25 Ott 2024

L’attacco dell’orso, il mandato di uccisione e la (dis)percezione del pericolo – #1008

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Si è tornati a parlare di orsi sui giornali e non solo dopo l’aggressione – perlomeno raccontata come tale – di sabato scorso a un uomo che cercava i funghi in Trentino. Aggressione per fortuna che ha causato solo lievi ma per la quale è stato già emesso un ordine di abbattimento per l’orso. Ne parliamo anche grazie all’intervento di Chiara Grasso, che ci aiuta a mettere in proporzione il pericolo orsi. Parliamo anche di due studi abbastanza preoccupanti sulla capacità sempre minore degli ecosistemi di assorbire carbonio e sulla scarsa efficacia delle aree protette nel proteggere la biodiversità, e poi della crescita della domanda energetica dei data center legata all’IA e infine di un interessantissimo progetto che coniuga giovani e agricoltura naturale in Francia, prima di concludere con un articolo sull’idrogeno e la nuova rassegna di Sardegna che Cambia.

Sabato scorso c’è stata un incontro ravvicinato fra un orso e una persona, che è rimasta lievemente ferita, schiacciata dall’animale, mentre cercava funghi. Il ferito è appunto un uomo piemontese di 33 anni che si trovava nei boschi di Trento a cercare i funghi. 

Un fatto che nuovamente ha scatenato la caccia all’orso, con il repentino ordine di abbattimento dell’animale da parte del presidente della Provincia autonoma di Trento, Maurizio Fugatti, come previsto dal protocollo per la gestione degli orsi pericolosi. E con i alcuni articoli di giornale piuttosto urlanti. Però – devo dire, almeno questa volta – sono molti di più gli articoli che ben fatti, che spiegano e contestualizzano il fatto, mentre a prendersela con l’orso è soprattutto una parte della stampa locale.

E questa volta a rompere gli schemi classici e a difendere l’orso si è schierato anche l’aggredito, la persona che si è trovata faccia a faccia con l’orso, che ha rilasciato un’intervista alla Stampa in cui ha raccontato che non si è trattato di un’aggressione ma di un atto di difesa da parte dell’animale:

Leggo: “Mi ha sorpreso alle spalle, buttandomi a terra e schiacciandomi con le zampe. Non mi ha aggredito, non ha usato le unghie per ferirmi, ha solo reagito per difendersi. Ero io nella sua casa, non il contrario”.

Andrea ha spiegato anche che, nonostante i graffi sulla schiena, l’orso non aveva intenzione di attaccarlo in modo aggressivo. “Le unghie non sono retrattili, quindi mi ha graffiato mentre mi schiacciava, ma non ha affondato le unghie. Credo volesse solo dirmi di stare fermo”.

Il tutto è durato solo pochi secondi: “Mi sono guardato attorno e, vedendo che l’orso non c’era più, mi sono rialzato. Non è vero che sono tornato sanguinante a valle, come si è detto. Ho avuto paura, sì, ma sono stato anche fortunato”.

Poi la persona fa una serie di riflessioni interessanti sull’importanza di prendere precauzioni quando si entra nell’habitat di grandi animali selvatici. Riflessioni che mi hanno ricordato molto da vicino la puntata di soluscions in cui il nostro DT dialogava con un esperto di LAV sulle corrette abitudini da tenere nella relazione con i grandi mammiferi selvatici. Se volete la trovate sotto Fonti e articoli.

C’è poi un altro aspetto, a cui si accenna dentro la puntata ed è la dispercezione fra pericolo percepito e pericolo reale di fatti come questo. Ma quanto è grande questa discrepanza? Quanto il pericolo ad esempio di essere aggredito e ucciso da un orso è reale rispetto ad altri pericoli? Lo abbiamo chiesto a Chiara Grasso, etologa e nostra collaboratrice.

