. Qualsiasi progetto che aggiunga capacità stradale dovrà dimostrare come ha contribuito agli obiettivi di riduzione dei gas serra a livello statale. Il Maryland sta valutando una legislazione simile, così come New York.
Che dire, se ci impegnamo possiamo fare cose sensate!
Audio disponibile nel video / podcast
#clima
il Post – António Guterres ha paragonato gli esseri umani al meteorite che provocò l’estinzione dei dinosauri
#oceani
The Guardian – Save our seas: five ways to rewild and conserve the ocean
#NATO
Limes – BIDEN CELEBRA GLI 80 ANNI DAL D-DAY, PUTIN RISPONDE ALL’OCCIDENTE E ALTRE NOTIZIE INTERESSANTI
Usni News – NATO to Kick Off Largest Baltic Operations Exercise to Date
#Israele
il Post – La Spagna chiederà di unirsi al Sudafrica nella causa contro Israele per genocidio
#autostrade
New York Times – Colorado’s Bold New Approach to Highways — Not Building Them
#siccità #Sardegna
Italia che Cambia – Siccità, la grande sete sarda – INMR Sardegna #33