Chiusa Al Jazeera in Israele: perdiamo una voce su Gaza – #924
Di nuovo tante novità sul fronte Gaza-Israele e dintorni. Mentre proseguono fra diversi ostacolo i colloqui fra i rappresentanti del governo israeliano e quelli di Hamas in Egitto, e mentre nelle università Usa sono arrivati a oltre 2mila gli arresti nelle università per provare a sopire le enormi proteste studentesche contro la strage di civili in atto a Gaza, oggi vi parlo di una notizia che ci riguarda abbastanza, e quando dico ci in questo caso mi riferisco a ICC, in quanto giornale. Visto che parliamo della chiusura forzata di un giornale voluta dla governo iraeliano, e quel giornale è Al Jazeera, o almeno, la sede a Gaza di Al Jazeera.
Domenica il governo israeliano ha approvato all’unanimità una legge per chiudere tutte le attività in Israele di Al Jazeera, il più famoso media in Medio Oriente. Da diversi mesi il governo attaccava Al Jazeera accusandola, spesso in maniera molto generica, di parteggiare per Hamas nella guerra in corso nella Striscia di Gaza: finora però non aveva mai adottato misure così drastiche.
Come racconta l’inviato di Repubblica paolo Brera, “Con un’inquietante scelta di tempo, il gabinetto di guerra del primo ministro Benjamin Netanyahu ha ordinato all’unanimità il blocco di tutte la attività di Al Jazeera in Israele, un provvedimento che tenterà di spegnere la principale – e una delle uniche rimaste – voci giornalistiche presenti a Gaza. Il motivo per un provvedimento così drastico è “l’incitamento all’odio” durante la guerra con Hamas, e il governo ha preso la decisione di agire proprio nel momento più delicato del negoziato sul cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi. Al Jazeera è una tv del Qatar, uno dei mediatori del negoziato fortemente contestato da Israele”.
Insomma, come avvenuto per il bombardamento del consolato iraniano a Damasco, il governo d’Israele sembra ancora una volta agire per mandare segnali politici, e magari nel dubbio ne approfitta per tappare la bocca a una voce piuttosto scomoda dal suo punto di vista.
Continua l’articolo di Repubblica: “Il gabinetto di guerra agisce in base alla legge approvata ad aprile dal parlamento israeliano. Permetteva la chiusura temporanea delle televisioni considerate una minaccia alla sicurezza nazionale durante la guerra a Gaza. Il ministro delle Comunicazioni, Shlomo Karhi, ha confermato con un tweet di avere firmato l’ordine di chiusura di Al Jazeera con effetto immediato. Il provvedimento, in base alla legge, è temporaneo: dura 45 giorni. Ma può essere prolungato di volta in volta, di altri 45 giorni, potenzialmente all’infinito. La chiusura riguarda sia il canale in arabo che quello in lingua inglese, e prevede anche lo spegnimento dell’attività web all’interno di Israele”.
Gli uffici in Israele e nei Territori occupati saranno chiusi, e tutto il materiale tecnico sarà sequestrato con l’esclusione dei cellulari e dei computer dei giornalisiti solo se non vengono utilizzati per il loro lavoro”.
Come scrive proprio su Al Jazeera Hani Mahmoud, un giornalista della testata che sta lavorando a Rafah “Questo è l’ultimo episodio di quella che sembra essere la soppressione di qualsiasi critica a ciò che sta accadendo sul terreno in tutta la Striscia. Abbiamo documentato le atrocità, gli atti di genocidio, la diffusione della carestia e gli atti che vanno contro il diritto internazionale e i diritti umani, e contro tutte le norme internazionali in termini di conduzione di guerre; e questo non è piaciuto al governo israeliano. Il divieto è percepito dalla gente qui come un modo per sopprimere questa voce che ha amplificato le voci degli oppressi e delle persone sotto occupazione. Una mossa disperata per impedire un’equa copertura sul campo”.
