La “strana” commissione del governo per riscrivere le leggi sull’ambiente – #830
Eccoci qua ad iniziare questa puntata con un nuovo scoppiettante episodio della rubrica “Il governo odia il Pianeta”, la rubrica che esce ogni volta che il nostro governo fa qualcosa che ci spinge un passetto in più verso l’estinzione. Quindi, sì, ha una frequenza abbastanza elevata.
Su la Repubblica c’è un articolo a firma di Antonio Fraschilla, dal titolo “Le mani del governo sull’Ambiente: una commissione per riscrivere le norme con professionisti vicini a compagnie petrolifere e aziende del cemento”. Al suo interno il giornalista fa luce sulla mega commissione da poco nominata dal governo per riscrivere praticamente tutta la normativa sull’ambiente del nostro paese. Un lavoro colossale, che magari sarebbe anche utile se non fosse che le persone inserite in questa commissione sono, ecco, non proprio disinteressate.
Leggo: “Il governo Meloni vuole rivedere tutta la normativa in materia ambientale. Una missione di non poco conto e che tocca una materia delicatissima, che va dalle norme in materia di inquinamento alle tutele paesaggistiche per nuove costruzioni private e industriali: argomenti a dir poco sensibili e dagli interessi miliardari. Senza fare tanto clamore nei giorni scorsi i ministri all’Ambiente e alla Semplificazione normativa, Gilberto Pichetto Fratin ed Elisabetta Casellati, hanno nominato una mega commissione, con tanto di esperti, per “elaborare uno schema di legge per il riassetto delle normative vigenti in materia ambientale”.
In tutto una cinquantina di ”esperti” e tecnici, tra i quali molti docenti universitari, ma anche nomi che già stanno facendo discutere, tra i soliti bocciati alle elezioni e avvocati e ingegneri che lavorano, o hanno lavorato, a stretto contatto con lobby importanti e sulle quali le norme andrebbero a impattare: legali vicini all’Eni, a grandi gruppi del cemento come qui manca una parola nell’articolo, plausibilmente il nome del gruppo del cemento in questione, e devo ammettere che mi sono chiesto se fosse stata una dimenticanza del giornalista, o un colpo di gomma venuto male di Repubblica], ma anche vicini a compagnie leader nel settore del gas e del petrolio.
Un paradosso, per il deputato di Alleanza verdi e sinistra Angelo Bonelli, che parla di un “golpe all’ambiente” che starebbe preparando “il governo della destra” e annuncia una interrogazione parlamentare per chiedere con quali criteri sono stati scelti i componenti di questa delicata commissione: un organismo che dovrà riscrivere le norme in materia ambientale, anche se i componenti non riceveranno compenso e lo faranno a titolo gratuito. Una decisione, anche questa, abbastanza singolare: un compito così delicato a titolo gratuito?
Vi leggo la dichiarazione di Bonelli per intero: “Vogliono smantellare la legislazione ambientale e renderla più morbida e vicina ad interessi costruttori e petrolieri. Viene nominata una commissione di esperti di cui una parte consistente lavora in studi legali che hanno avuto e hanno tutt’ora contatti con grandi imprese di costruzione e di società energetiche. Ci sono candidati della Lega e di Forza Italia non eletti che vengono messi nella commissione di esperti e ci sono titolari di società che si occupano di rifiuti. Pichetto dovrà venire in aula e spiegare questa vergogna”.
Ma andiamo per ordine. Il decreto è stato appena pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. A presiedere la commissione è stato scelto il professore Eugenio Picozza, esperto di diritto amministrativo e docente a Tor Vergata. Insieme a lui altri docenti, come il professore e consulente della presidente Giorgia Meloni Francesco Saverio Marini, che ha scritto la riforma del premierato cara alla leader di Fratelli d’Italia. Nell’elenco anche generali della Guardia di finanza, esperti di aviazione e intelligenze, come Christian Tettamanti, e il magistrato militare Giuseppe Leotta. Ma non mancano alcune “curiosità”, diciamo così. Tra gli esperti della commissione c’è ad esempio il professore Vincenzo Pepe, candidato alla Camera in Campania e non eletto nelle file della Lega, ma anche l’ex senatrice non ricandidata in Forza Italia Urania Papatheu, già consulente retribuita della ministra Casellati”.
