25 Nov 2024

Cop29, successo o flop? Come è andata punto per punto – #1026

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Si è conclusa ieri mattina presto a Baku, con molte ore di ritardo, Cop29, la ventinovesima conferenza sul clima. Si è conclusa con un accordo sulla finanza climatica, che è già qualcosa, ma molti ritengono questo accordo molto povero, molto al ribasso. Noi in questa puntata speciale dedicata quasi per intero a Cop29 cerchiamo di capire bene cosa si è deciso, se è o meno un buon accordo e per chi e anche se incontri come questo continuano ad avere un senso, un ruolo, e nel caso quale. Poi sul finire vi parlo anche della nuova puntata di INMR+.

Alla fine un accordo c’è stato, a Baku, cosa che per diverse ore, anzi per diversi giorni, gli ultimi, non sembrava affatto scontato. È arrivato in extremis, anzi decisamente fuori tempo massimo, quando buona parte delle persone che a vario titolo partecipavano alla conferenza erano già partite, quando i padiglioni erano praticamente vuoti e solo le delegazioni restavano nella sala principale, anche di notte, a trattare.

Ormai le Conferenze delle parti sul clima si prolungano abitualmente ben oltre la fine programmata, anche se questa volta si è andati oltre credo ogni record. La conferenza doveva concludersi venerdì pomeriggio; l’accordo sulla finanza, che era il punto più discusso e principale del summit, è arrivato, pensate, alle 3 passate della domenica mattina. 

Poco dopo è stato diffuso il testo finale della conferenza e nella giornata di ieri sono iniziate a diffondersi le reazioni, le analisi, i commenti. È un buon accordo? È un cattivo accordo? Chi accontenta e chi scontenta? Cerchiamo di capirlo e come prima cosa, per capirlo, passiamo la parola a Viola Ducati, che per tutti questi giorni nella rubrica Line aa Baku ci ha raccontato assieme al team di Agenzia di Stampa Giovanile come stava andando la conferenza, dandoci anche accesso a degli spaccati di vita di una conferenza sul clima e di un Paese, l’Azerbaijan, non proprio libero da tanti punti di vista.

Quindi per l’ultima volta, Linea a Baku.

Audio disponibile nel video / podcast

Grazie davvero a Viola, così come a Emanuele, Giulia, Federico, Maddalena, Ilaria, Roberto per lo splendido lavoro di racconto, analisi, per l’attenzione agli spazi della società civile, all’attivismo e a tutto il resto. 

Quindi, ricapitolando, è arrivato in extremis l’atteso accordo sulla finanza ma l’impegno non è quello sperato. I contributi che i paesi più ricchi si sono impegnati a versare annualmente sono il triplo di quelli attuali, si passa da 100 miliardi a 300 miliardi all’anno per finanziare mitigazione e adattamento climatico dei paesi più poveri, ma siamo ancora lontani dai 1300 1300 miliardi che era la cifra che i paesi più poveri chiedevano per poter affrontare le sfide del cambiamento climatico. Sì, si accenna al fatto che quella cifra resta l’obiettivo finale, ma in maniera molto vaga e per niente vincolante.

Uno degli aspetti più interessanti che emerge dal resoconto di Viola, che non ho trovato altrove, è il ruolo della società civile e delle organizzazioni e ong nell’alzare l’asticella, nel senso che senza di loro probabilmente avremmo avuto un accordo anche peggiore.

Prima di passare ai commenti voglio vedere anche gli altri risultati raggiunti da questa Cop, e lo faccio seguendo il resoconto finale pubblicato da Italian Climate Network.

Partiamo da un altro risultato raggiunto – per quanto sempre discusso – da questa COP. Ovvero la questione dei crediti di carbonio. Finalmente è stato chiuso il capitolo dell’Articolo 6 dell’Accordo di Parigi, dopo ben 9 anni! L’articolo 6 prevedeva la creazione di meccanismi per lo scambio di crediti di carbonio tra Paesi o attori privati. 

I crediti di carbonio sono una roba un po’ strana: ogni credito corrisponde a una tonnellata di CO₂ non emessa o rimossa dall’atmosfera. L’idea è che i Paesi o le aziende che non riescono a raggiungere i propri obiettivi climatici possano acquistare crediti da chi è riuscito a fare di più, che spesso sono aziende o associazioni che portano avanti progetti di riforestazione, che piantano alberi, che proteggono foreste e così via. 

Alcuni paesi o gruppi di Paesi, come l’Ue, la Cina, alcuni stati degli Usa e altri, hanno già introdotto anni fa un loro mercato dei crediti di Carbonio, ma a livello globale non si era mai riusciti a stabilire un meccanismo che andasse bene per tutti. E questo ovviamente ha creato un sacco di problemi, con crediti che venivano conteggiati due volte, e così via. Adesso l’accordo sul sistema dei crediti di carbonio è stao raggiunto. Questo non vuol dire che ci sarà subito un mercato globale di questi crediti, ma che ci sono delle regole di base in base alle quali ogni paese potrà fare il suo, e delle regole poi di scambio fra paesi. 

