4 Nov 2024

Com’è andata la COP16 biodiveristà di Cali fra flop, successi e disinteresse – #1013

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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È finita la COP16 sulla biodiversità di Cali, in Colombia, fra risultati storici, flop altrettanto storici e un’aria di generale disinteresse. Ma anche fra tante cose che le succedevano attorno. Vediamo meglio com’è andata. Parliamo anche delle alluvioni in Spagna, delle molte centinaia di morti e dispersi, ma anche delle nuove forme di negazionismo climatico che stanno alimentando, e chiudiamo parlando di abitare collaborativo, il nostro nuovo filone di approfondimento. 

COP16 Biodiversity è finita, è finita sabato, con un giorno di ritardo, e ci sono opinioni discordanti su come è andata. Sono stati mancati i punti principali dell’accordo, ma al tempo stesso si sono raggiunti alcuni traguardi storici. Al tempo stesso si respira un clima di disillusione e disinteresse generale verso questo tipo di negoziato. Vediamo meglio come sono andate le cose e lo facciamo seguendo l’articolo di Emanuele Bompan, presente in loco, che ha documentato l’accaduto sul suo giornale Renewable Matter.

Che scrive: “L’incontro avrebbe dovuto lavorare concretamente su soluzioni e implementazioni dei 23 punti dell’Accordo ONU del 2022 per salvare la vita vegetale e animale della Terra, proteggendo il 30% del pianeta e ripristinando il 30% degli ecosistemi degradati entro il 2030.

Mentre le poche delegazioni rimaste sono incollate ai telefoni cercando di prenotare nuovi voli – in molti si sono lamentati del fatto che i paesi meno ricchi non avessero risorse a disposizione per prolungare la permanenza – i giornalisti cercano di interpretare le decisioni prese e le opportunità mancate di quello che si è rivelato un negoziato inficiato dalle decennali divisioni tra paesi industrializzati (Europa, Giappone, Svizzera, etc) e paesi in via di sviluppo o di nuova industrializzazione, guidati in particolare dal Brasile e dagli stati africani.

Tre i risultati positivi di COP16 evidenziati dalla presidenza colombiana, guidata dall’abile Susana Muhamad, “l’inclusione dell’Organo permanente per i popoli indigeni e le comunità locali nella Convenzione, incluso il riconoscimento dei popoli afrodiscendenti, e dello storico Fondo di Cali, istituito per raccogliere i contributi delle aziende private sull’utilizzo dei dati genetici digitali (DSI) derivati dalle risorse biologiche”.

Da un lato quindi si crea una reale rappresentanza delle popolazioni indigene e una maggiore forza rappresentativa che dovrebbe portare a un maggiore riconoscimento dei diritti di proprietà dei territori indigeni, ricevere risorse dedicate e avere maggiore rappresentatività nei processi. 

Questo si lega fortemente al meccanismo DSI, che di fatto chiede ad aziende dei settori farmaceutico, cosmetico, nutraceutico, genetico e dell’allevamento di pagare almeno l’1% dei propri profitti per lo sfruttamento delle risorse genetiche legate alla biodiversità per aiutare i paesi meno sviluppati a proteggere la natura. Infine, va menzionato il testo finale sull’identificazione di nuove aree marine di importanza ecologica o biologica (EBSA), anche in acque internazionali, ampliando così la rete globale di zone protette.

Questi sono stati i successi. Gli insuccessi invece riguardano soprattutto gli aspetti finanziari fra stati. Il documento sulla strategia finanziaria non è stato approvato. I paesi dovevano accordarsi su come raggiungere l’obiettivo (concordato nella scorsa COP) di movimentare 20 miliardi di dollari l’anno a livello globale entro il 2025 e addirittura 200 miliardi entro il 2030 verso i paesi più vulnerabili per la protezione della natura. 

Ma nonostante i negoziati siano andati avanti tutta la notte di venerdì, le posizioni dei paesi erano talmente distanti che verso le 8 del mattino la presidente ha sospeso la seduta senza nemmeno indire l’assemblea plenaria. Anche perché nel frattempo alcuni delegati erano già partiti ed era impossibile anche solo raggiungere il quorum.

