Clima, è già un 2024 da record. Per cambiare rotta dobbiamo sconfiggere la povertà – #983
Torniamo a parlare di clima, perché le ultime settimane sono state caratterizzate da alcuni eventi meteorologici estremi, uno in particolare anche piuttosto bizzarro e raro, e ci sono un po’ di considerazioni da fare.
Ma partiamo come al solito col dare le notizie. In Europa centrale, racconta il Post, stiamo assistendo ad alcune delle peggiori alluvioni degli ultimi decenni, con almeno 16 morti, alluvioni, infrastrutture crollate, sfollati e il solito corollario di disastri legati a questo tipo di eventi. Molti dei danni e dei morti sono concentrati in Romania, ma ci sono disagi anche in in particolare Polonia, Austria, Repubblica Ceca e Slovacchia.
Le alluvioni sono causate dalla tempesta Boris, che si è formata il 12 settembre, e che per via della sua conformazione è particolarmente violenta e persistente. In pratica le alte temperature del mar Mediterraneo e del mar Nero di questa estate hanno creato questo fronte di aria molto umida, come una spugna, che arrivava da sud, che si è scontrata con una ondata di aria fredda da Nord dando origine alla tempesta. Tempesta che fra l’altro era circondata a 360° da zone di alta pressione, che quindi hanno fatto una specie di recinto e hanno fatto sì che restasse ferma in Europa centrale, continuando a colpire ripetutamente le stesse zone.
Risultato è che molti fiumi sono esondati, molte infrastrutture danneggiate, molte persone e aziende rovinate. In Romania, 6.000 aziende agricole sono state devastate e circa 300 persone evacuate, mentre in Polonia e Repubblica Ceca numerosi ponti sono crollati, e centinaia di migliaia di persone sono rimaste senza elettricità. Anche in Austria, forti piogge hanno provocato l’evacuazione di oltre 1.100 case.
Ma l’Europa non è l’unico continente colpito da eventi meteo estremi. Proprio in queste ore il tifone Bebinca sta colpendo Shanghai, è il tifone più forte dal 1949 a colpire la zona, e i 25 milioni di abitanti della città sono chiamati in queste ore a restare in casa per precauzione.
Mentre in Sahara sta avvenendo un fatto davvero raro e curioso. Sta piovendo. Parecchio. E dovrebbe continuare a farlo nelle prossime settimane. Leggo su Rivista Africa che “vaste regioni desertiche al confine tra Algeria, Libia e Tunisia sono interessate da settimane da anomale, per non dire eccezionali, precipitazioni record.
Secondo gli esperti del Climate prediction centre americano, in molti luoghi del Sahara cadrà più pioggia in questi giorni che negli ultimi due anni e questo è dovuto principalmente al riscaldamento delle acque superficiali dell’Oceano Atlantico e del mar Mediterraneo. Il deserto del Sahara riceve in media meno di 2,5 cm di pioggia all’anno. Questi temporali intensi quindi, che potrebbero abbattersi nel giro di poche settimane, sono un fenomeno estremamente raro, che statisticamente si verifica una volta ogni mille anni.
Ora, tutti questi eventi, pur localizzati in aree diverse, hanno un’origine comune: il cambiamento climatico. Che sta rendendo più intensi e frequenti fenomeni come tempeste, tifoni e ondate di calore, per via delle temperature elevate dell’atmosfera e delle acque oceaniche. Più calore negli oceani significa più energia per tempeste, tifoni e inondazioni,, significa un’atmosfera più satura d’acqua e pronta a riversarla a terra in maniera spesso violenta.
Se allarghiamo ancora di più l’osservazione a livello globale, i dati del 2024 ci dicono che la temperatura media ha raggiunto nuovi record. Secondo i dati di Copernicus, l’estate 2024 è stata la più calda di sempre sia a livello globale sia a livello europeo. Ed è una progressione impressionante quella delle temperature, al punto che da un po’ di tempo gli scienziati del clima si chiedono se non dovremmo ulteriormente rivedere le previsioni e i modelli climatici.
Insomma, non c’è dubbio che se vogliamo continuare ad abitare su un pianeta dal clima vagamente stabile e prevedibile, dobbiamo immediatamente cambiare rotta. Al tempo stesso, sappiamo che cambiare rotta non è così semplice, all’interno di una società complessa e globalmente interconnessa come la nostra. E sappiamo che nel farlo dobbiamo tenere presenti molti fattori.
Vi porto ad esempio di questo ragionamento un articolo molto interessante scritto da Marco Knowles, che è la persona che guida il team di Protezione Sociale della FAO (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura).
