22 Lug 2024

Biden si è ritirato dalle presidenziali Usa! Che succede adesso? Chi è Kamala Harris? – #968

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Pronti a un frullato di notizie? Anche se INMR rallenta per il periodo estivo il mondo ahinoi non fa lo stesso, e quindi ci tocca correre un po’. Iniziamo ovviamente con la notizia del ritiro di Biden, per passare alle proteste antigovernative in Bangladesh represse nel sangue, alla durissima sentenza contro 5 attivisti climatici nel Regno Unito, al via al Von der Leyen bis del Parlamento Europeo, e ancora di libero arbitrio e di parecchie altre cose.

Alla fine è successo. Joe Biden ha scelto di ritirarsi dalla corsa alla Casa Bianca e lo ha annunciato ieri, con una lettera indirizzata ai cittadini americani postata sulle sue pagine social. Nella lettera Biden scrive che «negli ultimi tre anni e mezzo abbiamo fatto un enorme progresso come nazione» elencando gli obiettivi raggiunti, tipo essere «l’economia più forte del mondo» e «gli storici investimenti» in infrastrutture e lotta al cambiamento climatico, fino alla nomina della prima donna afroamericana alla Corte Suprema.

La lettera poi continua dicendo che «non sarebbe stato possibile senza di voi, il popolo americano» e che grazie al loro aiuto «abbiamo sconfitto una pandemia e superato la maggior crisi economica dalla Grande Depressione». Poi ecco la parte della decisione, dove spiega che la «miglior decisione per il partito e il paese» è di «rinunciare alla rielezione» per «focalizzarsi sui suoi doveri presidenziali». Lo scritto si conclude con un ringraziamento alla vice Kamala Harris, dopo aver detto che più tardi questa settimana spiegherà meglio la sua decisione».

Ma di fatto vengono smentite le affermazioni dei suoi addetti stampa che dicevano che il presidente era intenzionato a vincere e a rimanere nonostante i sondaggi che prevedevano un tracollo democratico. 

Come racconta Matteo Muzio su Domani, “non si sono rivelate importanti nemmeno le ricostruzioni – che si erano diffuse nei giorni scorsi – che parlavano di un presidente “intestardito” e invelenito nei confronti del suo predecessore Barack Obama che lo avrebbe spinto a non candidarsi nel 2015 attraverso le parole di suoi collaboratori come David Plouffe”.

Qualche minuto più tardi rispetto alla lettera, è arrivato anche il suo endorsement alla vice Kamala Harris dicendo che la sua scelta come numero due nel 2020 è stata «la migliore mai fatta» e che per i democratici «è tempo di riunirsi e di battere Trump».

Facciamo qualche considerazione, e vediamo cosa succede adesso. Innanzitutto, dettaglio importante, Biden non ha parlato mai di motivazioni legate al suo stato di salute, confermando che concluderà il mandato, mentre alcuni – fra cui Trump – gli chiedevano di dimettersi. 

La sensazione è che la manovra di accerchiamento e pressione sul Presidente, iniziata dopo il disastroso dibattito contro Trump del 27 giugno, lo abbia infine convinto a cedere. Negli ultimi giorni uno dopo l’altro si erano tutti schierati, chi più chi meno apertamente, per il ritiro di Biden dalla corsa. L’attentato fallito a Trump della scorsa settimana aveva per un attimo fatto ipotizzare che Biden potesse rimanere, ma i sondaggi disastrosi hanno convinto i dem ad aumentare la pressione sul Presidente.

Le famiglie influenti del partito, tipo i Clinton e gli Obama, lo avevano mollato, molti grandi donatori (che negli Usa hanno un potere molto forte sulle campagne elettorali) avevano fatto lo stesso congelando le donazioni, anche parecchi volti pubblici, attori ecc, si erano detti favorevoli a un suo ritiro, da ultima la ex speaker alla Camera Nancy Pelosi si era prodigata molto nello spingere il presidente al passo indietro.