Insomma, questa commissione sembra un po’ un’accozzaglia di lobbysti e cosiddetti trombati della politica, ovvero politici non eletti, a cui dover trovare un’occupazione. la cosa strana in quest’ultimo caso è la gratuità dell’incarico. Nel marketing si dice che se il servizio è gratis significa che il prodotto sei tu. In questo caso mi viene il dubbio che se la prestazione è gratis, significa che viene pagato qualcos’altro.
Se state pensando che il nostro governo odia il Pianeta, è vero, è anche il titolo della rubrica, ma è comunque in buona compagnia. È uscito un rapporto pochi giorni fa del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) che mette in guardia sul fatto che i governi dei principali paesi produttori di petrolio, gas e carbone intendono hanno pianificato una produzione di combustibili fossili da qui al 2030 più che doppia rispetto ai target che ci permetterebbero, secondo le stime, di contenere entro il limite di +1,5 gradi l’aumento del riscaldamento globale, come previsto dall’Accordo di Parigi.
Il rapporto si chiama “Production Gap”, è stato stilato da una serie di istituti di ricerca e accorpa una serie di dati che riguardano la pianificazione prevista dai governi nella produzione di carbone, petrolio e gas.
Ora, sul fatto di mantenere la temperatura al di sotto del grado e mezzo di riscaldamento globale, forse ormai non ha più molto senso nemmeno continuare a parlarne perché sempre più studi mostrano che è praticamente impossibile, che quell’obiettivo è morto e sepolto e dovremmo concentrarci sull’obiettivo dei due gradi, e nel frattempo investire nell’adattamento climatico.
Quindi tutto a posto direte voi? Non esattamente. Perché oltre ad essere del 110% in più rispetto all’obiettivo di 1,5°C, le emissioni generate dai piani di estrazione dei principali paesi del mondo, sono anche del 69% in più rispetto all’obiettivo di aumento globale della temperatura di 2 gradi. Quindi stiamo sfornado di brutto anche quello. Questo nonostante 151 paesi si siano impegnati a raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette e le ultime previsioni suggeriscano che la domanda globale di carbone, petrolio e gas raggiungerà il picco in questo decennio, anche senza nuove politiche.
Tutto ciò a due settimane e spicci dalla Cop28, la conferenza sul clima che si aprirà a Dubai il 30 novembre, dove 195 stati sono chiamati a verificare gli impegni di riduzione dei gas a effetto serra.
Il rapporto annuale mostra dei progressi di una lentezza imbarazzante da parte dei 20 principali Paesi produttori di combustibili fossili, che nello specifico sono: Australia, Brasile, Canada, Cina, Colombia, Germania, India, Indonesia, Kazakistan, Kuwait, Messico, Nigeria, Norvegia, Qatar, Russia Federazione, Arabia Saudita, Sud Africa, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e Stati Uniti d’America.
Sebbene 17 di questi 20 Paesi analizzati si siano impegnati a raggiungere l’obiettivo emissioni net zero – e molti abbiano lanciato iniziative per ridurre le emissioni derivanti dalle attività di produzione di combustibili fossili – nessuno si è impegnato a ridurre la produzione di carbone, petrolio e gas in linea con la limitazione del riscaldamento a 1,5° C. Nemmeno uno. Qualcuno ha fatto azioni che lo avvicinerebbero ai 2°, ma il fatto è che, come si legge nel rapporto, i governi con maggiore capacità di abbandonare i combustibili fossili dovrebbero puntare a riduzioni più ambiziose e contribuire a sostenere i processi di transizione nei paesi con risorse limitate.
Torniamo a parlare di Gaza e Israele. A Gaza una delle situazioni più critiche è quella negli ospedali, sempre più vicini al collasso, o forse già al collasso. Leggo su Internazionale che “Il viceministro della salute di Hamas, Yussef Abu Rich, ha dichiarato il 13 novembre all’Afp che “tutti gli ospedali della parte nord della Striscia di Gaza sono fuori servizio”
Dal 10 novembre Israele ha messo sotto assedio gli ospedali, sostendendo che siano usati dai combattenti di Hamas per scopi militari. Le strutture sono anche rimaste senza elettricità a causa della mancanza di carburante per i generatori dovuta all’assedio totale proclamato da Israele il 9 ottobre.