Che è un risultato, anche se il sistema di Crediti di carbonio ha diverse criticità difficili da superare e che questo accordo non prova nemmeno ad affrontare. Due su tutte. la prima è che spesso i progetti che emettono crediti, quelli che riforestano, proteggo, catturano Co2, quindi quelli che dovrebbero compensare le emissioni dannose di qualcun altro, sono fuffa. Un’inchiesta del Guardian di qualche anno fa mostrava come una percentuale irrisoria, tipo il 5% di quei progetti aveva realmente un impatto positivo sul clima. Su questo l’accordo di Baku prova a cambiare qualcosina, introduce un sistema molto complicato di verifiche, crediti extra, e altri correttivi che però non sembrano risolvere il problema. 

E poi c’è il tema dei diritti delle popolazioni indigene, perché spesso questi progetti vengono realizzati in aree dove vivono tribù o popolazioni indigene che magari vengono estromesse per permettere a grandi organizzazioni occidentali di avviare quelli che spesso diventano business della conservazione o addirittura modi di controllare intere aree e territori.

Anche su questo, nonostante le richieste della società civile di mettere almeno un riferimento ai diritti di queste popolazioni, l’accordo di Baku non dice niente. 

Passiamo ad altro e veniamo al tema della mitigazione. Che è forse IL tema. Le politiche di mitigazione quelle che servono per frenare fino ad arrestare il cambiamento climatico. Qu questo tema c’è stato un vero e proprio flop. Non era il tema principale all’odg di questa specifica Cop, ma ci si aspettava almeno una dichiarazione d’intenti, un qualcosa che riprendesse o rafforzasse ad esempio la inserita nel testo finale della conferenza dello scorso anno, ovvero il “transition away”, l’abbandono graduale delle fonti fossili. 

Invece niente. Il testo finale non ne accenna. manca qualsiasi riferimento a una rapida e sostanziale riduzione delle emissioni di gas serra. L’anno scorso a COP28 si discuteva di raggiungere picco delle emissioni prima del 2025; a COP29 non si fa riferimento al 2025 ne a nessun altro anno – semplicemente nella decisione finale il picco non viene mai citato.

Non solo. Il testo non definisce azioni o impegni concreti per ridurre le emissioni e raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Nessuna traccia di parole chiave come fossil fuel, phase out, transition, NDCs e renewable energy. Si parla di efficienza energetica e progettazioni sostenibili, ma sembra più una lista dei desideri che un piano d’azione.

Al contrario, si torna indietro di qualche anno riaffermando che i combustibili di transizione (leggi GAS) possono svolgere un ruolo nel facilitare la transizione energetica, garantendo al contempo la sicurezza energetica”. Quindi, si punta sul gas.

Sul tema dell’adattamento invece qualcosina si è mosso, soprattutto sul tema di come monitorare le strategie di adattamento dei vari paesi. Le politiche di adattamento climatico sono quelle che mirano a rendere le nostre città, le nostre infrastrutture, insomma le nostre società più adatte a resistere a un clima che è già cambiato e che ancora di più cambierà nei prossimi anni. Sull’adattamento esistono questi Global goal on Adaptation, stabiliti dall’Accordo di Parigi nel 2015, che sono degli obiettivi globali per l’adattamento climatico, ma capite che diventa più difficile misurarli perché poi per forza di cose ogni paese si adatta a modo suo. Le strategie di adattamento di un Paese che rischia di finire sott’acqua per l’innalzamento dei mari saranno molto diverse da quelle di un paese che va incontro a desertificazione o da uno in cui cresce il rischio nubifragi e allagamenti. 

Su questo a Baku sono stati stabili poco meno di 100 indicatori, ma molto flessibili per ogni Paese in base alle oggettive circostanze locali. È nata anche la “Baku Adaptation Road Map”, ma siamo ancora lontani da un piano chiaro.

Poi c’è stato il tema del global stocktake e dei cosiddetti NDT, i nationally determined contribution. Che sono, mi rendo conto, tutte formule molto complicate per chi non è un addetto ai lavori.

Il GST è una sorta di “check-up climatico” globale. Quando con l’accordo di Parigi del 2015 ci si è dato per la prima volta un obiettivo climatico chiaro, ovvero restare entro il grado e mezzo, o comunque ben sotto dei 2 gradi di riscaldamento globale, si è anche detto di monitorare l’andamento ogni tot, per vedere se si stava rispettando la rotta. E quindi si è detto: “bene, ogni 5 anni facciamo dei GST per capire se andiamo bene”.