L’articolo di Repubblica evidenzia anche il paradosso di tutta questa vicenda è che Netanyahu sta conducendo da anni una battaglia contro l’emittente Qatarina, considerate che il Likud, il suo partito di Netanyahu, la definisce uno «strumento di Hamas» dal 2008, e il Bibi ha sostenuto più volte che i suoi che ‘inciti alla violenza’”, ma è il primo a praticare violenza, fisica, pratica, sui giornalisti e le giornaliste di Al Jazeera. Come ricorda Walid Omary, capo della redazione di Gerusalemme, dal 7 ottobre “ci sono stati più di 50 attacchi a giornalisti di Al Jazeera”. E prima ancora, il 15 maggio del 2021 la torre Al Jalaa di Gaza City che ospitava le redazioni di Al Jazeera e della Associated Press insieme ad abitazioni e uffici civili fu distrutta da un missile israeliano, con molti feriti e morti anche fra i giornalisti.
E ancora: Il giornalista Hamza Wael Dahdouh, figlio del caporedattore Wael Dahdouh, è stato ucciso il 7 gennaio di quest’anno, dopo che era sopravvissuto all’attacco con un drone che il 15 dicembre aveva ucciso il cameraman Samer Abudaqa a Khan Younis. E forze israeliane hanno ucciso la reporter senior Shireen Abu Akleh in Cisgiordania l’11 maggio del 2022, omicidio che commosse e indignò il mondo, anche perché venne uccisa mentre era in diretta davanti alle telecamere e girava un servizio a Jenin.
Ora, facciamo qualche considerazione. Al Jazeera è un media particolare. Come racconta il Post, “non è un’entità unica: ha sia un canale in lingua araba che uno in inglese (i due maggiori), che hanno dirigenze, giornalisti, uffici e programmi diversi. Pur affermando di seguire la stessa linea editoriale, usano toni e approcci anche molto differenti (in generale quello inglese è considerato più moderato e imparziale rispetto a quello arabo). Questa doppia faccia è in parte anche il motivo per cui da quando è stata fondata (in Qatar, nel 1996) l’emittente è stata sia al centro di numerose polemiche che anche pluripremiata anche a livello internazionale per i suoi servizi.
Quindi, ecco la sua chiusura è una roba grossa. E grave. E non solo per un fatto simbolico, ovvero il messaggio che il governo israeliano manda al mondo, di voler togliere di mezzo voci diciamo difformi rispetto alla narrazione che vorrebbe imporre. Ma anche proprio per una questione pratica. Al Jazeera era uno dei pochi media rimasti operativi nella Striscia di Gaza, invasa ormai da mesi dall’esercito israeliano. L’unico forse abbastanza grande da poter portare la voce dei civili palestinesi massacrati e bombardati quotidianamente.
Ho trovato comunque interessante, leggere nei vari articoli che mi sono capitati sotto mano, una condanna abbastanza esplicita di questo gesto da parte di giornali anche abitualmente con posizioni abbastanza vicine ad Israele come appunto Repubblica. Non so dirvi cosa questo voglia dire, ma insomma, è interessante.
Restiamo ancora sul Post, che abbiamo citato sul finire della notizia precedente, per parlare delle enormi alluvioni che stanno sconvolgendo il Brasile. In pratica, a partire da sabato 27 aprile una serie di piogge torrenziali e forti venti si sono abbattuti nello stato di Rio Grande do Sul, all’estremo sud del Brasile vicino al confine con l’Argentina, causando alluvioni particolarmente difficili da gestire.
Secondo le autorità brasiliane almeno 55 persone sono morte a causa delle inondazioni e delle frane provocate dalle piogge, e la polizia sta indagando su altre sette morti che sembrano a loro volta essere collegate. Un’altra persona è morta nel vicino stato di Santa Catarina, sempre nel sud del paese, dopo che l’auto in cui si trovava è stata trascinata via dalla corrente.
Settantaquattro persone risultano ancora disperse, oltre 25mila hanno dovuto lasciare le proprie case e 500mila sono rimaste senza accesso all’elettricità e a una fonte d’acqua potabile. In alcune aree le inondazioni sono così gravi che intere città sono rimaste completamente isolate, con strade e ponti distrutti.
