11 Nov 2024

Clima: inizia Cop29 a Baku, ma gli Usa usciranno dall’Accordo di Parigi – #1017

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Oggi inaugura Cop29, la ventinovesima conferenza sul clima delle Nazioni Unite, a Baku, in Azerbaijan. Ma un po’ come per la conferenza sulla biodiversità, sembra regnare un generale disinteresse che potrebbe favorire le aziende del fossile. Noi seguiremo tutta la conferenza con degli inviati speciali e una rubrica dedicata, Linea a Baku, che oggi vi presentiamo. Parliamo anche di altre cose importanti da sapere sul clima, da Trump che vuole già uscire dall’accordo di Parigi alla Cina che invece accelera con la decarbonizzazione. Di altri effetti collaterali della rielezione di Trump. E ancora delle organizzazioni islandesi che vogliono vietare la caccia alle balene, di una nuova grande riserva marina nel Mar Adriatico e delle soluzioni al problema della mobilità inquinante. 

Oggi a Baku, capitale dell’Azerbaijan, inizia COP29, la ventinovesima conferenza sul clima delle Nazioni Unite, e il mondo non potrebbe sembrare più disinteressato alla questione. Per ragioni anche molto diverse fra loro. La mia sensazione, per una volta partiamo dalle sensazioni, poi vediamo anche i fatti, è che sulla questione climatica il mondo sia diviso in 3, all’incirca. Non dico in 3 parti uguali, non so nemmeno quantificare, però perlomeno in 3 tipologie.

C’è una parte di mondo che crede che il cambiamento climatico non esista, o che non sia causato dagli esseri umani o che non sia così importante, con tutte le varie sfumature. Quella parte di mondo pensa che la COP sia una gran perdita di tempo, se va bene, o che sia un coacervo di lobbisti e gente che vuole ingannarci con la storia del cambiamento climatico.

Poi c’è una parte di mondo che è impegnato in altre questioni, travolto da nuovi o vecchi conflitti, in lotta per la sopravvivenza e quindi comprensibilmente non si preoccupa troppo delle conferenze sul clima. Quella parte di mondò, ahinoi, spesso è anche quella che paga e pagherà le conseguenze più amare della crisi climatica, ma che non se ne preoccupa per questioni più stringenti. Come ci raccontava Giovanni Mori nell’ultima puntata di INMR+, c’è un numero limitato di questioni per cui il nostro cervello riesce a preoccuparsi allo stesso momento, e quindi se c’è in gioco la sopravvivenza giornaliera, capite che qualsiasi cosa che vada oltre una settimana diventa un pensiero superfluo, per benestanti.

E poi c’è una parte di mondo di persone molto interessate alla questione, magari anche attivisti/e, che è preoccupata, o molto preoccupata dalla crisi climatica, o è attiva per mitigarla in qualche modo o con qualche progetto. Quelle persone mediamente non si aspettano più granché dalle COP e da quel tipo di processo istituzionale. 

Quindi ecco, le COP sembrano interessare piuttosto poco al momento alle persone. E anche i politici e i media sembrano meno interessati alla questione. Che immagino sia tanto una causa quanto una conseguenza del disinteresse generale. 

Fatto sta che a Baku parteciperanno pochi politici di rilievo. Persino Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione europea e sempre presente alle COP ha dato forfait. 

Come racconta Jennifer Ranking sul Guardian, l’assenza di Ursula von der Leyen dal summit sul clima Cop29 a Baku è stata definita un “segnale fatale” da alcuni osservatori, e solleva dubbi sull’impegno dell’UE nella lotta alla crisi climatica. La Commissione Europea ha confermato che von der Leyen, in fase di transizione per l’inizio del suo secondo mandato, non parteciperà ai colloqui per concentrarsi sui suoi doveri istituzionali.

Anche altri leader, come Emmanuel Macron, Joe Biden e Luiz Inácio Lula da Silva, hanno annullato la loro partecipazione, mentre altri paesi come Cina e Giappone non invieranno rappresentanti di alto livello. 

Su Valori Andrea Barolini arriva a chiedersi “Ma come facciamo a crederci ancora?”. E di certo non aiuta il fatto che, come racconta nell’articolo, la Cop29 di Baku sarà la seconda di fila ospitata da un petrostato, dopo la Cop28 di Dubai. E c’è già un mezzo scandalo che circonda l’organizzazione del summit. Infatti alcuni attivisti dell’organizzazione non governativa Global Witness hanno contattato Elnur Soltanov (vice-ministro dell’Energia dell’Azerbaigian e Presidente di COP29) spacciandosi per emissari di grandi gruppi dei settori petrolifero e del gas e chiedendogli di agevolare accordi per lo sviluppo delle fonti fossili, in cambio di sponsorizzazioni per il summit. 

Nella registrazione il dirigente sembra accettare di buon grado la proposta e afferma – pur dichiarando che il gas dovrebbe essere considerato una fonte di transizione – che in futuro una certa quantità di produzione di idrocarburi rimarrà «forse per sempre». I finti emissari di Global Witness sono riusciti perfino a farsi ricevere da un alto dirigente della compagnia petrolifera nazionale Socar, avviando discussioni su possibili opportunità per nuovi investimenti. Il tutto facilitato proprio da Soltanov, che nella registrazione, riferisce la Ong, dichiara: «Ci sono molte joint venture che potremmo creare. Socar commercia petrolio e gas in tutto il mondo, anche in Asia».  