Lo scorso anno, nel 2023, è stato realizzato il primo GST, il cui risultato è stato… mmmm. Non benissimo. È emerso sostanzialmente che il mondo è fuori strada per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C. Che gli attuali impegni sono insufficienti e servono azioni molto più ambiziose e rapide, soprattutto in mitigazione e finanziamenti per l’adattamento. Quindi uno dice, ok allora rimettiamoci sui binari giusti. Per cui c’erano ben 3 tavoli di lavoro che dovevano capire come procedere per raddrizzare la barra in vista del successivo GST. Ma sostanzialmente fra mozioni, discussioni, rinvii, non si è deciso niente.

Discorso simile si può fare per i Nationally determined contributions, ovvero i piani climatici nazionali che ogni Paese firmatario dell’Accordo di Parigi è tenuto a presentare, aggiornare periodicamente e rispettare per contribuire agli obiettivi globali di riduzione delle emissioni di gas serra. Si doveva decidere qui come impostare i NDT del quinquennio 2031-2036, ma non è emerso niente e si è rimandato tutto al novembre 2026. 

Direi che questo è il grosso di quello che è successo, ma anche che non è successo a Cop29. Nell’aria si respira un certo disincanto, più ancora che delusione verso una conferenza sul clima in cui sembra non aver creduto praticamente nessuno fin dall’inizio. Dal suo profilo Facebook il giornalista Sergio Ferraris si chiede, dopo aver ricapitolato le decisioni principali di questo summit: “Vogliamo chiamare questo sistema una volta per tutte FALLIMENTO?”

Il WWF definisce l’accordo finale sulla finanza una battuta d’arresto per l’azione per il clima, GreenPeace parla di “Risultato debole”. 

Fra l’altro ci sono già diverse polemiche che circondano anche la prossima Cop, la Cop30 di Belem, in Brasile del prossimo anno. Perché per il terzo anno di fila la conferenza verrà ospitata da un Paese che ha intenzione di aumentare la produzione di petrolio e gas nel prossimi anni. Il Brasile ha infatti annunciato che entro quella data aumenterà del 36% la sua estrazione, all’interno di una strategia un po’ equilibrista del presidente brasiliano Lula, che sostiene – in pratica – di voler usare parte dei proventi per finanziare iniziative ambientali e sociali, e dice anche che il Brasile si impegna a tutelare le foreste, e quindi – fra le righe – non gli rompessero l’anima sul petrolio. 

Ma quindi ste COP servono ancora a qualcosa? È una domanda che ormai ci facciamo ogni anno. Da un lato possiamo dirci tranquillamente che non possiamo sperare di vedere arrivare da lì i risultati necessari a salvarci dal disastro climatico. Dobbiamo avviare altre robe in parallelo, almeno.

Dall’altro ho trovato interessante la lettura di Viola nel suo commento sul fatto che le cose ora si incagliano più spesso perché davvero si vanno a toccare interessi miliardari. E quini, penso, proprio per questo è importante non mollare la presa e continuare a presidiarle, a raccontarle, ad andarci. 

Leggevo giorni fa che a Baku, alla COP 29, erano presenti 1773 lobbisti delle aziende del fossile, tutti lì a impedire che il riscaldamento globale venga arrestato. Per fortuna a fare da contraltare ci sono le organizzazioni della società civile che monitorano, che controllano, che vigilano, che mettono le pezze, come hanno fatto quest’anno. Pensate a cosa potrebbero diventare le COP se venissero abbandonate ai lobbysti. Quindi ecco, penso che sia importante continuare ad esserci, a presidiare questi processi senza aspettarci che da soli risolvano la crisi climatica ma pretendendo comunque che facciano la loro parte, consapevoli che dovremo fare anche altro, molto altro.

Prima di salutarci, sabato è uscita la nuova puntata di INMR+, il nostro podcast per abbonati,  a tema energie rinnovabili. 

Le rinnovabili sono al centro di un grosso dibattito fra chi spinge per installarne più possibile, spinto dall’urgenza climatica e chi invece vuole preservare e tutelare i territori e chiede che le comunità locali abbiano un ruolo nel prendere le decisioni.

È un tema complesso, polarizzante, ma anche imprescindibile: dalle decisioni che prendiamo oggi su come produciamo la nostra energia ne va del futuro di miliardi di persone di tante altre specie sul pianeta. Vista la vastità del tema, questa è la prima di una serie di puntate a tema energie del futuro, che hanno lo scopo di fare chiarezza – e magari aprire un dibattito costruttivo – sul tema della transizione energetica.
In questo primo episodio con Andrea Degl’Innocenti parliamo di quanta energia avremo bisogno e di come possiamo produrla in compagnia di Gabriele Ruggieri, co-fondatore di ènostra, ricercatore, divulgatore, saggista e co-conduce la rubrica “Il giusto clima” su Radio Popolare.

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