Covid: la Cina sotto accusa? Biden vuole far luce sull’origine del virus – #694
Torniamo a parlare di Covid, dopo diverse settimane se non mesi, per una questione però più geopolitica che sanitaria. Ieri infatti il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha firmato una legge che autorizza il governo federale a togliere il segreto a quasi tutti i report degli 007 sulle origini della pandemia da Covid.
Biden ha commentato la decisione dicendo: “Abbiamo bisogno di andare a fondo sulle origini del Covid in modo da garantirci migliori possibilità nel prevenire future pandemie”. Ma non è un segreto che questa decisione sia uno dei tanti, l’ennesimo potremmo dire, attacco dell’amministrazione americana alla Cina.
Si legge esplicitamente nel testo della legge l’invito al direttore dell’Intelligence a rendere disponibili le informazioni raccolte sull’Istituto di virologia di Wuhan, in Cina. Biden ha anche parlato di “potenziali legami” tra la ricerca fatta a Wuhan e la diffusione del Covid. La decisione di Biden, fra l’altro, arriva in concomitanza con la pubblicazione di nuovi dati da parte dell’OMS, che sembrano rinforzare l’ipotesi di un primo focolaio di SARS-CoV-2 avvenuto in un mercato di Wuhan, e per via del commercio illegale di cani procione.
A quanto riporta Repubblica l’Intelligence Usa “è divisa tra l’ipotesi della fuga dal laboratorio di Wuhan e la trasmissione dagli animali all’uomo. La seconda ipotesi, che siano pipistrelli o procioni, sembra la più probabile ed è sostenuta da tre agenzie investigative americane su quattro”.
Al netto di tutto, e al netto del fatto che penso che indagare sull’origine del virus sia un fatto interessante a prescindere, devo dire che mi mette una certa inquietudine vedere come la ricerca scientifica sia usata con una certa disinvoltura per portare avanti gioci di potere e una determinata linea politica dall’amministrazione Usa, così come da quella cinese. ieri parlavamo delle ingerenze dell’Arabia Saudita sui risultati finali del report dell’IPCC sul clima. Qui cambiano gli attori, ma il gioco è sempre il solito.
A proposito di virus, ce n’è uno che sta preoccupando non poco i biologi. Si tratta di un nuovo ceppo di influenza aviaria che si trasmette anche a diverse specie di mammiferi. Ad esempio i leoni marini. Un reportage di Dan Collyns sul Guardian racconta la moria dei leoni marini in Perù, dove l’epidemia, solo in questo mese, ha ucciso 3.487 leoni marini, il 3,29% del numero totale (la popolazione è di circa 105mila esemplari). Ma gli scienziati stimano che il numero reale di morti per influenza aviaria sia probabilmente molto più alto.
Si tratta, più nello specifico, di una epidemia di influenza aviaria ad alta patogenicità di sottotipo A, la variante H5N1, rilevata per la prima volta nei pellicani peruviani sulla costa settentrionale a novembre, che si è presto diffusa a sud, uccidendo altre specie di uccelli. Il Sernanp ha contato almeno 63.000 uccelli marini morti nei parchi nazionali e nelle isole protette.
Qui ci sono due questioni importanti. Una è diciamo egoistica, a livello di specie, ed è quella con cui si conclude l’articolo: questa roba è potenzialmente contagiosa o rischiosa per gli esseri umani? La risposta che viene fornita è: non lo sappiamo, ma nel dubbio stiamo attenti.
Comunque, che sia trasmissibile o no resta una notizia terribile. Almeno credo. Mi chiedo sempre quanto questo affibbiare questo genere di etichetta, di buone e cattive notizie, sia corretto soprattutto quando parliamo di meccanismi naturali. Un virus non è meno naturale di un Leone Marino. Certo che per ovvie ragioni empatizzare più col leone marino che col virus, che ancora non abbiamo deciso se è una forma vivente o no, ma non è che questa empatia può indurrci un bias nella nostra lettura dei fatti?
Forse la domanda più corretta da farci è: eventi come questo sono il risultato di ecosistemi degradati e cambiamento climatico di origine antropica, oppure sono normali eventi che sono sempre capitati in natura? Non che cambiamento climatico o ecosistemi degradati siano qualcosa di innaturale intendiamoci, anche noi siamo natura e tutto quello che facciamo è natura: il punto è, sono l’ennesima cattiva notizia per noi, perché indice di un’ulteriore degradazione dei sistemi naturali, oppure no? Non ho una risposta, in questo caso, in questo momento.