Insomma, il mood, le sensazioni che circondano COP29 non sono delle migliori. Eppure noi abbiamo scelto, com ICC e in particolare in questa rassegna, di seguire molto da vicino lo sviluppo dei negoziati. Fra un attimo vi racconto come, ma prima fatemi spiegare perché.

Perché innanzitutto c’è un grosso rischio a mollare di colpo tutte le attenzioni su questo tipo di eventi. E il rischio è che diventino un luogo dove non solo non si prendono decisioni interessanti per il clima, ma dove si fa esattamente l’opposto. Come ha dichiarato al Guardian un esponente dei Verdi tedeschi, “Lasciando la scena ad autocrati come Aliyev (presidente azero), rischiamo di trasformare la conferenza sempre più in uno spettacolo di greenwashing per auto-promozione piuttosto che in un’azione climatica autentica.”

E poi la nostra disattenzione rischia di diventare una ulteriore scusa per il disimpegno climatico da parte di governi e aziende. E un ulteriore motivo per abbassare l’ambizione e l’asticella.

Quindi, nonostante le premesse non siano un granché, pensiamo sia importante continuare a seguire e raccontare questo evento. E lo faremo in grande stile, con inviati in loco e una rubrica dedicata all’interno di questa rassegna, grazie alla collaborazione con il progetto “Racconta il clima alla COP29″ dell’associazione Viracao&Jangada del nostro amico e Ashoka Fellow brasiliano Paulo Lima.

In pratica un gruppo di giovani reporter ci racconterà in maniera dettagliata quello che avviene a Baku, con interventi e interviste esclusive. Durante la prima settimana di negoziati lo faranno dall’Italia, e con una cadenza non quotidiana, mentre nella seconda settimana saranno presenti in loco, a Baku, e la rubrica diventerà quotidiana.

La rubrica si chiamerà Linea a Baku e allora ho chiesto a Viola Ducati, che sarà la nostra principale voce narrante da Baku, di presentarcela e di presentarci il team. A te Viola

Audio disponibile nel video / podcast

Nel frattempo, però, succedono altre cose legate al clima. Il NYT rivela che Donald Trump e il suo team hanno già preparato l’ordine esecutivo sull’abbandono dell’Accordo di Parigi, lo storico accordo firmato nel 2015 al termine di COP21 che per la prima volta impegna i paesi del mondo a fare tutto il possibile per restare entro il grado e mezzo di innalzamento medio delle temperature.

Oltre a ciò, sempre secondo il quotidiano statunitense, Trump sarebbe pronto a ridurre l’estensione di alcuni parchi naturali per lasciare spazio ad attività estrattive, interrompere la parziale pausa in vigore sull’esportazione di gas naturale liquefatto verso alcuni paesi e impedire che i singoli Stati – ad esempio, la California – possano darsi standard di riduzione delle emissioni più alti di quelli nazionali.

Notizie opposte, molto più incoraggianti, arrivano invece dalla Cina. Venerdì, l’8 novembre, il governo cinese ha annunciato, in chiusura dell’a riunione dell’assemblea del Popolo, che è stata approvata una nuova legge per “promuovere la neutralità carbonica” che dovrebbe garantire al Paese di stare entro i tempi della sua roadmap, forse persino anticiparli, nel decarbonizzare la sua economia.

Il governo di Xi Jinping infatti si è impegnato a raggiungere il picco delle emissioni entro il 2030 e ad azzerare le emissioni nette entro il 2060. La Cina al momento è il paese con le più alte emissioni di gas serra, responsabili del riscaldamento globale, ma è anche leader nel settore dell’energia pulita, con una capacità eolica e solare che è quasi il doppio di quella di tutti gli altri paesi del mondo messi insieme.

Secondo l’agenzia di stampa statale Xinhua, “la nuova legge sull’energia permetterà di arrivare rapidamente al picco delle emissioni e favorirà la decarbonizzazione dell’economia”.

Come abbiamo già osservato altre volte, un sistema autoritario e non democratico come quello cinese, che sicuramente è soffocante dal punto di vista delle libertà individuali, ha però alcuni vantaggi quando si parla di politiche climatiche: uno è che la politica conta realmente qualcosa, ha il controllo sui mercati e quello che decide, tendenzialmente fa. Il secondo è che è meno soggetto alla variabilità delle democrazie e questo permette di progettare a lungo termine.

Ovviamente non penso che il modello cinese sia la soluzione, ma osservare queste cose dovrebbero essere uno stimolo per evolvere la nostra democrazia verso forme più avanzate, meno schiave della paura e della pancia.

Ovvio è che il tempo stringe dal punto di vista del clima. Il 7 novembre il Servizio europeo sul cambiamento climatico di Copernicus ha affermato che il 2024 sarà quasi sicuramente l’anno più caldo mai registrato e il primo a superare la soglia degli 1,5 gradi in più rispetto all’era preindustriale. E se la politica e parte della società sembrano voler scordarsi di questa cosa, dobbiamo impegnarci a ricordarglielo.