Audio disponibile nel video / podcast

Fra l’altro, questa differenza fra percezione e realtà, in casi come questo, è frutto di un bias cognitivo molto specifico, anzi dell’azione combinata di due bias. Per cui, così, di botto, senza senso, ecco che torna la rubrica più amata di INMR, trova il bias. I bias sono quei meccanismi inconsapevoli del nostro cervello che ci portano ad avere delle interpretazioni distorte della realtà. Ce ne sono centinaia, classificati in vario modo. Vi chiedo di segnalarmi, scrivendomi alla mail andrea.deglinnocenti@italiachecambia.org, quale bias è presente in questa notizia. Voglio il nome del bias, non basta che mi spieghiate il funzionamento. Annuncerà il vincitore attraverso newsletter INMR.

Sono usciti due studi molto preoccupanti sulla salute degli ecosistemi e sulla nostra capacità di porvi rimedio. E tocca vederli. 

Del primo ci parla Patrick Greenfield sul Guardian, che scrive: “Ogni notte, miliardi di zooplancton e altri organismi marini salgono in superficie per nutrirsi e poi tornano nelle profondità all’alba, in quello che è il più grande movimento migratorio del pianeta. Questo processo rimuove milioni di tonnellate di carbonio dall’atmosfera, contribuendo ai cicli naturali di assorbimento del carbonio. Insieme ad altri processi, come l’assorbimento da parte degli oceani, delle foreste e dei suoli, la natura bilancia circa la metà delle emissioni umane di carbonio”.

Tuttavia, con l’aumento delle temperature globali, questi processi stanno mostrando segni di cedimento. Nel 2023, che è stato l’anno più caldo mai registrato da quando si registrano le temperature (e plausibilmente da molto prim), la capacità delle terre emerse di assorbire carbonio si è temporaneamente collassata, con foreste, piante e suoli che quasi non hanno praticamente assorbito carbonio. 

In mare, la fusione dei ghiacci in Groenlandia e nell’Artico sta interrompendo correnti oceaniche vitali e rallentando l’assorbimento di carbonio. Inoltre, il maggiore irraggiamento solare dovuto alla riduzione dei ghiacci marini (il cosiddetto effetto albedo) potrebbe stare già modificando il comportamento del plancton, compromettendo il ciclo naturale di sequestro del carbonio nelle profondità marine.

Come ha avvertito Johan Rockström, direttore dell’Istituto di Potsdam per la Ricerca sull’Impatto Climatico e uno dei più influenti scienziati al mondo, autore fra l’altro dello studio sui limiti planetari, il bilanciamento naturale delle emissioni da parte della Terra sta venendo meno. Insomma, sembra che gli ecosistemi non ci stiano più dando una mano nel rallentare il cambiamento climatico. 

Se questo collasso nei sistemi naturali dovesse continuare, potrebbe portare a un riscaldamento globale più rapido rispetto a quanto previsto dai modelli climatici attuali. Oltre a ciò, c’è il tema che anche gli obiettivi fissati per raggiungere la neutralità climatica sono stati calcolati facendo affidamento sulla naturale capacità di foreste suolo e oceani di assorbire carbonio. Se questa capacità viene meno, anche quei piani – che già fatichiamo a rispettare e spesso non rispettiamo – diventano clamorosamente insufficienti.

Attualmente, secondo lo studio, il bacino del Congo è l’unica foresta pluviale tropicale che continua ad assorbire più carbonio di quanto ne rilasci, mentre l’Amazzonia e le foreste del sud-est asiatico stanno diventando emettitrici di carbonio a causa della deforestazione e del riscaldamento globale. Il suolo, che è il secondo serbatoio di carbonio più grande dopo gli oceani, sta diventando meno efficiente nell’immagazzinare carbonio a causa della siccità e della decomposizione accelerata dai microbi.

I ricercatori avvertono anche che i modelli climatici non considerano eventi estremi come gli incendi in Canada del 2023, che hanno rilasciato tanto carbonio in atmosfera quanto sei mesi di emissioni di combustibili fossili degli Stati Uniti. Anche la mortalità degli alberi causata dalla siccità non è ben rappresentata nei modelli. 

Ma se la capacità della natura di assorbire carbonio diminuisce più rapidamente del previsto, sarà necessario ridurre ancora di più le emissioni umane per mantenere gli obiettivi climatici. L’articolo si conclude ricordando che “La protezione dei serbatoi di carbonio esistenti, come foreste e suoli, è cruciale per il futuro”. 

