23 Gen 2024

Bologna città 30, la polemica di Salvini, i pro e i contro – #865

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Dopo che Bologna è diventata ufficialmente una città 30, ovvero una città in cui vige un limite esteso di velocità a 30km/h ma anche in cui viene ripensata la mobilità nel suo complesso, ci sono state molte polemiche e il Ministro delle infrastrutture e trasporti Salvini ha minacciato di impedire ai sindaci, con una legge, di prendere misure del genere. Parliamone. Parliamo anche della situazione a Gaza e in Israele, dove Netanyahu è stretto fra le pressioni internazionali e quelle dell’opinione pubblica, e della siccità sempre più estrema a Panama, dal cui canale passano ormai pochissime imbarcazioni commerciali.

Si parla molto – da qualche giorno – della questione città 30. Per città 30 si intende una città in cui vige, in molte zone, il limite dei 30 km orari, ma non solo, perché la sigla è diventata una cornice con cui si inquadra un nuovo concetto di città, più sostenibile, più a misura di essere umano e meno di macchina. 

Ne abbiamo già parlato in passato qui su INMR mesi fa, quando i primi progetti prendevano il via in Italia. La novità è che da qualche giorno Bologna è la prima grande città italiana a essere diventata una cosiddetta città 30 e questo fatto ha scatenato un dibattito anche molto politico, con il ministro delle infrastrutture Matteo Salvini che ha attaccato duramente la misura. Prima di commentare le reazioni e le opinioni, però, partiamo dai fatti.

Leggo sul Post che “Da martedì 16 gennaio nella maggior parte delle strade di Bologna è in vigore il limite di velocità di 30 chilometri all’ora introdotto dall’amministrazione comunale per far diventare Bologna la prima grande “città 30” in Italia. Negli ultimi mesi sono stati posizionati nuovi cartelli, è stata dipinta per le strade la nuova segnaletica e sono stati installati sistemi di rilevazione del traffico in vista dell’entrata in vigore dell’ordinanza che autorizza i controlli e le sanzioni.

Come spiega l’articolo più avanti, “Una “città 30” non è solo in senso stretto una città in cui quasi tutte le strade hanno un limite di velocità di 30 chilometri all’ora: è un’iniziativa che punta a ripensare lo spazio pubblico, riducendo le aree dedicate alle auto e favorendo quelle per la mobilità sostenibile, con la realizzazione di nuove piste ciclabili e marciapiedi più larghi”. 

E ancora: “L’obiettivo di una città 30 è creare spazi più vivibili e sicuri per le persone che non si spostano in auto: avere marciapiedi più larghi significa per esempio avere più spazio per panchine e alberi rendendo più piacevole spostarsi senza auto, con benefici anche per l’ambiente”.

La città 30 non è una invenzione di Bologna, né italiana. Ci sono progetti di città 30 già avviati in molte città europee – tra cui Berlino, Barcellona, Edimburgo, Bruxelles, Parigi e altre ancora. Progetti che al momento mostrano un dato controintuitivo: “istituire una città 30 non causa un allungamento dei tempi di percorrenza per gli automobilisti: anzi, in tutti questi posti si è avuto un sostanziale decongestionamento del traffico”.

Comunque, a Bologna da qualche giorno esiste il limite dei 30 km/h in quasi tutte le strade del centro, mentre nelle strade che vengono definite “di scorrimento”, come i viali a più corsie, rimane il limite di 50 all’ora. Parallelamente, sono state create nuove piazze pedonali, nuove piste ciclabili, sono state abbattute barriere architettoniche e messi in sicurezza incroci e attraversamenti pedonali e ciclabili. E altri interventi sono in programma nei prossimi mesi con un investimento complessivo di 24 milioni di euro.

L’articolo del Post poi si sofferma sui sistemi di rilevamento della velocità, sulle pattuglie deputate a controllare che non vengano sforati i limiti e sulle sanzioni, ma vi salto questa parte per passare alle polemiche che questa misura sta suscitando: per primo è stato il capogruppo di Fratelli d’Italia Stefano Cavedagna ad annunciare battaglia, sostenendo che  avrebbe creato un comitato per chiedere un referendum locale con cui sottoporre il piano al voto della popolazione. 

Poi è scesa in campo l’artiglieria pesante, e ad attaccare fattivamente il piano è stato il ministro di Infrastrutture e trasporti nonché vicepremier Matteo Salvini. Come racconta Alessandra Arachi sul Corriere della Sera, sabato sera Salvini ha annunciato una direttiva con cui avrebbe a suo dire vietato ai sindaci di approvare limitazioni della velocità all’interno dei comuni. 

Poi lo stesso Salvini ha fatto una parziale marcia indietro, dicendo che la direttiva che è ancora soltanto una bozza di lavoro e vorrebbe discuterne con gli stessi Comuni, tant’è che in settimana ci sarà un tavolo con l’Anci e anche con il ministero dell’Interno. Salvini ha comunque voluto ribadire che, sebbene non sia intenzionato a fare la guerra ai sindaci, è contrario a chi vuole condurre crociate anti-auto.