L’articolo si chiama “”Affrontare il cambiamento climatico sarà una vittoria di Pirro se perdiamo di vista i poveri.” e spiega proprio come le politiche di contrasto al cambiamento climatico possono funzionare solo se sono strettamente collegate a misure di protezione sociale nei luoghi più poveri del mondo.
L’autore fa un esempio che vi riassumo, che secondo me rende molto l’idea. Parte da un dato, che è quello della Banca Mondiale che prevede che il cambiamento climatico potrebbe spingere fino a 135 milioni di persone nella povertà entro il 2030, per via dei suoi effetti sui raccolti soprattutto nei paesi più poveri.
Il paradosso però è che anche le politiche per contrastare il cambiamento climatico, se non sono studiate bene, possono causare fame, specialmente per i piccoli agricoltori nei paesi più poveri.
L’esempio è la regolamentazione dell’Unione Europea sui prodotti senza deforestazione introdotta nel giugno 2023. Una normativa intelligente, che vuole garantire che i prodotti acquistati e consumati in Europa non contribuiscano alla deforestazione dovuta all’espansione delle terre agricole per la produzione di carne bovina, legno, cacao, soia, olio di palma o caffè. Quindi è una cosa buona no? Sì, ma.
Perché ridurre la deforestazione, spiega l’autore, è essenziale per combattere il cambiamento climatico e qui non ci piove, e può aiutare 1 e 2 miliardi di persone che dipendono dalle foreste per il loro sostentamento. Il problema però è che i costi di queste politiche ricadono in modo sproporzionato sui poveri delle zone rurali che non hanno le risorse per adeguarsi. Si stima che circa un terzo del disboscamento infatti sia condotto da piccoli agricoltori e allevatori, che anche per via del cambiamento climatico che riduce i rendimenti agricoli non trovano di meglio che disboscare nuove aree per allargare i loro terreni agricoli e poter continuare a sopravvivere.
Quindi, che possiamo fare? L’articolo ovviamente non suggerisce di interrompere le politiche anti disboscamento, tutt’altro, ma di affiancare ad esse delle misure che permettano ai piccoli agricoltori di avere una sorta di cuscinetto, attraverso programmi di protezione sociale. Si tratta di aiuti economici che possano ad esempio fornire nel breve termine un reddito regolare in compensazione per eventuali impatti sociali negativi delle politiche climatiche e, a lungo termine, combinando questi pagamenti con supporto tecnico, formazione e interventi per favorire i mezzi di sostentamento, aiutando le persone ad adattarsi e prosperare sotto i nuovi regimi politici.
Questo approccio, spiega ancora l’articolo, è già in atto in diversi paesi. In Cina, una legge sulla protezione delle foreste ha ridotto l’accesso alle risorse forestali per circa un milione di lavoratori pubblici del settore forestale e 120 milioni di famiglie rurali. Per mitigare gli impatti, i dipendenti pubblici hanno ricevuto assistenza, come servizi di collocamento, indennità di disoccupazione e pensioni. In Brasile e Paraguay, programmi di protezione sociale e agricoli stanno aiutando le famiglie rurali ad adottare pratiche agricole più sostenibili e redditizie.
Insomma, ogni volta che immaginiamo delle politiche climatiche, è utile chiedersi: chi verrà danneggiato da queste politiche? Ci sono fasce fragili che subiranno alcuni effetti peggiorativi? E se sì, come possiamo fare ad alleviare o azzerare questi effetti? Penso che solo se rispondiamo a queste domande vedremo politiche climatiche efficaci. Altrimenti, il rischio è di osservare sempre più scetticismo, negazionismo e rivolte contro la transizione ecologica.
Mentre le voci sui negoziati a Gaza continuano a rincorrersi, ma la situazione resta all’incirca la stessa ormai da diverse settimane, un articolo del Post ci ricorda che nemmeno quest’anno a Gaza ricomincia la scuola per i bambini e le bambine palestonesi che abitano quella striscia di terra.
Non so perché, ma è una notizia che mi ha colpito allo stomaco. Anzi, lo so perché. Perché mi trovo proprio in questi giorni alle prese con l’inizio della scuola materna di mio figlio, e quindi conosco il carico emotivo, di aspettative, di emozioni che la scuola riveste nella vita di un bambino e di un genitore.
La sua assenza marca un vuoto gigantesco per tutti i bambini di quella Terra, che segna una distanza incolmabile con quello che avviene in tante altre parti del mondo. Segna una anomalia difficile da ricucire.
La scuola, racconta il Post, doveva ricominciare lunedì scorso , ma da mesi le scuole sono chiuse a causa della guerra e le lezioni rimarranno ferme per il secondo anno di fila. Nel frattempo molti bambini hanno iniziato a lavorare per aiutare le famiglie, e gli studenti universitari hanno dovuto rinunciare a borse di studio o scambi culturali già confermati.