I giornali parlano delle inondazioni più grandi e gravi degli ultimi 80 anni. Più della metà delle 497 città che compongono lo stato sono state colpite dalla tempesta, ma la situazione è particolarmente complessa nella zona di Bento Gonçalves, dove una diga idroelettrica è crollata uccidendo 30 persone e un’altra rischia di crollare a causa dell’eccessivo innalzamento del livello dell’acqua. A Porto Alegre, la capitale dello stato, i soccorritori hanno dovuto usare moto d’acqua per spostarsi lungo le strade alla ricerca dei dispersi. L’aeroporto internazionale della città ha sospeso tutti i voli fino a data da destinarsi.
Come ha raccontato il climatologo Francisco Eliseu Aquino, la regione è sempre stata interessata da eventi climatici intensi, dati dalla collisione di masse d’aria tropicali e polari, ma che questi eventi si sono intensificati a causa dei cambiamenti climatici. L’anno scorso furono in totale 75 le persone uccise in tre distinte inondazioni. Quest’anno, un’unica inondazione ha fin qui ucciso almeno 55 persone ma il bilancio sembra essere destinato a salire.
Restiamo nel continente americano ma ci spostiamo verso Nord. Un lungo articolo del Guardian a firma dell’inviato Michael Gonzalez racconta delle politiche molto aggressive dello stato del Texas lungo il confine USA-Messico, che hanno eroso non solo i diritti umani dei migranti che cercano asilo negli USA, ma hanno anche degradato l’ambiente, con una distruzione che ora sta ancora peggiorando. Vediamo perché.
In pratica a Eagle Pass, il luogo più “caldo” per quel che riguarda queste problematiche, i danni ambientali derivanti dagli anni di espansione delle misure di sicurezza anti-migrazione sono evidenti. Le sponde spoglie del Rio Grande sono state spogliate della vegetazione lussureggiante per fare strada ai veicoli di pattuglia, i container arrugginiti e le reti spinate creano un contrasto marcato con la parte messicana del fiume.
Di recente, il governatore repubblicano del Texas, Greg Abbott, ha annunciato la costruzione di Camp Eagle, un campo base da 170 milioni di dollari su 80 acri lungo il fiume che serve a fornire supporto alle 2.300 guardie nazionali del Texas dispiegate nella zona, il che significa che si vuole una presenza più permanente delle truppe nella zona, truppe che il governatore del Texas ha schierato a partire dal 2021, nonostante il controllo dell’immigrazione rientri nella giurisdizione federale.
Le modifiche all’ambiente a causa del controllo dei confini non sono nuove a Eagle Pass, ma da quando è stata avviata l’iniziativa Operation Lone Star di Abbott nel 2021, che ha già costato agli elettori texani più di 11 miliardi di dollari, l’area è stata devastata.
Secondo diverse fonti riportare dal Guardian, il governatore texano starebbe ignorando le protezioni federali dell’ecosistema, distruggendo intere isole e argini e installando barriere che hanno alterato il flusso del fiume e causato una notevole erosione. Fiume che è anche l’unica risorsa idrica della zona, l’unica fonte d’acqua, e questo intervento potrebbe diminuire di parecchio la qualità dell’acqua a disposizione della comunità di Eagle Pass e delle altre comunità a valle. Gli ambientalisti ritengono che ci vorranno centinaia di anni affinché la natura ripari da sola i danni causati da Operation Lone Star.
Oltre alla questione ambientale, c’è la questione umana, legata alle politiche migratorie molto restrittive adottate dal governo del Texas, e poi c’è quella legale, ovvero la disputa sul governo federale. Perché anche se la questione migratoria sarebbe di competenza del governo federale, il governo del Texas ha approvato la famosa legge sull’immigrazione SB4, molto restrittiva e criticata anche perché accusata di andare oltre le proprie competenze statali, con Abbott che continua a sfidare la legge federale, adducendo una “invasione” di migranti per giustificare ciò che l’amministrazione Biden sostiene essere incostituzionale.