L’altra cosa che mi ha fatto riflettere è una cosa marginale e forse stupida, ma ve la condivido. Leggendo l’articolo mi sono accorto che parliamo di, ad esempi, popolazione di leoni marini del Perù. Come se quei leoni marini fossero a tutti gli effetti peruviani. E lo facciamo spesso, per tutti gli animali selvatici. Cioè, applichiamo categorie nazionali alle altre specie animali, senza considerare che le nazioni sono un’invenzione della nostra specie.
Vi condivido queste riflessioni perché ho l’impressione che spesso non troviamo le risposte giuste perché continuiamo a inquadrare i problemi nella maniera sbagliata.
Cambiamo argomento, ci spostiamo sia geograficamente, che semanticamente, che anche a livello di umore, diciamo, e andiamo a Bruxelles. Perché dal 1 gennaio 2021 la capitale belga è diventata una delle prime città 30 d’Europa (ovvero una città in cui il limite massimo di velocità per i veicoli è di 30 km/h) e più in generale si è dotata del piano della mobilità sostenibile 2020-2030 chiamato “Good Move” che oltre all’introduzione del limite prevedeva altre misure fra cui una revisione completa dell’organizzazione del traffico nel centro storico, con ad esempio la creazione di piccole aree pedonali o di accesso limitato e percorsi degli autobus.
Fra l’altro, essendo il Belgio all’avanguardia nell’implementazione di sistemi di democrazia deliberativa, queste misure erano state oggetto, o per meglio dire frutto, di un percorso partecipativo.
Tutto molto bello, ma sta funzionando? Se lo è chiesto la redazione di Ambiente e non Solo.
Sono passati esattamente sei mesi da quando è stato introdotto un nuovo schema di traffico nel Pentagono della Città di Bruxelles, ed ora la città fornisce un primo bilancio degli effetti dei provvedimenti adottati. Anche se è ancora troppo presto per trarre conclusioni, i primi conteggi mostrano effetti interessanti. Il traffico di auto è diminuito in media fra il 16 e il 20 per cento a seconda delle zone del centro, mentre è aumentato quello in bici fra il 13 e il 23% (a seconda dell’orario). Forse il dato più interessante è che i tempi di percorrenza sono rimasti praticamente gli stessi o a volte sembrano migliorare, nonostante l’introduzione del limite a 30 (probabilmente perché in generale c’è molto meno traffico).
“Grazie al piano di circolazione e all’evoluzione delle abitudini di spostamento, lo spazio pubblico viene liberato in diversi punti del Pentagono: molti luoghi diventano anche più calmi, più sicuri e più piacevoli. Grazie a questa evoluzione, la città può già riqualificare lo spazio pubblico con più verde e più comfort per escursionisti, ciclisti e persone con mobilità ridotta”.
Oggi, 22 marzo, è la giornata mondiale dell’acqua. Con tutto che non sono un grande fan delle giornate mondiali, mi sembrano un modo un po’ anni 90 di provare a risolvere i problemi, ma comunque, vista l’importanza e l’attualità del tema direi che almeno un accenno lo possiamo fare.
Una buona sintesi della situazione mi sembra che sia quella fatta dal WWF in un comunicato in cui passa in rassegna tutti i principali punti critici legati all’acqua (e anche le cose a cui è importante che stiamo attenti, per tenercela stretta).
Il comunicato parte evidenziando il legame strettissimo fra acqua e clima: “Acqua e clima rappresentano due crisi correlate – si legge – I problemi legati all’acqua, da un lato la siccità – con il relativo aumento degli incendi – dall’altro alluvioni e inondazioni, sono destinati a peggiorare in tutto il mondo con la crisi climatica. A rischio ci sono milioni di specie animali e vegetali, inclusa la specie umana che già vede oltre due miliardi di persone in situazione di precarietà o sofferenza idrica. Non a caso proprio domani (oggi) si apre a New York la seconda Conferenza Mondiale sull’Acqua, a 45 anni dalla prima (1977)”.
Piccolo inciso, confermo, oggi inizia la conferenza mondiale sull’acqua a New York, dura fino a venerdì e nei prossimi giorni ne parliamo meglio.
Il comunicato del WWF poi passa a parlare di acqua nascosta, detta anche acqua virtuale, ossia quell’acqua necessaria per produrre i beni e i servizi che utilizziamo e il cibo che mangiamo. Una proposta dell’organizzazione in tal senso è che “sui prodotti venisse indicata la loro impronta idrica (e altrettanto per la CO2)”.
Ad ogni modo, “il 90% dell’impronta idrica di ciascuno di noi è determinata dal cibo che porta in tavola. È stato stimato che ogni persona “mangi” in media 5.000 litri di acqua al giorno: mangiamo assai più acqua di quella che beviamo (da 1.500 a 10.000 litri al giorno, a seconda di dove si vive e di cosa si mangia). La carne è l’alimento maggiormente “idrovoro”.