Abbiamo accennato alla questione degli accordi di Parigi, ma la rielezione di Trump sta avendo anche altri effetti. Molti giornali stanno parlando dell’Ucraina come il primo fronte che sarà interessato dall’azione del nuovo presidente, che in Campagna elettorale ha detto decine se non centinaia di volte che avrebbe messo fine al conflitto in 24 ore, senza mai spiegare come. 

Ora alcuni giornali sostengono che l’entourage di Trump sia già al lavoro e forse che ci siano già stati contatti con Putin. Il Wall Street Journal delinea l’impalcatura a cui stanno lavorando i consiglieri del tycoon: una zona demilitarizzata di 1300 km lungo l’attuale linea del fronte, quindi con grosse concessioni territoriali alla Russia. Nessuna presenza militare americana e, soprattutto, l’impegno dell’Ucraina a non entrare nella Nato per almeno 20 anni. La rinuncia all’ingresso nell’Alleanza Atlantica, che Zelensky inserisce tra le priorità del proprio Piano per la vittoria, verrebbe ricompensata con la fornitura di armi americane: Kiev fuori dalla Nato ma in grado di combattere in caso di nuovo conflitto.

Altra notizia che ha fatto il giro del mondo è quella della figlia trans di Elon Musk che ha annunciato che abbandonerà il paese, che non ritiene più sicuro. 

Sarebbe una notizia da spiegare meglio, e magari lo faremo perché la scelta della figlia di cambiare genere è fra stato uno dei motivi che hanno avvicinato Musk a Trump, perché alcuni stati americani permettono il trattamenti farmacologico della disforia di genere anche fra adolescenti dagli 11-12 anni di età, possano assumere bloccanti della pubertà e successivamente ormoni. Un tema molto dibattuto. 

Però, ecco, di certo la campagna elettorale di Trump, Vance e Musk è stata molto incentrata contro il movimento woke e contro quella che loro chiamano ideologia trans, che però facilmente può trasformarsi in una roba contro le persone trans. E come nota giustamente la ragazza su Threads, anche se le leggi promesse non verranno approvate, le persone che hanno votato Trump per questo non andranno da nessuna parte.

E pare che sia una preoccupazione non solo della figlia di Musk. Riporta Ansa che nelle ore successive all’incoronazione del tycoon hanno fatto un balzo le ricerche online su come trasferirsi all’estero. Le ricerche su Google su ‘come trasferirsi in Canada’ sono aumentate del 1.270%, quelle per l’Australia dell’820% mentre quelle per la Nuova Zelanda hanno segnato un quasi +2.000%. 

Intanto arrivano alcune notizie interessanti che riguardano i mari e i loro abitanti. In Islanda una coalizione di gruppi per la conservazione e il benessere degli animali ha chiesto al presidente islandese di impedire al primo ministro di rilasciare una nuova licenza di caccia alle balene prima delle elezioni di fine mese. 

Lo riporta sempre il Guardian. Hvalur, l’ultima azienda europea a cacciare balene, ha ottenuto all’inizio dell’anno una licenza annuale per cacciare oltre 100 balenottere, nonostante la speranza che questa pratica fosse interrotta dopo una sospensione temporanea nel 2023 per motivi di crudeltà. In generale la caccia alle balene è rimasta una cosa legata alle vecchie generazioni in islanda, e per fortuna le nuove non sembrano essere particolamente interessate.

Gruppi internazionali, tra cui OceanCare e la Whale and Dolphin Conservation, hanno scritto al presidente islandese, Halla Tómasdóttir, chiedendo di ritardare la decisione fino all’insediamento di un nuovo governo, visto che le elezioni si terranno il 30 novembre. Sostengono che una decisione affrettata sarebbe in contrasto con lo spirito democratico, considerando che la maggior parte degli islandesi è contraria alla caccia alle balene. 

Sebbene l’assegnazione di licenze per la caccia sia tecnicamente un compito amministrativo, è una questione controversa, specie perché le balenottere sono considerate vulnerabili all’estinzione dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura. Ci aggiorniamo.

In Italia invece la buona notizia è che la Commissione Generale della Pesca nel Mediterraneo ha istituito la più grande riserva marina dell’Adriatico, nel Canale di Otranto. Un traguardo – scrive Riccardo Liguori su GreenMe – raggiunto dopo anni di campagne e negoziati, guidati da MedReAct e dall’Adriatic Recovery Project, che finalmente offre una protezione concreta a questo ecosistema unico.

La nuova zona di restrizione alla pesca (FRA) si estende per oltre 1.900 km2 e prevede il divieto di pesca di fondo. Un’ulteriore area cuscinetto di circa 700 km2 sarà sottoposta a limitazioni per ridurre l’impatto della pesca.

Sabato è uscita la nuova puntata di Soluscions, il podcast per abbonati condotto da Daniel Tarozzi. Ospite Ugo Bardi, si parla di mobilità.

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