Ora che succede? Come detto, Biden ha fatto il nome della sua Vice Khamala Harris, che però non gode di molta popolarità. Come racconta il Post, “Queste difficoltà dipendono anche dal fatto che nella sua carriera Harris è sempre stata divisa tra le sue convinzioni politiche (di ex procuratrice, con una visione tutto sommato centrista e perfino securitaria) e la sua identità di donna nera capace di battere i pregiudizi e ottenere incarichi politici di rilievo. 

Harris ha mutato più volte la sua identità: da procuratrice dura contro il crimine a attivista per i diritti civili, da candidata su cui si fondavano alcune speranze di trasformazione politica a vicepresidente tutto sommato dimessa. Questi molti cambiamenti hanno insospettito parte dell’elettorato Democratico e hanno molto spesso annacquato la sua efficacia come candidata e come politica”. 

Comunque, nonostante il sostegno di Biden, sarà alla convention democratica che si terrà a Chicago a partire dal 19 agosto che verrà scelto la sua o il suo successore, con gli oltre 4000 delegati che sono formalmente liberi di votare chi vogliono. Anche sembra abbastanza probabile che sia Harris la scelta, sia perché la vicepresidente è l’unica persona che può ereditare i fondi raccolti e lo staff della campagna elettorale senza dover ricostruire un’infrastruttura politica da zero, sia perché molti candidati democratici di punta potrebbero preferire non candidarsi per non bruciarsi una possibile vittoria nel 2028.

Le probabilità che Harris riesca a sconfiggere Trump sono a onor del vero piuttosto basse, ma bisogna ricordare che in palio non c’è solo l’elezione del Presidente ma anche l’elezione del Congresso, e che un Biden così debole poteva voler dire anche, in qualche misura, un effetto alone negativo sul Congresso che poteva passare facilmente in mani repubblicane. 

Repubblicani che nel mentre hanno mostrato la loro strategia d’azione, che è quella di continuare sulla linea lanciata dal senatore J.D. Vance, ovvero il vice scelto da Trump: linea che è la seguente: “se Biden non può ricandidarsi, non può stare alla Casa Bianca e si deve dimettere”. Una linea oltranzista che però difficilmente guadagnerà la spinta necessaria per andare a buon fine.

Vedremo. Di certo non si sta vedendo quell’abbassamento di toni che molti auspicavano dopo l’attentato a Trump. Comunque, nei prossimi giorni tante cose si chiariranno. 

Dal Bangladesh arriva una notizia piuttosto sconcertante. Le proteste antigovernative e la repressione della polizia sono sfociate in un’ondata di violenza con oltre 100 morti e migliaia di feriti. Provo a riassumervi la questione, prendendo spunto da un articolo di Matteo Miavaldi su Domani. In pratica dall’inizio di luglio, migliaia di persone in Bangladesh protestano contro il governo guidato dalla premier Sheikh Hasina. 

Il governo bengalese vanta una crescita economica record, che nel 2023 ha raggiunto la soglia del 7%. Ma dietro alla crescita economica si celano alcune leggi molto impopolari. In particolare quella che riserva la gran parte dei lavori pubblici a categorie specifiche individuate, in teoria, tra gli strati più svantaggiati della società: 10 per cento alle donne, 10 per cento a chi proviene dai distretti economicamente meno sviluppati, 5 per cento alle comunità indigene, 1 per cento alle persone con disabilità (e fin qui tutto ok, penserete) ma poi il 30 per cento ai parenti dei «freedom fighter» morti durante la guerra di indipendenza dal Pakistan nel 1971.

Che secondo i manifestanti è un modo per riservare una priorità nell’assegnazione dei posti di lavoro ai sostenitori dell’Awami League, il partito della premier Hasina. Considerate che in un paese molto povero come il Bangladesh il posto fisso nel settore pubblico rappresenta ancora un lavoro molto ambito che offre vantaggi indiscutibili rispetto a tanti altri lavori. E tolto il sistema di quote restano scoperti solo 3mila posti, da assegnare secondo criteri meritocratici.