Più avanti il comunicato parla dei consumi dell’agricoltura, che in Italia anche per via del basso costo dell’acqua sono particolamente elevati, della siccità che avanza, e infine di cosa possiamo fare per porre almeno parzialmente rimedio al problema.
Vi leggo quest’ultima parte: “È imperativo abbattere le emissioni climalteranti, onde evitare gli scenari più preoccupanti e ingestibili della crisi climatica, affrancandosi dall’uso dei combustibili fossili, fermando la deforestazione e la cementificazione, proteggendo la salute degli ecosistemi. Ma è altrettanto indifferibile l’adattamento, vale a dire cercare un nuovo modello di benessere che affronti con lungimiranza i cambiamenti già in atto: per l’acqua, vuol dire anche abbatterne lo spreco, ridurne e razionalizzarne l’uso, assicurare la salute della natura e ripristinare il territorio, garantire un’equa distribuzione della risorsa. Le persone possono essere parte attiva in questo cambiamento di paradigma, generando un beneficio evidente all’ambiente e costringendo governi e aziende ad agire subito”.
Ho apprezzato molto che ci si sia concentrati molto sulle cause strutturali del problema, e non tanto (o meglio non solo) su piccoli stratagemmi per ridurre l’utilizzo. Che sono sì importanti, ma solo se al tempo stesso ci attiviamo per fermare le cause della crisi idrica.
Passiamo a una notizia che mi ha colpito e che sembra smentire una mia saldissima convinzione. Ovvero che i soldi non facciano la felicità. L’articolo in questione è scritto da Azzurra Rinaldi su La Svolta e s’intitola “Ebbene sì, i soldi fanno la felicità”. Ve ne riassumo il contenuto. In pratica c’è da diversi anni una disputa psicologica fra due grandi studiosi: un arzillo novantenne di nome Daniel Kahneman, celebre psicologo vincitore di un premio Nobel, ma anche uno dei principali studiosi al mondo dei bias cognitivi (forse avrete sentito parlare del libro pensiero veloce, pensiero lento) e il suo collega, più giovane Matthew Killingsworth.
Kahneman sostiene, come risultato di alcuni suoi studi, che i soldi facciano la felicità fino a un certo punto, ma che superata una certa soglia la curva della ricchezza si sleghi da quella della felicità. Secondo Killingsworth, invece, non vi sarebbe nessuna soglia e quanto più guadagniamo, tanto più siamo felici. Ovviamente in media, e ovviamente con le sue eccezioni (ad esempio ci sarebbe una percentuale di persone super ricche, attorno al 20%, per i quali non sembrerebbe valere questa equazione e che sarebbero profondamente infelici).
La novità è che per capire chi avesse ragione e un po’ per far progredire la ricerca scientifica su questo tema, i due hanno lavorato insieme (anche con una terza collega: Barbara Mellers) e da questo sforzo è uscita una pubblicazione sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences dal titolo “Reddito e benessere emotivo: un conflitto risolto”.
E dalla pubblicazione, pare che avesse ragione Killingsworth. Più aumentano i soldi, più aumenta la felicità.
Ora, io ho un sacco di dubbi su questa cosa, non mi torna. Sento i bias cognitivi agitarsi nella mia scatola cranica che non vuole accettare questo fatto. Ora, magari ho anche ragione e la ricerca non è attendibile, ma è più probabile che io non voglia accettare questa nuova evidenza. Ho scelto di riportarvi questa notizia in realtà proprio per questo. Perché non mi piace. E credo che proprio perché non mi piace sia importante che ve la riporti. Vorrei fondare su questo assunto un tacito patto, per una informazione più onesta.
Detto ciò, questo non vuol dire che sia giusto o corretto arricchirsi a più non posso. Solo, è importante tenere conto di questo fattore.
Siamo quasi in chiusura, ma voglio condividervi questa bella storia che ieri racontava un articolo del Guardian. È la storia di una delle prime food forest (una foresta alimentare urbana) o perlomeno delle più longeve al mondo. Scrive Samuel Gilbert: “Vicino al centro di Tucson, in Arizona, si trova Dunbar Spring, un quartiere diverso da tutti gli altri della città. I marciapiedi non asfaltati sono fiancheggiati da alberi e arbusti autoctoni che producono cibo, alimentati dall’acqua piovana deviata dalle strade cittadine. In un solo isolato ci sono oltre 100 specie di piante, tra cui bacche di goji autoctone, ironwood del deserto con semi simili a quelli degli edamame e cespugli di chuparosa con fiori al sapore di cetriolo.
Questa foresta alimentare urbana, iniziata quasi 30 anni fa, fornisce cibo ai residenti e foraggio per il bestiame; inoltre, la copertura arborea dà sollievo ai residenti della terza città con il riscaldamento più rapido della nazione. Dunbar Spring è diventata un modello per altre aree alle prese con l’aumento del calore, della siccità e dell’insicurezza alimentare causati dalla crisi climatica.
