30 Ott 2024

Come sta andando la COP16 sulla biodiversità di Cali? – #1011

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Sta per iniziare la fase finale di COP16, la conferenza sulla biodiversità che si tiene quest’anno in Colombia, ma c’è una situazione di stallo sui punti principali, in particolare sui temi finanziari. L’arrivo dei leader politici sbloccherà la situazione? Parliamo anche del referendum consultivo che si è tenuto in Val del Sole sulla presenza di lupi e orsi, che ha dato un risultato abbastanza preoccupante, e di Israele che ha di fatto bandito l’agenzia Onu dei rifugiati palestinesi dall’operare sul suo territorio.

Abbiamo ampiamente superato la metà della conferenza sulla biodiversità COP16 di Cali, in Colombia e allora facciamo un punto su come stanno andando i negoziati. E lo facciamo seguendo un interessante articolo di Emanuele Bompan su Renewable matter.

Leggo: “Sabato mattina, 26 ottobre, nuvole gonfie di pioggia si stagliano sopra il centro espositivo Valle del Pacifico di Cali, dove ha luogo il sedicesimo negoziato ONU sulla biodiversità. Mentre gruppi delegati sorseggiano caffè (rigorosamente colombiano), si mormora come le nuvole grigie siano una perfetta metafora dell’avanzamento dei negoziati. Non piove ancora, ma al momento non promette nulla di buono.

La COP delle persone, come ha voluto battezzarla la presidenza colombiana, è sicuramente un successo, per la grande attenzione data a popolazioni indigene, minoranze, donne, comunità, come dimostrano panel ed eventi che si tengono nella zona governativa (blu) e in quella civile (verde). Ma la COP dell’implementazione, come ribattezzata dalla presidenza della conferenza, per concretizzare il Global Biodiversity Framework (GBF), invece fatica a eliminare le tante opzioni sul tavolo nel testo negoziale.

Come ricorda il giornalista, la COP di Cali ha obiettivi molto specifici: deve trovare strategie di scale-up (quindi di aumento) della finanza per la natura; deve accelerare l’adozione da parte dei paesi del mondo dei piani per la biodiversità, dato che al momento se ne registrano solo 34 su oltre 196 paesi. Più altre questioni, tipo i diritti di utilizzo della mappatura del codice genetico.

Ma siamo in una situazione di stallo che riproduce la classica impasse che da anni rallenta anche il negoziato sul clima. I paesi occidentali non vogliono sborsare soldi ma vogliono strumenti finanziari sofisticati, i paesi in via di sviluppo chiedono risorse, in qualsiasi forma, la Cina si rifiuta di entrare nel club dei grandi (di quelli che dovrebbero pagare perché storicamente piu responsabili della crisi), il blocco latino-americano ricorda sempre a tutti il tema dei diritti e delle minoranze, la Russia punta i piedi per ricordare che esiste.

E quindi i documenti sono pieni di tante versioni discordanti, ciascuna scritta da una delle parti, e il consenso sembra davvero molto lontano. Una delle critiche più forti è stata mossa alla Global Environmental Facility (GEF), un’agenzia multilaterale che dovrebbe gestire il Global Biodiversity Framework Fund, il fondo per la natura, che dovrebbe arrivare a raccogliere ed erogare ai paesi meno sviluppati almeno 20 miliardi l’anno entro il 2025 e 30 miliardi per la fine del decennio.

Ma anche qui ci sono grossi disaccordi sulla struttura di questo organismo di gestione. Per i critici la rappresentanza dei paesi all’interno del suo board è squilibrata e l’accesso ai fondi ostico, mentre non è chiaro chi dovrebbe sostenerla e chi ne beneficerà. Molti dei paesi megadiversi che sarebbero i principali ricevitori delle risorse raccolte (Brasile, Congo, Indonesia) preferirebbero avere un peso maggiore nella gestione e meno controlli sull’implementazione dei progetti. 