Solo che anche qui abbiamo un po’ un problema. E veniamo così al secondo studio, presentato a Cali, in Colombia, in occasione dell’inizio dei negoziati di COP16 sulla biodiversità, iniziata lunedì e che finirà il 1 novembre.

Secondo questa nuova ricerca, infatti, riportata sempre dal Guardian, stavolta la firma è dell’inviata da Cali Phebe Weston, la biodiversità nelle aree protette sta diminuendo più rapidamente rispetto a quella al di fuori di esse.

L’analisi in pratica mostra che circa un quarto delle terre più ricche di biodiversità è già protetto, ma la qualità di queste aree sta peggiorando più velocemente rispetto a quelle non protette. Utilizzando come indicatore il Biodiversity Intactness Index, i ricercatori hanno scoperto che tra il 2000 e il 2020 questo indice è sceso di 1,88 punti percentuali globalmente. Che nelle aree più ricche di biodiversità è diminuito di più, e questo è abbastanza intuitivo, ma che – fra le aree critiche di biodiversità, in quelle non protette il calo è stato di 1,9 punti, mentre nelle aree protette è stato di 2,1 punti percentuali.

Ora, la differenza in sé non è enorme ma se pensiamo che quelle aree sono protette, spendiamo soldi ed energie per tutelarle, bé ci saremmo aspettati qualcosa di diverso.

Ora il punto è: perché? Le ragioni di questa tendenza sono varie. Una ragione può essere il fatto che spesso, il motivo per cui si sceglie di proteggere un’area è che si sta degradando più rapidamente delle altre. In quest’ottica le politiche di protezione potrebbero comunque aver rallentato un declino che altrimenti sarebbe stato maggiore.

Ma ci sono anche ragioni più struturali. Ad esempio molte aree protette sono progettate per preservare solo determinate specie, senza un approccio olistico per l’intero ecosistema.

In altri casi pesano fattori molto umani. Ad esempio uno studio dell’Università del New South Wales ha esaminato le foreste in 300.000 aree protette a livello mondiale, scoprendo che in molte nazioni ricche di biodiversità, come Indonesia, Repubblica Democratica del Congo, Bolivia e Madagascar, le politiche di protezione sono state quasi del tutto inefficaci, a causa di corruzione, instabilità politica e mancanza di risorse.

Oltre a ciò, La crisi climatica, con incendi e siccità, rappresenta una crescente minaccia per le aree protette, poiché eventi estremi non rispettano i confini stabiliti. Ad esempio, l’Australia, che vantava una solida tradizione nella protezione della natura, ha visto molti dei suoi parchi nazionali distrutti da incendi nel 2019.

Le Nazioni unite hanno questo ambizioso obiettivo del 30×30, ovvero proteggere il 30 per cento degli ecosistemi terrestri entro il 2030. Al momento siamo a circa il 18% delle terre emerse e al 6% delle aree marine che sono protette. Quindi serve un’accelerazione molto importante se si vogliono mantenere gli obiettivi. Ma non solo. Come fa notare Emma Woods, una delle autrici della ricerca, “È essenziale che i decisori politici comprendano che non basta raggiungere numericamente l’obiettivo del 30%, ma è fondamentale concentrarsi sulla qualità della protezione e sulla conservazione effettiva degli ecosistemi”. Insomma, non basta dire di aver raggiunto un obiettivo, per averlo raggiunto davvero.

Sappiamo che per riuscire a continuare a vivere sul Pianeta stando all’interno dei limiti planetari e non basta cambiare un pochino il sistema. Serve una transizione ecologica vera, che includa una rimessa in discussione di modelli economici e sistemi di mercato. Lo dico perché diventa meno utile passare alle rinnovabili se poi non abbiamo dei sistemi per mettere dei limiti ai consumi di energia globale. Senza questi sistemi, le rinnovabili non sostituiranno carbone, petrolio e gas, ma alimeteranno solo i consumi in più, trainati da questa o quella innovazione tecnologica.