Sempre secondo il viceministro della salute “Sei neonati prematuri e nove pazienti in terapia intensiva sono morti a causa dell’assenza di elettricità nell’ospedale Al Shifa” e l’ospedale, il più grande della Striscia di Gaza, è stato anche bombardato dall’esercito israeliano. Qualche giorno prima, l’11 novembre, la dirigenza dell’ospedale aveva affermato che 39 neonati prematuri erano presenti nella struttura e che le infermiere stavano effettuando “massaggi respiratori manuali” per cercare di tenerli in vita.
Oltre a ciò, secondo le Nazioni Unite, più di 1,5 milioni di abitanti della Striscia di Gaza su un totale di 2,4 milioni sono stati costretti a lasciare le loro case e il territorio è sottoposto a un assedio totale israeliano che priva la popolazione di cibo, acqua, medicinali ed elettricità. Negli ultimi giorni l’esercito israeliano ha garantito dei corridoi umanitari per alcune ore al giorno, e negli ultimi 3 giorni, come riportato dallo stesso esercito, “quasi duecentomila palestinesi hanno lasciato il nord della Striscia di Gaza, rifugiandosi a sud”. L’aviazione israeliana ha però continuato a bombardare anche la parte sud del territorio. A Bani Suheila, vicino a Khan Yunis, un bombardamento ha causato la morte di dieci persone, tra cui alcuni bambini.
Il premier israeliano Benyamin Netanyahu continua a ripetere che un cessate il fuoco è impossibile senza la liberazione degli ostaggi, ma il bilancio sempre più pesante di vittime palestinesi (si parla di quasi 12mila persone, di cui quasi 5000 bambini/e) sta iniziando a far calare vistosamente l’iniziale appoggio dei governi dei paesi occidentali e di molte istituzioni globali all’operazione.
In un messaggio pubblicato sul social network X, il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha definito “drammatica” la situazione sanitaria di Gaza dicendo: “Il mondo non può restare in silenzio quando gli ospedali, che dovrebbero essere luoghi di pace, si trasformano in scene di morte, devastazione e disperazione. Chiedo un cessate il fuoco immediato”.
In un’intervista del 10’ novembre alla BBC, il presidente francese ha concesso un’intervista alla Bbc in cui ha sottolineato che non esiste “alcuna giustificazione” né “legittimità” nei bombardamenti contro i civili. “Questi bambini, queste donne e questi anziani sono bombardati e uccisi”, ha ricordato Macron, invitando Israele a rispettare il diritto internazionale umanitario e ad accettare una pausa che possa trasformarsi in un cessate il fuoco.
Parole molto dure e chiare, che sono un segnale importante, da cogliere.
Come ultima notizia del giorno segnalo una lunga intervista sul Guardian della giornalista Emma Bryce a Richard Thompson, il biologo che per primo identificò il problema delle microplastiche, ormai 30 anni fa.
Ve ne leggo qualche passaggio: “Più di recente, è stato catapultato nel cuore dei negoziati internazionali per la stesura di un trattato globale per frenare l’inquinamento da plastica, i cui ultimi colloqui si sono svolti a Parigi nel mese di giugno.
Un trattato sulla plastica guidato dalle Nazioni Unite è un’opportunità che capita una sola volta sul pianeta”, afferma Thompson, ma su alcune delle presunte soluzioni proposte è molto chiaro. È convinto che la plastica biodegradabile non possa salvarci. E nemmeno una quantità di “pulizie”, come la sua fatidica spedizione del 1993.
Quel che è peggio, a suo avviso, è che se il trattato sulla plastica farà correre il mondo dietro alle idee sbagliate, l’inquinamento da microplastiche non potrà che peggiorare. “C’è un rischio reale che mi preoccupa”, dice. “Che se tiriamo a indovinare, sbaglieremo”.