Ovviamente le iniziative e i commenti di Salvini hanno scatenato decine di altre reazioni, e il tutto si è trasformato in una battaglia piuttosto politica che ha visto lo scontro fra Salvini e il sindaco di Bologna Matteo Lepore, del PD. Con il paradosso, notato dal Corriere, che altre due città 30 d’Italia, Olbia e Treviso, sono amministrate da giunte di centrodestra che difendono convintamente l’iniziativa.

Ma quindi, queste città 30 funzionano oppure no? Sono più i pro o i contro? I loro estimatori ne fanno notare i benefici dal punto di vista della qualità dell’aria, della sicurezza stradale, della vivibilità complessiva, i loro detrattori ne fanno una questione di comodità individuale, di tempi aumentati per chi va a lavoro, ecc.

Ho trovato interessante l’idea di FanPage che ha letteralmente testato la novità, mandando un suo giornalista, Beppe Facchini, a farsi un giro in macchina per Bologna con uno studente-lavoratore, Nicola, nella sua giornata tipo, per monitorare i cambiamenti.

Il responso di Nicola è stata una certa confusione e un po’ di stress per cercare di ricordarsi quali strade hanno i nuovi limiti e quali no e nel sopportare la pressione psicologica di altri automobilisti che evidentemente mal sopportavano il nuovo limite. Ma tutto sommato anche la convinzione che si possa fare. Per compiere il suo tragitto Nicola ha impiegato 25 minuti invece dei 15-20 abituali.

Detto ciò, vi dico anche la mia. È uno di quegli argomenti su cui mi sento di non avere grossi dubbi. Penso che sia una direzione molto sensata verso la quale muoversi, per tante ragioni. Ecologiche, perché è stato visto che c’è una complessiva riduzione della mobilità in auto, e quindi una riduzione di emissioni di CO2 e polveri sottili, di salute, perché l’aria delle città diventa più respirabile, di sicurezza stradale, perché l’incidenza dei morti in strada in Italia è mediamente molto alta e anche in qualche forma culturale, nell’introdurre un nuovo modello di città, più vivibile e più lento. 

Il tema della lentezza non è da sottovalutare. E potrebbe segnare una interessante inversione di tendenza in un mondo che invece da tanti punti di vista continua ad accelerare.

Certo, ci sono delle controindicazioni, che sono però tipiche di ogni cambiamento. Per cui si passa inevitabilmente da una fase iniziale di confusione, possibile aumento del caos e del traffico, disorientamento e fastidio dovuto al cambio delle abitudini. Ma sono convinto che superata questa fase i benefici superino di gran lunga i costi. Ecco, forse mi sentirei di consigliare, per mantenere una certa armonia sociale e non esasperare le persone, ottenendo effetti controproducenti, di prevedere una fase di transizione in cui non si applicano sanzioni e multe e si da il tempo alle persone di abituarsi a questa nuova normalità.

Ieri sono successe diverse cose anche sul fronte israelo-palestinese. Molti giornali hanno dato una certa rilevanza alla notizia che alcuni fra i parenti degli ostaggi israeliani rapiti da Hamas hanno assaltato la Knesset, il Parlamento israeliano, facendo irruzione in una riunione della Commissione Finanze e urlando “Non vi siederete qui mentre loro stanno morendo lì!”. I manifestanti hanno interrotto la sessione chiedendo le dimissioni del primo ministro Netanyahu e invocando nuove elezioni.

Ma questo non è stato l’unico scossone con cui si deve confrontare il governo di Netanyahu. Riporta Repubblica di una protesta di un gruppo di riservisti che accusano le truppe di Israele di aver abbassato l’intensità dell’offensiva nella Striscia di Gaza, chiedendo di tornare a un approccio più duro. Tutto ciò, peraltro, mentre l’esercito israeliano ha stretto d’assedio l’edificio centrale della Mezzaluna Rossa (la croce rossa) a Khan Yunis (a Sud di Gaza) e ha di fatto paralizzato tutte le sue attività, incluse quelle della unità di ambulanze. 

Comunque, al di là di questo, secondo quanto riportano i giornali Netanyahu sembra essere spinto da una parte dell’opinione pubblica a addirittura aumentare la violenza dell’invasione.

A questa spinta interna però se ne contrappone una esterna, esattamente opposta. Perché molti governi occidentali iniziano a mostrare insofferenza verso l’offensiva israeliana, e soprattutto verso la mancanza di una prospettiva di pace concreta. In quello che risulta in maniera sempre più evidente come una operazione militare che più che indebolire Hamas, sta facendo una strage di civili,  con il bilancio dei morti che ha superato i 25mila morti (molti dei quali minorenni) e i 63mila feriti secondo i dati diffusi dal ministero della Sanità di Gaza.

Comunque, le pressioni occidentali al momento arrivano soprattutto da Ue e Usa. Ieri Bruxelles ha provato a inserirsi di forza nelle trattative per la Pace, in cui fin qui ha recitato un ruolo marginale, ospitando il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz e il ministro degli Esteri palestinese Riyadal-Maliki, oltre ai rappresentanti di Arabia Saudita, Egitto e Giordania e il segretario generale della Lega degli Stati arabi. 