Questa palese ingiustizia ha fatto scoppiare le proteste, dapprima soprattutto nelle università, ma che man mano si sono allargate in maniera abbastanza trasversale. Le proteste riflettono infatti un risentimento più ampio contro la gestione autoritaria di Hasina, evidenziato anche dalla bassa affluenza elettorale del 42% nel gennaio 2024, seguita dal boicottaggio del Bangladesh Nationalist Party (BNP) e da arresti di massa dei suoi sostenitori. 

Di recente la comunità internazionale ha criticato più volte la situazione dei diritti umani nel paese. Nonostante le tensioni, Hasina non ha allentato la repressione, accusando i manifestanti di tradimento. In questi ultimi giorni la repressione governativa è sfociata in violenza incontrollata. 

Se da un lato i manifestanti hanno dato alle fiamme automobili, autobus e la sede della tv di stato bangladese; dall’altro la polizia e le forze speciali hanno risposto sparando proiettili di gomma e lacrimogeni ad altezza d’uomo e instaurando una specie di legge marziale non dichiarata in tutte le principali città del Bangladesh.

Ora, i manifestanti chiedono giustizia per le vittime e le dimissioni di Hasina, rifiutando le offerte di trattative del governo. Sheikh Hasina è la premier più longeva del Paese, figlia del padre fondatore del Bangladesh e considerata fra le donne più potenti del mondo. Tutto ciò nonostante il Bangladesh sia un paese fortemente ineguale per quanto riguarda l’eguaglianza dei sessi.

A proposito di diritti, vi riporto brevemente una notizia passata quasi inosservata sui media, che mi ha segnalato un nostro lettore/attivista climatico. In pratica nel Regno Unito si è concluso un processo molto rapido nei confronti di alcuni attivisti climatici, fra cui uno dei fondatori di XR e della campagna Just stop oil, e il verdetto è stato fra i più duri in assoluto nel mondo occidentalre verso degli attivisti.

Leggo dal sito inglese Real Media che il processo, durato poco meno di tre settimane, si è svolto presso il tribunale di Southwark, presieduto dal giudice Christopher Hehir. I cinque imputati, tra cui il co-fondatore di Extinction Rebellion Roger Hallam, sono stati accusati di cospirazione per causare disturbo pubblico. La cosa particolare è che l’accusa non deriva da un fatto accaduto ma da una chiamata su Zoom in cui gli attivisti si coordinavano per organizzare un’azione di disobbedienza civile nonviolenta, nello specifico bloccare l’autostrada M25. Nella chiamata si era infiltrata la giornalista del Sun, Scarlet Howes, che successivamente ha passato i materiali alla corte inglese.

Si è trattato di un processo particolare. Durante il processo, riporta l’articolo, molti degli attivisti hanno scelto di difendersi da soli e hanno portato spesso l’attenzione sul tema della crisi climatica come motivazione per le azioni intraprese. Gli imputati hanno cercato di presentare un dossier di prove sulla crisi climatica e sull’inefficacia delle politiche governative, ma il giudice ha escluso queste prove come inammissibili.

Anzi, il giudice Hehir ha interrotto frequentemente il controinterrogatorio degli imputati, rifiutando di considerare rilevanti le prove scientifiche sul cambiamento climatico presentate dagli imputati, citando una precedente sentenza che considerava irrilevanti tali prove in un contesto di stato democratico funzionante.

Nel frattempo fuori dal tribunale, i sostenitori di XR e altri attivisti climatici hanno manifestato chiedendo che la giuria potesse ascoltare tutta la verità. Tuttavia, anche alcuni di loro sono stati arrestati.