Come ha dichiarato il negoziatore brasiliano André Aranha Corrêa do Lago “I finanziamenti per la biodiversità dovrebbero arrivare dove c’è la biodiversità” e  “La voce dei paesi che sostengono un onere maggiore dovrebbe contare di più di quanto non faccia il sistema di governance del GEF.”

Per la ONG Survival International, il portfolio del GEF “finora è stato dominato dalle agenzie delle Nazioni Unite e da una manciata selezionata di organizzazioni per la conservazione, per lo più con sede negli Stati Uniti” e rafforza “i vecchi e fallimentari modelli di conservazione dall’alto verso il basso, di tipo coloniale, soprattutto attraverso l’istituzione di parchi nazionali”. Un posizionamento che, secondo un negoziatore europeo che preferisce non rivelare la propria identità, rischia di fermare tutto il pacchetto.

Insomma, i paesi devono andare oltre il semplice ribadire le proprie posizioni e cercare invece soluzioni per compiere progressi reali. Anche perché mancano solo due mesi al 2025, la scadenza che la COP15 ha fissato per i paesi cosiddetti sviluppati per fornire 20 miliardi di dollari all’anno ai paesi in via di sviluppo per la conservazione della biodiversità.

Comunque, domani, giovedì 31, inizia la parte finale dei negoziati, il cosiddetto segmento di alto livello, al quale parteciperanno sei capi di stato, 110 ministri, 23 viceministri (per l’Italia ci sarà il sottosegretario Claudio Barbaro) e oltre 70 leader di organizzazioni internazionali. Lo stallo dei negoziati fin qui, fatti da tecnici e diplomatici, non lascia ben sperare ma a volte abbiamo visto che se i politici arrivano con un mandato chiaro e c’è la volontà politica dei paesi di accordarsi, qualcosa succede. Lunedì, a bocce ferme, ne riparliamo.

Restando in tema biodiversità e animali, torniamo in Italia, per parlare di una specie di referendum, solo consultivo e senza particolare valore legale, che però sta preoccupando le organizzazioni animaliste. Il referendum in questione si è tenuto nella Val di Sole, una valle che raggruppa 13 comuni del Trentino e riguardava la presenza degli orsi e dei lupi sul territorio ed è stato lanciato dal Comitato “Insieme per Andrea Papi” – Andrea Papi è quel ragazzo che è stato ucciso da un orso in Trentino mentre correva in un sentiero di montagna lo scorso anno -. E ha avuto un esito ben preciso: il 98,58% degli abitanti dei 13 Comuni del Trentino si dice preoccupato dalla presenza dei grandi carnivori.

Ovviamente, come spiega un articolo di Germana Carillo su GreenMe, una “semplice” consultazione locale non può cambiare la normativa europea e nazionale che dà a orsi e lupi la massima tutela – ma il segnale che arriva dalla popolazione è forte. Più di 7.700 persone hanno votato contro la presenza degli orsi e dei lupi nella Val di Sole. Fra l’altro con una affluanza molto alta, del 63%, se pensate che non aveva valore legale.

Insomma, a 25 anni dall’avvio del programma si ripopolamento dell’orso bruno nei boschi del Trentino con il progetto Life Ursus il sentire comune è parecchio mutato e l’opinione pubblica si è quasi barricata dietro a una paura, molto spesso infondata, dati alla mano.

Da allora è stato un crescendo di malumori, a suon di ordinanze e provvedimenti di catture, abbattimenti o recinzioni, nella percezione di un pericolo decisamente condivisa (e fomentata) tra gli abitanti di un territorio comunque circoscritto. Da qui, il Comitato “Insieme per Andrea Papi” ha raccolto oltre 6mila firme in Val di Sole al fine di promuovere la consultazione popolare dall’esito quasi scontato.

Il quesito recitava: Ritieni che la presenza di orsi e lupi in zone densamente antropizzate come la Val di Sole, la val di Pejo e la val di Rabbi sia un pericolo per la sicurezza, un danno per l’economia e per la salvaguardia di usi, costumi e tradizioni locali? 7.731 cittadini hanno detto di sì, solo 111 no e 18 schede bianche.