Ma l’intervento del ministro israeliano Katz ha creato in realtà ulteriori malumori e imbarazzo, perché ha proposto, come soluzione, di creare un’isola artificiale davanti a Gaza per spostarvi i palestinesi. Siamo a questi livelli. Sempre ieri, l’Alto rappresentante Ue per la politica estera Josep Borrell ha attaccato Benjamin Netanyahu definendo: “Inaccettabile opporsi alla soluzione dei due Stati”. 

Già, perché in tutto ciò a riprendere quota è stata proprio la soluzione dei due stati, da molti considerata morta e sepolta. E a caldeggiare questa soluzione, in una sorta di braccio di ferro con Netanyahu, c’è proprio l’amministrazione Biden. Come racconta Pierre Haski su France Inter infatti, “Di solito tra alleati questo tipo di scontro diplomatico è poco frequente, soprattutto in tempi di guerra. Il 19 gennaio Biden e Netanyahu si sono parlati al telefono per la prima volta da un mese. Secondo il resoconto degli statunitensi il primo ministro israeliano non si sarebbe opposto alla soluzione dei due stati. Ma il giorno successivo ha diffuso una smentita per dire che non è per niente d’accordo su questo progetto.

E in cui afferma che Israele intende mantenere la responsabilità sulla sicurezza “a ovest del fiume Giordano”, ovvero su un’area che comprende lo stato di Israele e i territori palestinesi occupati. A queste condizioni è evidente che la nascita di un secondo stato sovrano nella stessa zona sarebbe impossibile.

Il punto è che sia Biden che Netanyahu, secondo il giornalista, recitano un ruolo necessario ai fini della loro stabilità politica interna nei rispettivi paesi, ma che li porta a scontrarsi. In Israele Netanyahu si gioca la sua sopravvivenza politica, alla luce sia dell’imminente inchiesta sugli errori militari commessi il 7 ottobre, il giorno dell’attacco di Hamas, sia dei processi per corruzione che lo riguardano. E nel suo governo ci sarebbe già chi è pronto a sostituirlo, promettendo un approccio persino più duro.

Negli Stati Uniti, al contrario, Biden è molto criticato dai suoi stessi elettori a causa dell’appoggio militare e politico accordato a Israele. E in vista delle elezioni, Biden deve poter sostenere di avere cercato anche una soluzione dignitosa per i palestinesi.

In tutto ciò, la mia sensazione un po’ amara è che la soluzione dei due stati non sia in effetti percorribile, ma che venga sventolata come un feticcio da alcuni attori in gioco per poter dire di aver fatto qualcosa. Il fatto che parte dell’opinione pubblica israeliana spinga il premier ad avere un approccio ancora più aggressivo è sintomo di una situazione che non sembra vicina a trovare una conciliazione. E d’altro canto posso pensare a quanto piacere abbiano adesso i Palestinesi ad intrecciare rapporti diplomatici con uno stato responsabile di una vera e propria strage di civili. 

Perché il problema dei due stati è che parliamo di un territorio piccolissimo, quello di Israele e Palestine, due strisce di terra in cui sono concentrati milioni di abitanti, con una altissima densità abitativa. Non ci sono cuscinetti, non c’è una possibile separazione. Pensare alla convivenza di due stati, adesso, per quanto idealmente bello, mi sembra davvero difficile. E temo appunto che lo sappiano anche coloro che propongono questa soluzione, ma che vi si aggrappino non per convinzione ma per immagine. Spero di sbagliarmi.

Chiudo con un aggiornamento sulla situazione del Canale di panama, dove la soiccità continua ad avere effetti sul commercio mondiale. Leggo su Euronews che “La siccità che sta colpendo Panama ha diminuito gli spazi di transito nel canale” e che “nel 2024 le scarse precipitazioni potrebbero costare tra i 500 e i 700 milioni di dollari.”

Responsabile di questa situazione è il tremendo incrocio meteorologico fra la crisi climatica e il ritorno del nino, il ciclo di correnti oceaniche del Pacifico che riscalda ulteriormente le temperature. 

Le conseguenze delle scarse precipitazioni su una delle rotte commerciali marittime più importanti e utilizzate al mondo, è la riduzione del 36 per cento del numero delle navi che possono passare attraverso il Canale. Perciò l’autorità del Canale di Panama ha rivisto le stime su quanto questa situazione influirà sul commercio. le stime precedenti prevedevano una perdita di 200 milioni di dollari, la nuova sostiene che l’abbassamento del livello delle acque potrebbe costare tra i 500 e i 700 milioni di dollari nel 2024.

Questo per ribadire che non esiste nessuna contrapposizione fra interessi economici e interessi, diciamo ambientali. Esistono solo dei ritardi nel sistema, che creano una contrapposizione apparente. ma con il clima sfasato e gli ecosistemi che cambiano equilibri, non ci sarà più nessuna economia.

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