E così, senza delegati a votare, è saltato sia il documento sulla finanza che quello sul PMRR, ovvero i piani di monitoraggio degli impegni presi dai paesi sulla protezione della biodiversità, impegni che tutti i paesi avrebbero dovuto presentare, ma che solo 41 hanno presentato effettivamente. 

Comunque, ricapitolando: Questa conferenza ha avuto il merito di sancire i diritti degli indigeni a far sentire la loro voce a livello globale nella protezione della biodiversità, un tema su cui sappiamo che le popolazioni indigene sono effettivamente di gran lunga le maggiori esperte. E ha raggiunto anche il risultato storico di far pagare alle aziende una quota, ancora piccola e forse più simbolica che altro, di quello che ricavano attraverso lo sfruttamento della biodiversità e la mappatura del codice genetico.

Mentre i grandi assenti sono stati – paradossalmente, essendo un incontro di rappresentanti di stati, proprio gli stati, che non hanno presentato i loro piani se non in una percentuale minima, e non si sono accordati su come finanziare la protezione della biodiversità nei paesi più poveri economicamente, ma più ricchi di biodiversità (un binomio frequentissimo e paradossale, su cui dovremmo riflettere). 

Il tutto, mi pare, in un clima di disinteresse generale. La fine dei negoziati su un tema importantissimo, probabilmente anche più critico del cambiamento climatico sotto alcuni aspetti, quest’anno ha ricevuto solo qualche trafiletto di giornale. Come nota orgogliosamente Bompan nel suo articolo, Materia Rinovabile è stata l’unico media italiano presente alla COP16. E anche la rappresentanza politica è stata ai minimi storici, con pochissimi capi di stato, qualche ministro e molte figure politiche secondarie. Ad esempio per l’Italia c’era il sottosegretario Claudio Barbaro (che non ha nemmeno rilasciato un commento sulla chiusura del negoziato), e non sempre è sembrato consapevole dell’importanza del negoziato.

La mia sensazione è che questo genere di negoziati, lo stesso discorso si può fare sulle più famose COP sul clima, abbiano un po’ raggiunto il loro livello massimo di risultati. È importante che ci siano state, e forse che continuino ad esserci, ma non possiamo aspettarci che da lì arrivi molto di più di quello che già fanno. È comunque un modo per i paesi di confrontarsi fra loro su temi chiave, ma se vogliamo vedere succedere le cose successive, bisogna alzare il livello di collaborazione globale. Forse, come sta accadendo in alcune città nel mondo, dovremmo istituire dei tavoli permanenti a livello globale, su clima, biodiversità, desertificazione, e stabilire che su quei temi che sono una priorità per tutti si collabora costantemente per prendere decisioni condivise, al di là di quello che succede a livello politico e geopolitico. Dovremmo iniziare a slegare quei temi, che necessitano di altissimi livelli di collaborazione, dai sistemi di governance classici.

Intanto però, mentre si svolgevano i negoziati di Cali, forse non tutti sanno che in parallelo si svolgevano anche una specie di controvertice in cui le voci della società civile, delle popolazioni indigene, insomma molte delle voci che almeno fin qui non sono state molto ascoltate, si riunivano e si coordnavano.

Laura Greco è andata a vedere che aria si respirava e ha scritto un articolo sull’ExtraTerrestre, l’inserto ecologista del manifesto, in cui ci racconta di un tema piuttosto controverso che non viene mai nominato nei negoziati ufficiali ma di cui si parla sottobanco da un po’. La giornalista intervista una delle animatrici del controvertice, Daniela Mendoza Olarte, sul tema dei crediti di biodiversità. Mendoza ha lavorato per molti anni in una multinazionale che si occupa di vendita e certificazione di crediti di carbonio, ovvero quei crediti venduti alle aziende per compensare le loro emissioni di Co2 e che se n’è andata dopo aver compreso, dice, “quanto fosse perversa la logica di monetizzazione della natura”.