Alla fine, il giudice Hehir ha nei fatti impedito agli imputati di discutere del cambiamento climatico come giustificazione delle loro azioni, e la giuria ha emesso verdetti di colpevolezza per tutti e cinque gli imputati. Le sentenze sono arrivate pochi giorni dopo, il 18 luglio e sono considerate le più dure mai pronunciate per delle proteste non violente. Cinque anni di detenzione per Roger Hallam, che appunto è uno dei fondatori di XR e di JSO nonché un agricoltore biologico, e 4 anni per tutti gli altri. Non tira una bella aria.

Tornando su fatti più raccontati dai giornali, giovedì c’è stata anche la votazione per eleggere la nuova Commissione europea e il parlamento ha dato una fiducia piuttosto ampia al cosiddetto Von der Leyen bis, fiducia arrivata oltre che dal blocco centrale e consolidato di Socialisti, Popolari e Renew Europe, anche dai Verdi europei.

In Italia si è parlato della notizia soprattutto in relazione al posizionamento del nostro governo, con Meloni che ha scelto di votare no all’Ursula bis, scelta che a detta di molti analisti potrebbe far scendere le possibilità dell’Italia di avere almeno un Commissario importante dentro alla squadra della Commissione. 

In questo, devo dire, si nota ancora una sorta di provincialismo di molti dei nostri media, che tendono a interpretare ogni cosa come un fatto di politica interna, mentre avrei trovato molto più interessante un racconto di cosa significa questa rielezione non per la politica italiana ma per il futuro dell’Europa. 

Ad esempio è interessante osservare soprattutto il voto a favore dei Verdi, che sembra accompagnarsi a un rinnovato impegno della Commissione sulle tematiche ambientali. Nell’ultima legislatura ci sono state due commissioni e due Von der Leyen, come ci raccontava anche Giovanni Mori in una recente puntata di INMR+. Una prima parte molto incentrata sulle tematiche ambientali, col Green Deal iniziale che era davvero un testo molto molto avanti. Sembrava scritto in alcuni punti da un permacultore come ci ha detto Dario Tamburrano.

E poi una seconda parte un po’ di tradimento di quell’idea, con normative molto depotenziate e una ricerca del consenso a destra.

Ora, che Von der Leyen sarà? L’appoggio dei verdi e le prime dichiarazioni sembrano lasciar ben sperare per una ripresa forte delle politiche ambientali. Certo, resta il tema della postura piuttosto aggressiva e bellicista, che non è una cosa da poco.

Questo weekend è uscita anche la nuova puntata di A tu per tu, il nostro long format dedicato agli abbonati/e. Il nostro direttore DT, che lo conduce, ci ha preso gusto e ha scelto di fare una seconda puntata dedicata al tema del libero arbitrio. 

Che poi scelto: vallo a sapere. Lo ha scelto o era inevitabile che facesse questa scelta? Se lo volete scoprire non vi resta che ascoltare le due puntate.

Allora, ci sarebbero tante altre notizie di cui parlare. Ad esempio la questrione del guasto informatico che venerdì ha mandato in tilt aeroporti, ospedali e infrastruture di mezzo mondo, per via di un piccolo bug nell’aggiornamento di un software.

Una questione che ha reso evidente al mondo la fragilità di avere il mercato informatico dominato da pochissimi attori, con pochissimi software. Un errore o una manomissione in uno di questi software potrebbe causare un collasso informatico in tutto il mondo.

Poi c’è la notizia dei deputati del Gambia che il 15 luglio, dopo mesi di tensioni e forti pressioni internazionali, hanno infine respinto un progetto di legge che avrebbe revocato il divieto di praticare mutilazioni genitali femminili, in vigore dal 2015.

E c’è anche la sentenza – non vincolante – della Corte internazionale di giustizia dell’Aja, il più alto tribunale delle Nazioni Unite che afferma che “L’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele è «illegale» ed è un’«annessione di fatto» che deve cessare «il più rapidamente possibile»”. 

Ci sarebbe molto da commentare anche su queste notizie ma il tempo non è dalla nostra. Vi lascio degli articoli interessanti se volete approfondire. Noi ci rivediamo giovedì.

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