La foresta alimentare urbana di Dunbar Spring è iniziata in una mattina presto del settembre 1996, quando i residenti si sono riuniti per il primo evento di piantumazione di alberi a livello comunitario. Come molte aree a basso reddito di Tucson, Dunbar Spring era insolitamente calda, priva di alberature stradali in grado di fornire ombra durante le brutali estati della città.
Il piano prevedeva la piantumazione di alberi multiuso tolleranti la siccità in bacini stradali in grado di catturare l’acqua piovana e creare “una comunità più vivibile. Quasi 30 anni dopo gli abitanti del quartiere hanno piantato più di 1.700 alberi e altre migliaia di piante di sottobosco, trasformando Dunbar Spring in una foresta alimentare urbana alimentata dall’acqua piovana.
Il lavoro svolto a Dunbar Spring, insieme ai libri e al sito web di Lancaster, ha ispirato persone in tutto il mondo ad adottare la raccolta dell’acqua per irrigare gli alberi stradali autoctoni che producono cibo.
Oltre a raccontare questa bella esperienza, l’articolo mostra come da essa ne siano nate centinaia di altre, sia a Tucson che in altri stati e in altri paesi del mondo. E anche come la stessa municipalità di Tucson abbia tratto spunto dall’esperienza per scrivere il suo piano di adattamento climatico.
Qualche altra news al volo prima di chiudere. A Milano ieri c’è stata una enorme manifestazione in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Al corteo, che da corso Venezia arrivava in piazza Duomo, hanno partecipato 70mila persone, riporta la Repubblica, fra cui oltre 500 familiari di vittime.
In Francia il governo Macron ha superato (anche se di poco) le due mozioni di sfiducia legate alla contestata riforma delle pensioni e quindi resta in carica, anche se un po’ traballante. La decisione del parlamento di non sfiduciarlo è stata accolta con nuove enormi manifestazioni e – riportano i giornali – centinaia di arresti.
In Israele un esponente di punta del governo di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu, nello specifico il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, ha detto che: “Il popolo palestinese è un’invenzione che ha meno di cent’anni di vita. Hanno una storia o una cultura? No, non le hanno. I palestinesi non esistono, esistono solo gli arabi”.
Infine, ieri Amazon ha annunciato 9mila licenziamenti, che si aggiungono ai 18mila dello scorso anno, mentre la scorsa settimana Mark Zuckerberg ha annunciato che Meta licenzierà 10mila dipendenti, in una seconda ondata di licenziamenti che porterà il personale totale dell’azienda da 86 mila dello scorso anno a 65 mila unità.
#Covid
la Repubblica – Covid, Biden firma la legge per la trasparenza sulle origini del virus. Declassificate anche le informazioni sul laboratorio di Wuhan https://www.repubblica.it/esteri/2023/03/21/news/biden_origini_covid_wuhan_cina-393052448/
il Post – La misteriosa origine del coronavirus, tre anni dopo
#aviaria
The Guardian – First birds, now mammals: how H5N1 is killing thousands of sea lions in Peru
#acqua
Il Sole 24 Ore – Acqua, ecco perché l’Italia è il primo Paese Ue per consumi
la Repubblica – Giornata mondiale dell’Acqua, l’Istat: “Ogni giorno persa quasi metà della distribuzione”
GreenMe – Il lato oscuro dell’industria dell’acqua in bottiglia (che asseta il mondo)
#mobilità
Ambiente e non solo – Il traffico nel centro storico di Bruxelles sei mesi dopo l’adozione delle misure del Piano della Mobilità
#foreste
The Guardian – ‘A living pantry’: how an urban food forest in Arizona became a model for climate action
#Palestina
Internazionale – Per il ministro Bezalel Smotrich i palestinesi non esistono
#migranti
L’Essenziale – Perché è così difficile entrare legalmente in Italia e in Europa?
#Ucraina
il Post – La Cina potrebbe fare da mediatrice nella guerra in Ucraina?
#mafie
la Repubblica – Mafia, 70mila a Milano per il corteo di Libera: “Vittime eroi innocenti”. Schlein: “Non si combatte aumentando il tetto del contante”
#Amazzonia
la Svolta – Amazzonia: a riforestarla ci pensano le startup
#Francia
il Post – Il governo francese ha superato le due mozioni di sfiducia per la riforma delle pensioni
#licenziamenti
il Post – Amazon ha annunciato 9mila licenziamenti, che si aggiungono ai 18mila dello scorso anno
Wired – Meta licenzia altre 10mila persone
#felicità
la Svolta – Ebbene sì, i soldi fanno la felicità