A quel punto ha iniziato a lavorare per una Ong che si chiama Censat e ora partecipa al controvertice di Cali.

Leggo: “Daniela, lei che li hai visti da vicino, può spiegarci cosa sono i crediti di biodiversità e che tipo di impatto potrebbero avere sulle comunità locali?

Mendoza: I crediti di biodiversità sono un meccanismo puramente economico, simile ai crediti di carbonio, che permette al settore privato, e anche agli Stati, di investire nella mercificazione della natura, sostenendo che si tratta di una forma di sostegno alla protezione della biodiversità.

In pratica le aziende che hanno attività estrattive, e che generano un impatto in qualsiasi parte del mondo, possono compensare le loro azioni distruttive e contaminanti attraverso l’acquisto di crediti per la biodiversità, dando soldi per progetti che proteggono una porzione di foresta, un fiume o un qualsiasi ecosistema. Questi progetti si dovrebbero realizzare in territori in cui vivono delle comunità, e dovrebbero essere gestiti da grandi Ong, da imprese o dallo Stato.

Nel caso della Colombia, si inserirebbero in un contesto in cui storicamente esiste un conflitto molto forte relativo all’accaparramento di terra, con un conseguente problema di disuguaglianza sociale. Questo tipo di iniziative hanno bisogno di terra, e porterebbero ancora una volta le comunità a lottare per rivendicare i loro diritti a gestire in autonomia i loro territori”.

Successivamente la giornalista chiede alla collega di Daniela Mendoza, Linda Gonzalez: “Come si sta discutendo il tema dei crediti di biodiversità all’interno della Cop16, quali sono gli interessi in campo?

Gonzalez: In questa Cop16, nella parte ufficiale dei negoziati, nella Zona Blu, la questione della compensazione della biodiversità o dei crediti per la biodiversità non viene realmente discussa come punto ufficiale dell’agenda. Tuttavia, negli spazi sotterranei, nelle conversazioni, nei corridoi, nei gruppi di contatto più interni, le imprese e i funzionari statali affrontano questo tema.

Quello a cui stiamo assistendo è una vera e propria azione di lobby che tenta lentamente di introdurre concetti nuovi e proposte che non possono evidentemente ancora occupare uno spazio ufficiale perché incontrerebbero troppe resistenze. Tuttavia potremmo trovare il tema dei crediti di biodiversità nel documento finale, senza che questo sia stato chiaramente affrontato dai delegati nelle sessioni ufficiali.

L’intervista è abbastanza lunga e spiega anche come alcuni stati occidentali potrebbero tentare di controllare aree naturali dell’Amazzonia o di alcuni paesi africani con la suca della gestione della biodiversità, andando in contrasto con i diritti delle popolazioni locali.

È un tema, questo, che ancora non entra troppo nelle nostre agende mediatiche, ma potrebbe farlo a breve. L’opinione delle intervistate è molto critica, ma devo dire abbastanza condivisibile. Purtroppo viviamo in un sistema che continua a credere di poter risolvere tutto affidandosi al mercato, e allora se c’è una cirsi della biodiversità, creiamo un mecato della biodiversità.

Solo che non funziona così. Senza che vi stia a citare Einstein e la mentalità che genera i problemi ecc, ma restando anche su questioni meno filosofiche, abbiamo visto come già i crediti di carbonio non funzionino granché e come seocndo un’inchiesta del Giardian il 97% dei progetti che emettono crediti di carbonio siano fuffa.

Con la biodiversità il discorsi si fa ancora più spinoso perché, se la CO2 immessa in atmosfera tende a spalmarsi e mogeneizzarsi nell’atmosfera del pianeta grazie alle correnti, per la biodiversità questo non vale. Non è che io posso devastare una valle in Italia e finanziare un progetto di rinaturazione in Mozambico e le due cose fanno pari. 

Non posso estinguere un uccello qua e proteggere un panda dall’altra parte del mondo. Non funziona così. Quindi ecco, stiamo attenti quando proponiamo soluzioni. E grazie agli attivisti e attiviste che ce lo ricordano.