Secondo l’UNICEF il 9 settembre scorso nella Striscia di Gaza 45mila bambini di 6 anni avrebbero dovuto iniziare le scuole elementari, e altri 625mila avrebbero dovuto frequentare le classi successive. In seguito all’attacco di Hamas dello scorso 7 ottobre e alla successiva risposta militare di Israele, molte scuole nella Striscia sono state chiuse e convertite in rifugi per i quasi due milioni di sfollati palestinesi che hanno lasciato le loro case per sfuggire ai continui bombardamenti e attacchi dell’esercito israeliano.
Inoltre, oltre il 90 per cento degli edifici scolastici a Gaza è stato danneggiato dai bombardamenti: quasi tutti risultano inagibili, e potrebbero volerci anni per ricostruirli.
Lo scorso 10 agosto, per esempio, un bombardamento israeliano su una scuola-rifugio nel nord della Striscia aveva ucciso quasi cento persone. Israele sostiene che gli edifici attaccati siano usati come centri operativi dai miliziani di Hamas e del Jihad Islamico. Hamas ha sempre negato di usare edifici civili per le proprie operazioni.
Per fortuna, esistono una serie di programmi alternativi, formali e informali che provano sopperire parzialmente e come possono all’assenza di educazione.Lo scorso agosto per esempio è partito il programma “Back to Learning” (“tornare a imparare”), gestito da varie organizzazioni umanitarie tra cui l’ONU e l’UNICEF. Un programma che inizialmente dovrebbe mettere a disposizione dei bambini spazi per giocare e stare insieme facendo attività sportive, artistiche e musicali e successivamente avviare corsi informali per imparare a scrivere, leggere e contare.
Nel frattempo, alcuni insegnanti hanno iniziato a fare delle lezioni informali, in luoghi improvvisati. Ci sono centinaia di iniziative come queste testimoniate un po’ ovunque, di insegnanti che tengono lezioni gratuite nelle loro case, oppure nelle tende dei campi profughi.
Sono ovviamente iniziative improvvisate, che per quanto utili non riescono a compensare la mancanza di un sistema educativo organizzato, mancano i libri, le penne, i quaderni e tutti gli strumenti che sarebbero necessari per imparare. Ma è meglio di niente, e forse contribuisce a dare a bambini/e un briciolo di senso di normalità, di futuro. Devo dire che p sempre commovente osservare come nei contesti più tremendi, soprattutto nei contesti più tremendi, quando si potrebbe pensare che a vincere sia l’istinto di sopravvivenza personale, il mors tua vita mea, fioriscano invece degli esempi di solidarietà disinteressata ed empatia incredibili.
Resto sul Post per una segnalazione di un articolo molto interessante che analizza quello che sapiamo sul rapporto degli altri animali, quelli non umani, e la morte. Esiste un vero e proprio campo di studi abbastanza recente che si chiama tanatologia comparata, che appunto esplora le risposte degli animali alla morte, cercando di capire se queste siano dovute a una consapevolezza della morte simile a quella umana.
Le osservazioni su elefanti, orche e scimpanzé, ad esempio, suggeriscono che alcune specie potrebbero avere un riconoscimento della morte, sebbene resti incerto se tali comportamenti siano basati su una comprensione cognitiva o istintiva.
La tanatologia comparata potrebbe fornire anche spunti preziosi per comprendere l’evoluzione della coscienza e dei comportamenti sociali tra gli animali, contribuendo a migliorare la nostra conoscenza del rapporto tra uomo e animali di fronte alla morte.
L’articolo molto lungo e ricco di esempi, alcuni davvero struggenti. Ma attenti a non struggervi troppo perché, come spiega una ricercatrice citata nell’articolo, è molto semplice proiettare sugli animali i nostri vissuti e il nostro modo di vedere il mondo, con il rischio di cadere nell’antropomorfismo, una fonte di grandi preoccupazioni nella psicologia comparata e in etologia. Comunque, lettura straconsigliata.
#clima
Al Jazeera – Typhoon Bebinca hits Shanghai, strongest storm since 1949
il Post – Perché la tempesta Boris sta facendo così tanti danni in Europa centrale
Africa – Eccezionali piogge sul Sahara
Inter Press Service – Tackling Climate Change Will Be a Pyrrhic Victory If We Lose Sight of the Poor
#Gaza
il Post – Nella Striscia di Gaza la scuola non è cominciata nemmeno quest’anno
#morte
il Post – Cosa sanno gli animali della morte?