Ecco perché il responso dovrebbe portare la politica provinciale, nazionale ed europea a fare i conti con la richiesta di aiuto della popolazione della Val di Sole, dice il Presidente della Comunità della Val di Sole, Lorenzo Cicolini, che vorrebbe una revisione della gestione del progetto Life Ursus.

Ecco come commenta LAV: “Se i cittadini desiderano maggiore sicurezza, invece di continuare a farsi prendere in giro da Fugatti (presidente della Provincia autonoma di Trento), che nella questione orsi ha trovato una miniera d’oro elettorale, farebbero meglio a rivolgersi alla scienza, acquisendo tutte le informazioni necessarie e utili per poter continuare a fruire del territorio in piena tranquillità, consapevoli del fatto che orsi e lupi continueranno a essere loro vicini di casa.

ENPA invece definisce il referendum una farsa e accusa i promotori di aver formulato il quesito in maniera faziosa. Resta il fatto che il dato è impressionante e che non possiamo fare far finta di niente. Sicuramente la soluzione non è quella rendere più facile l’uccisione di lupi e orsi. Probabilmente aiuterebbe una politica che invece di alimentare il problema e soffiare sul fuoco della polemica per fini elettorali avviasse delle campagne di sensibilizzazione e di insegnamento alla convivenza. 

Penso che sarebbe molto importante trovare delle soluzioni pacifiche e nonviolente. So che puo sembrare una roba detta a sproposito, ma se non ci abituiamo a trovare soluzioni pacifiche anche a questo tipo di conflitto, se ci abituiamo all’idea che i conflitti si risolvono con la forza e che è lecito abbattere i vicini scomodi, anche se non umani, non ci stiamo allenando alla cultura della pace, che è fatta di compromessi e di adattamento. E poi non possiamo sorprenderci se ci comportiamo alla stessa maniera con gli esseri umani, che siano migranti qua in Italia o i vicini scomodi della striscia di Gaza, per Israele. 

A tal proposito, lunedì sera il parlamento israeliano ha approvato due leggi che impediranno all’agenzia dell’ONU per i profughi palestinesi, nota anche come UNRWA, di lavorare in Israele e di avere accesso ai benefici che di solito vengono garantiti agli organi dell’ONU. Le due leggi sono state votate anche da larga parte dell’opposizione israeliana: sono passate con 92 voti favorevoli e appena 10 contrari. Per settimane diversi alleati occidentali di Israele, compresi gli Stati Uniti, hanno chiesto al governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu di intervenire per bloccare la legge, invano.

Israele accusa da anni l’UNRWA, quindi l’ONU di avere estesi legami con i principali gruppi radicali palestinesi, e più in generale di promuovere posizioni anti-israeliane. Molte di queste accuse, come la tesi secondo cui più di 100 dipendenti dell’UNRWA siano funzionari di Hamas, non sono mai state dimostrate in maniera indipendente.

La prima legge impedirà all’UNRWA di operare in territorio israeliano: non potrà più portare avanti le sue attività di assistenza umanitaria ma nemmeno avere uffici. La seconda legge rimuoverà a dipendenti e funzionari dell’UNRWA alcune tutele legali, e proibirà ai dipendenti del governo israeliano di collaborare ufficialmente con l’UNRWA e i suoi dipendenti. Le due leggi entreranno ufficialmente in vigore fra 90 giorni.

Il commissario generale dell’UNRWA Philippe Lazzarini ha definito l’approvazione delle leggi «un pericoloso precedente», nonché «l’ultimo passaggio di una campagna per screditare l’UNRWA e delegittimare il suo incarico di fornire assistenza e servizi ai rifugiati palestinesi. Queste leggi serviranno soltanto ad aggravare le sofferenze dei palestinesi».

Insomma, continua l’opera di delegittimazione e attacco alle Nazioni Unite da parte del governo israeliano. Molto preoccupante, direi.

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