Intanto in Spagna continua la macabra conta dei danni e dei morti. Sono più di 200 morti solo nella provincia di Valencia, ma il dato più preoccupante è quello riportato da El Diario, di circa 1300 dispersi. Quindi ecco, il numero finale potrebbe essere molto molto più alto, purtroppo. E i danni sono ancora incalcolabili per quello che è stato un evento unico nel suo genere.

Armando negro su L’Indipendente però fa notare come, a differenza di quello che raccontano i titoli di molti giornali, in fin dei conti la città di Valencia abbia retto abbastanza bene il colpo dell’inondazione, e siano stati soprattutto i paesi vicini ad aver avuto conseguenze devastanti. Cosa che se confermata mostrerebbe che in fin dei conti la strategia di adattamento del capoluogo avrebbe funzionato anche in presenza di un fenomeno estremo come quello che l’ha colpita.

In parallelo ai lavori frenetici di salvataggio e contenimento dei danni però, procede la rimozione del problema. Molti giornali tornano a parlare di maltempo, di meteo estremo, evitando di citare la crisi climatica e sui social, ma anche su alcuni giornali circolano notizie che tendono a ridimensionare l’accaduto o ad incolpare altro e altri. 

Ad esempio circola la notizia della grande alluvione di Valencia del 1957 Il messaggio che correda spesso questo genere di post o di articoli è: vedete, ha sempre piovuto, ma allora non si parlava di cambiamento climatico.

L’altra notizia che circola, più o meno negli stessi circuiti, è invece la teoria che vuole le inondazioni collegate agli esperimenti di cloud seeding nel nord del Marocco, che mesi fa preoccupavano i meteorologi spagnoli. In questo caso il messaggio è “vedete, non c’entra il cambiamento climatico, è colpa della geoingegneria”.

Entrambe queste notizie sono delle mezze verità: l’alluvione del 1957 di Valencia è reale, , evento reale e drammatico chiamato Gran Riada, in cui morirono almeno 81 persone e Valencia finì sott’acqua per l’esondazione del fiume che l’attraversava e che proprio dopo quell’evento si decise di deviare facendolo passare fuori dalla città. ma in quel caso si trattò di un fenomeno meteo più raro e di per sé più pericoloso, ovvero una tempesta mediterranea, e caddero 300mm di pioggia in 24 ore. Questa volta si è trattato di un fenomeno piuttosto comune, una depressione atmosferica, resa devastante proprio dalle condizioni climatiche anomale, e in più sono caduti 450 mm di pioggia in 8 ore. Oltre a ciò, il fatto che alcune cose possano essere già successe, non toglie che l’attuale potenza e frequenza con cui si presentano oggi siano dovute alla crisi climatica.

Anche la seconda notizia parte da un fatto reale, ovvero il programma di inseminazione artificiale delle nuvole da parte del governo marocchino per far piovere in zone molto aride, ma la correlazione con il nubifragio è priva di ogni fondamento scientifico. 

I giornali italiani – che poi, facciamo i nomi, il Messaggero in questo caso, più altri siti minori – riportano un articolo di Euroweeklynews in cui si dice che ci sarebbe un report dell’agenzia meteo spagnola el Tiempo in cui dei meteorologi si dicevano preoccupati per gli esperimenti di geoingegneria in Marocco. In realtà, come già riportano diversi quotidiani e siti di fact-checking, El Tiempo non è solo un sito di previsioni meteo quello a cui si fa riferimento è un banale articolo, in cui non parla nessun esperto meteo. E soprattutto si parla di come il cloud seeding in Marocco potesse cambiare il meteo nelle città spagnole di Ceuta e Melilla. Che sono due città spagnole… in territorio marocchino!

Quindi non esiste nessun report di climatologi preoccupati degli effetti del cloud seeding marocchino in Spagna e l’unico articolo che ne parla fa riferimento a due cittò spagnole che però stanno in Marocco!

Il cloud seeding esiste, ovviamente, non è niente di segreto, ma ha effetti molto molto limitati, parliamo di un raggio di massimo 2 km. Poi possiamo essere o non essere d’accordo con l’utilizzo di questa tecnica, ma di certo non può scatenare eventi come quello di Valencia.

