7 Ott 2024

Il Burkina Faso nazionalizza le sue miniere – #996

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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In Burkina Faso, il leader della giunta golpista Ibrahim Traoré ha deciso di nazionalizzare le miniere, per far sì che la ricchezza derivante dallo sfruttamento delle risorse naturali restino nel paese. In Canada, la carbon tax è contestatissima dall’opposizione ma è un caso studio di successo come politica climatica. Infine negli Usa dopo il passaggio dell’uragano Helene le comunità si stanno organizzando in reti di vicinato e mutuo aiuto che stanno svolgendo un lavoro incredibile. Oggi è il 7 novembre, è passato un anno dagli attentati di Hamas che hanno scatenato la guerra odierna, ma oggi parliamo di altro. 

Ieri, il leader della giunta militare che governa il Burkina Faso, il capitano Ibrahim Traorè, ha annunciato l’imminente nazionalizzazione delle miniere “per sfruttare al meglio le sue risorse naturali”. Lo ha fatto in un lungo discorso alla radio nazionale in cui ha risposto alle domande degli ascoltatori affermando anche che “Ci sono licenze minerarie concesse a potenze che rifiutano categoricamente di sostenerci nella lotta contro il terrorismo”. 

Ne parla un articolo di Repubblica che racconta appunto come il leader golpista stia facendo delle politiche interessanti. Ora, se siete lettori e ascoltatori assidui e di lunga data di ICC, e se siete abbonati avrete forse ascoltato la puntata dedicata proprio al Burkina Faso di INMR+ in cui Michele Dotti ci raccontava di Traoré come di un keader veramente da tenere d’occhio perché aveva idee che ricordavano quelle del suo più celebre predecessore, uno dei pochi leader africani aver fatto qualcosa per l’Africa, Thomas Sankara.

Ma cerchiamo di capire meglio le politiche di Traore, e per farlo ci spostiamo sul giornale americano The Daily Scrum News, che in un approfondimento spiega che l’annuncio fatto alla radio segue in realtà due decisioni già operative su due grosse miniere. Ovvero le miniere d’oro di Boungou e Wahgnion, già nazionalizzate, e che facevano intuire la direzione voluta da Traorè.

Leggo, in riferimento alla nazionalizzazione di queste due miniere che: “La nazione dell’Africa occidentale ha stretto un accordo per acquisire le miniere per 80 milioni di dollari, un netto contrasto rispetto ai 300 milioni di dollari stabiliti lo scorso anno, quando la Endeavour Mining, quotata a Londra, le aveva vendute a Lilium Mining. Secondo il nuovo accordo, Lilium trasferirà la proprietà allo Stato, che pagherà a Endeavour 60 milioni di dollari in contanti, oltre a una royalty del 3% su un massimo di 400.000 once d’oro vendute dalla miniera di Wahgnion, una clausola del valore di circa 20 milioni di dollari.

L’accordo mette in luce la discrepanza tra il valore attribuito alle risorse naturali del paese dalle aziende straniere e ciò che il governo è ora disposto a pagare. La nazionalizzazione di queste miniere rappresenta una riaffermazione del controllo su una ricchezza che per lungo tempo ha arricchito le aziende straniere, offrendo pochi benefici alla popolazione locale. Questo passo non riguarda solo i vantaggi economici; simboleggia un cambiamento più ampio verso la sovranità e l’autodeterminazione.

Sotto la guida del presidente Ibrahim Traoré, il paese si sta allontanando da anni di dominio straniero, in particolare dalla Francia, che storicamente ha esercitato una notevole influenza sulla sua leadership. Questo atto di nazionalizzazione segna una rottura con quel passato, poiché la nazione cerca di garantire che la sua ricchezza naturale avvantaggi i cittadini anziché le multinazionali estere.

Tuttavia, secondo la giornalista Ingrid Jones, autrice del pezzo, questa mossa audace comporta dei rischi. Traoré, già bersaglio di numerosi tentativi di assassinio, è ora esposto a pericoli crescenti. Sebbene le nazioni occidentali neghino qualsiasi coinvolgimento negli attacchi, molti osservatori sospettano un collegamento, dato il sospetto flusso di armi e supporto finanziario ai gruppi ribelli. 

Nonostante queste minacce, la leadership di Traoré ha ispirato speranza tra la popolazione. Riprendendo possesso delle miniere d’oro, il governo punta a utilizzare la ricchezza generata per affrontare questioni di lunga data, come la povertà e le carenze infrastrutturali. È un momento cruciale, sia per l’economia che per l’indipendenza politica.