Abbiamo spesso notato come la guerra sia una condizione in cui si perde da tutti i punti di vista, ambientale, umano, sociale. Ecco, anche per l’immigrazione, e la lotta all’immigrazione, spesso si può dire qualcosa di simile. Quando si innesca la dinamica della psicosi da invasione, quella cosa lì diventa la più importante e pur di proteggerci da questa presunta invasione, siamo disposti a alzare muri sia fisici che metaforici e passare sopra a qualsiasi altra cosa.
Chiudiamo con una notizia interessante che arriva da Firenze, che apprendo grazie alla Rete semi rurali, una rete che promuove la piccola agricoltura sostenibile (per davvero) e una gestione collettiva della biodiversità in ambito agricolo.
In pratica il Comune di Firenze ha inaugurato un’iniziativa che si chiama ‘F’orti’, per stabilire orti urbani nei diversi quartieri della città, con l’obiettivo di coinvolgere i cittadini in un’agricoltura urbana condivisa.
La cosa interessante è che il progetto è stato realizzato in collaborazione proprio con Rete Semi Rurali, oltre che con la Società Toscana di Orticoltura. Vi spiego come funziona. Per tutto il mese di maggio i cittadini singoli o associati, insieme a enti no profit e imprese sociali, possono esprimere il loro interesse a partecipare.
Le aree designate per gli orti comprendono spazi nei giardini pubblici di ogni quartiere, per un totale di oltre 1100 metri quadrati. Questi spazi verranno coltivati utilizzando metodi di agricoltura biologica e biodinamica, e saranno piantati più di 60 alberi da frutto.
In questa fase iniziale, è prevista la mappatura delle associazioni e dei cittadini interessati, che sono appunto chiamati a inviare una manifestazione d’interesse. In pratica, se vivete a Firenze e vi interessa gestire un orto urbano potete inviare una domanda dal sito di Rete semi rurali, vi lascio il link sotto fonti e articoli. Questa mappatura sarà poi seguita da incontri nei quartieri e la preparazione di progetti di animazione sociale per ogni area ortiva. Gli orti, come ormai è stato osservato più e più volte, sono luoghi di aggregazione e socialità, e quindi sono stati pensati fin dal principio anche con questi obiettivi, di incontro e relazione. In più – molto interessante – c’è anche un particolare progetto a Sollicciano, il carcere di Firenze, che prevede l’interazione tra i detenuti e la comunità esterna.
Mi sembra un progetto molto interessante, perché il comune si fa promotore di una rete estesa di orti urbani, appoggiandosi a un’organizzazione che capisce perfettamente la funzione di questi spazi. Che non è tanto quella dell’autoproduzione alimentare, che in percentuale resterà minima per una città come Firenze, ma è quella di educazione all’ecologia, socialità, relazioni e cura di se stessi e della Terra.
#Gaza
la Repubblica – Israele “spegne” Al Jazeera, una delle poche voci giornalistiche a Gaza
Al Jazeera – Al Jazeera condemns Israeli government decision to shut down channel
il Post – Il governo israeliano ha approvato una legge per chiudere Al Jazeera in Israele
il Post – Israele ha chiuso il varco di Kerem Shalom con la Striscia di Gaza dopo il lancio di alcuni razzi
il Post – I negoziati fra Israele e Hamas non hanno ancora portato a un accordo
Al Jazeera – Dozens arrested in US campuses in another weekend of pro-Palestine protests
#Brasile
il Post – Le disastrose alluvioni nel sud del Brasile
#Texas
The Guardian – ‘Why doesn’t anybody care?’ Texas-Mexico border devastated by anti-migrant operation
#orti @Firenze
Rete Semi Rurali – Al via il progetto F’ORTI, che prevede la creazione dei primi orti urbani di comunità a Firenze.
La nazione – Al via il progetto ‘F’orti’, nascono i primi orti urbani di comunità a Firenze