Qualche giorno fa intervistato da Benedetta Torsello su ICC Cristiano Bottone, ideatore del sistema Attenti al meteo e colui che ha portato in Italia il movimento della Transizione notava come ci sia una sempre più diffusa rimozione collettiva del Cambiamento climatico, che procede di pari passo con l’avanzare della crisi. 

Più diventa evidente che il clima sta cambiando, più aumenta in qualche modo questo sforzo cognitivo collettivo di negarlo. Se ci pensate è paradossale trovare sulle stesse pagine notizie che dicono che va tutto bene, che le alluvioni a Valencia ci sono sempre state, e altre che dicono che è tutta colpa della geoingegneria e che stanno manipolando il clima. Della serie, va bene qualsiasi versione, anche versioni che si contraddicono, pur di eliminare dall’equazione il cambiamento climatico derivante dalle nostre azioni.

E invece dovremmo tenercelo dentro, anche se fa paura, anche se ci fa sentire impotenti. Perché è in assoluto il singolo fenomeno più studiato a livello scientifico della storia, e ormai i dubbi sono davvero quasi insignificanti. E per quanto sia sano nutrire dubbi su tutto, e continuare a studiare, ci conviene anche considerare questa cosa come reale. Molto reale. 

Del tipo: è possibile che la realtà sia solo una simulazione e che buttandomi da 4° piano di un palazzo io riesca a volare se ci credo veramente? Sì, è possibile. Ma nel dubbio, eviterei di provare.

Insomma, anche se è più rassicurante pensare che questa cosa non esiste, o che esiste ma è tutta colpa di qualche cattivo, perché ci toglie il peso della responsabilità, temo che la situazione non cambierà da sola. E solo se ne prendiamo atto, e abbiamo il coraggio di guardare per un po’ nell’abisso, possiamo trovare la forza per cambiare. Sia individualmente che collettivamente.

A proposito di clima e rimozione, segnalo anche che è uscito l’ultimo report di Global Witness in 11 anni oltre 2000 persone sono state uccise perché protestavano per il clima. E solo l’anno scorso 196 attivisti per l’ambiente sono stati ammazzati nel mondo. Un dato drammatico, e anche simbolico perché credo che ci sia un legame di fondo fra la rimozione psicologica del problema e in parte quella fisica di chi lo indica.

Ricordo una frase che mi colpì molto di Alessandro Pertosa, del MDF, che mi fece notare come abbiamo scelto, come nome per i luoghi in cui spesso abitiamo nelle nostre città, “appartamenti”, che viene da apartarse, ovvero stare in disparte. Abitiamo in luoghi in cui si vive appartati. 

Ma non è l’unico modo di vivere, di abitare. Con un editoriale del nostro direttore DT oggi inauguriamo un nuovo filone di approfondimento sull’abitare collaborativo. Vi leggo qualche paragrafo dell’articolo, e vi invito ad approfondire:

“Si abita una casa privata, un palazzo, un piccolo paese o una grande città. Si abita un Pianeta. Si abitano gli spazi, ma si abita anche il tempo. Si indossano abiti che vengono abitati e si indossano ruoli che vengono abusati. L’abitare ecologico, consumistico, funzionale, eccessivo è alla base della nostra vita, di ognuna e ognuno di voi. “E quindi – vi starete forse chiedendo – in tutto questo dissertare e abitare, che ruolo ha l’abitare collaborativo? In pratica, Daniel, cosa ci stai cercando di dire?”.

Voglio dirvi che nell’era dell’individualismo, dei single, del consumismo e della parcellizzazione della nostra società, diventa vitale ripensare l’abitare. Per questo, insieme al nostro partner MeWe – Abitare collaborativo, abbiamo deciso di iniziare un viaggio che ci porterà nei prossimi mesi a sviscerare questo concetto dai diversi punti di vista: edile, sociale, economico, ecologico, psicologico, umanistico, legale. Lo faremo con articoli, video, podcast e una guida pratica alle soluzioni possibili”.

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