L’articolo poi continua, ma direi che gli elementi principali ve li ho dati. È interessante osservare come il Burkina Faso, e anche altri paesi africani, stiano forse per la prima volta trovando una loro verso l’utilizzo delle risorse. Non esente da rischi ovviamente. 

Perché sebbene sia facile idealizzare queste operazioni, ovviamente vanno inserite in un contesto geopolitico ed ecologico complicati. Geopolitico perché bisogna considerare che se le nazioni, gli eserciti e le multinazionali occidentali vengono spinte fuori da diversi paesi africani, queste vengono in parte rimpiazzate, con modalità diverse dagli aiuti economici della Cina e dalla presenza politico militare della Russia. 

Ed ecologiche perché una via africana allo sviluppo, per quanto possiamo dirci che sia storicamente giusta e ineccepibile, però comporta dei rischi ambientali di cui comunque non possiamo non tener conto. Se il modello di sviluppo resta quello occidentale, e anche i paesi africano lo intraprendono convintamente, come hanno tutto il diritto di fare, tutto il mondo ha un problema.

Al netto di ciò, mi sembra che almeno nel caso del Burkina Faso, per quel poco che trapela fin qui, ci sia un reale vento di cambiamento. Ovviamente continueremo ad osservare quello che succede senza lasciarci prendere da idealizzazioni o facili entusiasmi, ma detto ciò, niente male!

“Fame e malnutrizione di massa. Un inverno nucleare imminente. Una minaccia esistenziale per lo stile di vita canadese. Per mesi, il leader conservatore del paese, Pierre Poilievre, ha lanciato avvertimenti sempre più apocalittici sul futuro. Il colpevole? Un’imposta federale sul carbonio volta a ridurre le emissioni di gas serra”.

Inizia così un lungo articolo di Leyland Cecco sul Guardian, che racconta gli effetti della Carbon Tax introdotta dal governo canadese. Effetti che in realtà sono molto molto interessanti e distanti dalle angosciose proiezioni dei conservatori canadesi. Ciononostante i politici conservatori hanno puntato la tassa sulle emissioni di carbonio come nemico principale e stanno investendo soldi per demonizzarla.

Comunque, facciamo un passo indietro. Una carbon Tax è una tassa sul carbonio. Il Carbonio (da non confondere col carbone) è un atomo che, sulla terra è il principale motore della vita, ma se finisce in atmosfera diventa è il principale responsabile della crisi climatica. È la C di CO2, per intenderci. Il principio della Carbon tax è: chi inquina, paga. Se io emetto CO2 o altri gas climalteranti, pagherò una tassa progressiva in base alle mie emissioni. 

Nel 2018 il Canada ha introdotto una Carbon Tax molto innovativa, acclamata come un modello globale di politica ambientale progressista. Funziona così: le aziende inquinanti vengono tassate in base alle emissioni di CO2. In realtà non tutte, nel senso che alcuni settori cosiddetti difficili da abbattere sono stati esclusi, ma hanno comunque dei limiti da rispettare. E inoltre la tassa si applica anche sui carburanti, e quindi in parte grava anche direttamente sui cittadini.

Comunque, il concetto di base è che per ogni tonnellata di CO2 emessa annualmente, si deve pagare un tot. Questo Tot, aumenta anno dopo anno, in modo da rendere via via più sconveniente avere sistemi di produzione inquinanti e quindi indirettamente da incentivare il ricorso a rinnovabili e filiere produttive sostenibili. 

Ovviamente, ci sono delle ripercussioni sulle tasche dei cittadini, sia dirette, con l’aumento del prezzo dei carburanti, che indirette per via del fatto che le aziende hanno più costi e quindi scaricano questi costi sul costo del prodotto finale, che aumenta. Per questo i proventi di queste tasse, vengono redistribuite ai cittadini stessi attraverso, in modo che non siano questi ultimi a dover pagare il conto finale. 

Inizialmente, la tassa veniva restituita sotto forma di detrazione fiscale che pochi notavano quando presentavano le dichiarazioni dei redditi. Successivamente, il governo ha iniziato a depositare direttamente il denaro sui conti correnti, ma non è riuscito a far sì che le banche indicassero che quel denaro fosse un rimborso dalla carbon tax. Ci è voluto un cambiamento di legge per costringere finalmente le banche a etichettare i pagamenti del governo come “Canada Carbon Rebate” o “CdaCarbonRebate”.