E ancora, più avanti: “Ciò che preoccupa Thompson è che i politici possano essere sviati da approcci molto pubblicizzati che sono già in uso – per esempio, iniziative hi-tech per rimuovere la plastica dal mare, come l’Ocean Cleanup.
Thompson sottolinea di essere un convinto sostenitore delle operazioni di pulizia dell’inquinamento costiero, ma che è “ingenuo aspettarsi che [le operazioni di pulizia] possano essere una soluzione sistemica” alla vasta minaccia delle microplastiche.
“Gli psicologi lo chiamerebbero ‘tecno-ottimismo’”, afferma. Se non stiamo attenti, l’opinione pubblica si convince che un grosso aggeggio che sfreccia nel bel mezzo del Pacifico possa ripulire tutto al posto nostro, e la storia finisce lì”.
“È una storia attraente, dal punto di vista di non dover cambiare nulla di ciò che facciamo”.
Allo stesso modo, la proliferazione di alternative alla plastica, come le plastiche biodegradabili e a base biologica. “Ero davvero curioso di sapere se questa sarebbe stata una risposta al problema”. dice Thompson.
Ma, sebbene rappresentino un parziale miglioramento rispetto all’impronta dei combustibili fossili delle plastiche convenzionali e possano avere alcuni usi legittimi, la maggior parte delle plastiche biodegradabili non si dissolve in natura – un fatto di cui Thompson si è reso conto per la prima volta quando, all’inizio della sua carriera di ricercatore, una rete a strascico ha recuperato un sacchetto dal fondo del Mare del Nord. Sul lato c’era scritto “biodegradabile”.
L’articolo è molto più lungo e vi consiglio la lettura integrale. Salto verso la fine quando spiega la sua idea di soluzione. “Nessuno di questi tipi di azioni (il riferimento è alle soluzioni citate sopra) cambia quello che secondo lui è il vero pericolo: il rapporto lineare che abbiamo con la plastica – produrre, consumare, smaltire – che ha creato il problema. Dopo due decenni passati a descrivere il problema, ora si concentra sulla causa. “La mia ricerca sta tornando alla terra, perché il problema non è causato dagli oceani, ma dalle pratiche sulla terraferma”.
Lo ha detto anche ai colloqui di Parigi. “Passiamo alle soluzioni, che si trovano a monte”, ha detto a una platea di delegati provenienti da 58 Paesi, spiegando che per rallentare il fiume di plastica che scorre, dobbiamo prima restringerne la fonte. “Non possiamo continuare a [produrre] al ritmo attuale. Sta superando ogni capacità di farvi fronte”. Insomma, come diciamo spesso, la principale soluzione al problema della plastica è ripensare profondamente la produzione degli oggetti. Ricordandoci sempre, fra l’altro, che il problema non è nemmeno la plastica di per sé, ma l’usa e getta.
Chiudiamo con la consueta rubrica la giornata d’Italia che Cambia. Prima di dare la parola al npostro direttore Daniel Tarozzi che ci racconta le notizie più interessanti di oggi pubblicate su ICC, vi annuncio che oggi esce la seconda puntata diNFM, in cui abbiamo ricontattato una delle storie più, oserei dire, folli che abbiamo mai raccontato. Un ragazzo siciliano che decide di aprire un forno in un paese disabitato. Come sarà andata a finire.
Adesso la parola a Daniel.
#governo
la Repubblica – Le mani del governo sull’Ambiente: una commissione per riscrivere le norme con professionisti vicini a compagnie petrolifere e aziende del cemento. Pd, 5 stelle e Verdi: “Un golpe”
Rete Ambiente – Riforma del codice ambientale: via alla commissione
#governi fossili
Greenreport – Production gap report 2023: i governi vogliono produrre il doppio dei combustibili fossili rispetto al limite di 1,5°C(video)
#microplastiche
The Guardian – ‘We can’t carry on’: the godfather of microplastics on how to stop them
#Gaza
Internazionale – Il sostegno occidentale a Israele non è più così unanime
Internazionale – Si aggrava la situazione negli ospedali della Striscia di Gaza
#riparabilità
The Verge – The right-to-repair movement is just getting started
#materie prime
Valori – Materie prime critiche, i milioni della lobby industriale per annacquare le norme europee