Insomma, un modo molto intelligente di introdurre una tassa sul carbonio. Solo che, come avrete intuito dalle prime righe dell’articolo, questa tassa è diventata il bersaglio dei conservatori, che in vista delle elezioni del 2025 hanno fatto dell’abolizione della carbon tax il loro cavallo di battaglia. Complice un aumento del costo della vita che però non sembra aver niente a che fare con la tassa stessa. 

Anzi. Diversi studi mostrano come le famiglie a basso reddito ricevono più dal rimborso di quanto pagano in costi aggiuntivi. Una famiglia di quattro persone in Ontario riceverà quest’anno 1.120 dollari canadesi (circa 750 euro) in rimborsi. Chi vive in una comunità rurale riceverà 900 euro e una famiglia rurale di quattro persone nella provincia di Alberta quasi 1500 euro equivalenti.

Ma i conservatori, secondo il Guardian, sono desiderosi di catturare la crescente frustrazione nei confronti del governo in carica e trasformare il voto federale in un referendum su quella che è stata ed è la politica climatica di punta del premier Trudeau. Il loro slogan presente in ogni cartellone e sulle magliette, è semplice: “aboliamo la tassa”. 

Il problema, come spiegano alcuni politologi al Guardian, è che i conservatori sono avanti nei sondaggi e stanno convincendo con una campagna di comunicazione di massa molte persone a schierarsi contro la tassa. 

Ovviamente tutto questo si inserisce nel più ampio dibattito legato al cambiamento climatico, che anche in Canada è molto acceso e si nutre di fake news e propaganda. Come ha detto ha detto il ministro dell’ambiente Guilbeault “Il clima, e più in generale l’ambiente sono intrappolati in questa guerra culturale in cui i fatti non contano, dove la verità non ha valore”. “Questa è una questione che riguarda gli elementi fondamentali delle nostre democrazie in tutto il mondo, molte delle quali sono indebolite da queste campagne di disinformazione.”

Insomma il Canada sembra essere a un bivio. Un recente rapporto del Canadian Climate Institute ha rilevato che l’imposta nazionale sul carbonio sembrerebbe in grado di ridurre le emissioni fino al 50% entro il 2030. Un risultato impressionante, se confrontato con la media delle politiche climatiche degli altri paesi industrializzati. Se l’imposta fosse abbandonata, gli impegni climatici del Canada andrebbero probabilmente a farsi benedire.

Vi leggo un’ultima dichiarazione presente nell’articolo che ho trovato interessante ed p quella di Dale Beugin, vicepresidente del Canadian Climate Institute, che dice “La politica climatica non è facile. Richiede uno sforzo per andare contro ciò che è politicamente semplice, perché è questa la trasformazione di cui abbiamo bisogno”. 

Mi sembrano parole sagge, ed è il motivo per cui spesso la politica per come la conosciamo non riesce a risolvere problemi complessi come il clima. Perché la politica, nella sua ricerca del consenso, predilige risposte semplici. E sappiamo bene che ogni problema complesso ha una soluzione semplice, e sbagliata. 

Quindi, continuiamo a ragionare su come cambiare il sistema politico. Nel frattempo però non perdiamoci gli aspetti molto positivi di questa vicenda canadese. Il primo: abbiamo un modello che funziona molto bene, da replicare. Secondo: non diamo per scontato che le politiche populiste sul clima debbano vincere, Le due scorse elezioni sono state vinte da Trudeau anche grazie alle politiche climatiche. È vero che ora con il carovita le cose sono cambiate, ma non rinunciamo a provare a spiegare la complessità. In Canada come qui.

Restiamo sul Guardian. Spesso abbiamo parlato dei danni e le devastazioni degli uragani e degli altri eventi estremi causati dal cambiamento climatico. Oggi però Adria Walker, sul Guardian appunto, ci racconta una storia diversa. Una storia che arriva dalle zone colpite dal terribile uragano Helene, che circa 10 giorni fa si è abbattuto sulla Carolina del Nord e del Sud e sulla Florida. 

Leggo: “La prima cosa che i membri del Pansy Collective, con sede a Asheville, North Carolina, hanno fatto dopo l’inizio dell’uragano Helene è stata mettersi in contatto tra loro, assicurandosi che tutti stessero bene e aiutando chi aveva bisogno di evacuare. Appena sono riusciti a scendere dalle Blue Ridge Mountains, dove si trova Asheville, hanno guidato per più di 200 miglia fino a Durham per raccogliere provviste e riportarle ad Asheville”.

Il Pansy Collective è solo una delle molte organizzazioni di mutuo soccorso che si sono mobilitate in Florida e nelle Carolinas da quando l’uragano Helene è approdato il 26 settembre.

Da quando la tempesta ha colpito, crescendo da un uragano di categoria 1 a categoria 4 in un solo giorno, almeno 220 persone sono morte, mentre altre 200 risultano ancora disperse. Migliaia di persone sono state sfollate. Helene è stato l’uragano più forte mai registrato a colpire la regione di Big Bend in Florida e l’uragano più mortale a colpire gli Stati Uniti continentali dal 2005, dopo l’uragano Katrina.

Più avanti l’articolo spiega che “Mentre il governo federale, i governi statali e le grandi organizzazioni non profit hanno avuto una risposta più lenta e, secondo alcuni residenti, insufficiente, queste piccole organizzazioni, ma anche le singole persone, i vicini che aiutano vicini, hanno colmato le lacune”.

I segreti di questa attivazione e mutuo aiuto stanno in parte nelle radici culturali di alcune delle zone colpite. Come ha detto Garrett Blaize, direttore esecutivo dell’Appalachian Community Fund, “Negli Appalachi (che sono una regione montuosa che si trova nella parte centromeridionale della east coast) abbiamo una rete molto forte di gruppi di mutuo soccorso, sia formali che informali. Abbiamo visto molti di questi gruppi attivarsi immediatamente dopo i primi impatti della tempesta, così come forme più organiche e informali di mutuo soccorso: gruppi di chiesa, associazioni di volontariato, vicini. Tutto ciò è avvenuto molto rapidamente.”

E questo è avvenuto anche “grazie alla storia particolare della regione”. Dice: “Veniamo da una zona del paese che è stata spesso definita dalla scarsità. Credo che abbiamo molti valori culturali radicati sul prendersi cura l’uno dell’altro, e questo fa sì che durante i periodi di crisi o emergenza, sia una risposta spontanea.”

Un’altra esperienza di successo è quella di SEAC Village, un’organizzazione di comunità di Charlotte, North Carolina, che si è mobilitata su diversi fronti, lavorando in particolare con coloro che sono stati colpiti nella Carolina del Nord occidentale e nell’area di Mountain Island. Utilizzando un sistema di micro-donazioni di persone che danno ciò che possono – la maggior parte di esse è di 2 o 5 dollari – il gruppo è in grado di acquistare e raccogliere provviste tra cui cibi non deperibili, generatori, prodotti per l’igiene mestruale e forniture per bambini.

Come ha detto uno dei suoi organizzatori, Tai Little, “Noi crediamo in una società in cui tutte le persone sono al sicuro e vengono curate. Quello che vediamo dalle persone che fanno le donazioni, sia con beni materiali che con denaro, è che provengono da contesti della classe operaia e sanno cosa significa soffrire. Sanno cosa significa essere colpiti. Sanno cosa significa non poter contare sullo stato o sul governo come primo soccorritore.”

Little ha sottolineato l’importanza che le persone interessate a sostenere questi sforzi donino ai fondi di mutuo soccorso come la sua e direttamente a chi è sul campo. “Quando si dona alle grandi organizzazioni ci vuole molto tempo prima che gli aiuti arrivino alle persone, ma quando si dona direttamente a chi sta sul campo, gli aiuti arrivano subito alle persone. Siamo riusciti a inviare tre camion pieni di oggetti solo grazie a queste piccole donazioni.”

Vi lascio, come al solito, l’articolo completo sotto fonti e articoli. Storie come queste sono molto importanti perché ci ricordano uno degli aspetti più importanti, e meno considerati, quando parliamo di resilienza e di adattamento climatico. In genere pensiamo a programmi governativi, a fondi per costruire argini migliori o sistemi fognari più funzionanti. Cose essenziali. Ma i legami di comunità e le capacità di piccoli gruppi di persone di organizzarsi sono forse una delle caratteristiche più importanti per garantire una resilienza sui territori. 

Va bene siamo in chiusura. Lo so che oggi è il 7 ottobre, che i giornali sono pieni di articoli, alcuni molto interessanti, sugli attentati di un anno fa e su tutto quello che è successo dopo. So che ci sono stati scontri alla manifestazione non autorizzata pro Palestina a Roma e che ci sono novità sulla situazione israelo-iraniana. Ma proprio per questo, ho pensato che in un giorno così denso e per molti aspetti pesante, fosse interessante guardare a qualcosa di bello che sta succedendo, in luoghi molto diversi fra loro del mondo. 

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