E l’innovazione tecnologica del momento, lo sappiamo, è l’IA. ‘ uscito un rapporto di McKinsey che stima che la domanda di carico elettrico per i data center, ovvero i luoghi in cui vengono tenuti e raffreddati i mega computer su che fanno i calcoli per permettere a noi di cercare le cose su Google, fare acquisti online o chiedere qualcosa a ChatGPT, crescerà dagli attuali 10 GW a 35 GW nel 2030. E la domanda elettrica passerà da 62 a 150 TWh. Il tutto trainato appunto dall’IA. Ne parla Rinnovabili.

Una risposta chiesta a ChatGPT richiede fino a 10 volte più elettricità di una ricerca su Google. Senza contare il consumo di acqua di cui parlavamo qualche settimana fa. Già oggi, tra applicazioni dell’IA e addestramento dei modelli, questa tecnologia drena il 10-20% della domanda di energia dei data center.

E in futuro? Qual è la traiettoria dei consumi elettrici dei data center? A livello globale, uno studio recente di Goldman Sachs stimava che entro il 2030 i data center passeranno dall’1-2% al 3-4% del consumo globale di elettricità. Mentre in Europa la crescita sarà ancora più alta, secondo le previsioni, con i data center che rappresenteranno circa il 5% del consumo energetico totale europeo nei prossimi sei anni (rispetto al 2% circa di oggi)”.

Si tratta di un aspetto importante da considerare, nello studio dell’aumento della domanda di elettricità, che fin qui era legata a questioni di transizione energetica, come l’aumento delle auto elettriche, delle pompe di calore e degli elettrolizzatori. Ma al momento, scrive ancora McKinsey, la domanda da parte dei data center potrebbe rappresentare dal 15 al 25% di tutta la nuova domanda netta europea aggiunta fino al 2030”.

Fra l’altro, sempre Rinnovabili racconta come in occasione del primo Data center symposium tenutosi a Roma, siano stati annunciati 30 mld di euro di investimenti in Italia in nuovi data center e 100mila posti di lavoro entro il 2030. Quindi anche il nostro governo si vuole buttare in questo mercato. 

Insomma, lo sviluppo incontrollato dell’AI, in un sistema che ha perso il concetto di limite ed è regolato solo dal mercato, rischia di minare gli sforzi globali di decarbonizzazione. 

Il problema però da questo punto di vista non è l’IA in sé ma il fatto che abbiamo delegato la gestione della domanda e dell’offerta energetica ai mercati. Se non fosse l’IA, probabilmente sarebbe un’altra tecnologia a sostituirla nella domanda di elettricità, un’altra bolla. 

Il fatto è che la crescita economica guidata dai mercati porta inevitabilmente a consumi energetici crescenti, perdipiù indirizzati non dove servono di più ma dove più persone sono disposte a investire. 

Questo per dire che più che bloccare l’IA (cosa che comunque, forse, sarebbe utile fare anche per questioni socio-culturali) serve urgentemente un sistema di cap, un tetto massimo ai consumi energetici che sia compatibile con delle società sostenibili imposto per legge. 

Dopo questa di sequela di notizie un po’ deprimenti voglio chiudere raccontandovi una bella iniziativa, molto sensata a quanto mi sembra, raccontata dal giornale Reasons to be cheerful e che arriva da un piccolo comune francese, chiamato Pau. 

L’articolo si apre raccontando la storia di Lore e Alexandre, una coppia francese che ha lasciato le loro carriere rispettivamente nel mondo dell’arte e dell’ingegneria nel 2019 per dedicarsi all’agricoltura sostenibile. Dopo un periodo di formazione in permacultura in Colombia, hanno cercato opportunità agricole in Francia, ma faticavano a trovare lavoro o tirocini. 

Poi hanno scoperto questo progetto che si chiama “Green Belt” nel municipio di Pau, che affitta piccole parcelle di terreno già attrezzate a giovani agricoltori a un prezzo accessibile, fornendo loro supporto tecnico e commerciale.

Il progetto Green Belt è stato avviato per contrastare la crisi agricola in corso nella regione, dove il 70% dei contadini sta per andare in pensione. Il modello punta su piccole aziende agricole, umane e gestibili da una o due persone, riducendo i costi d’entrata grazie a sovvenzioni europee e a un sistema di affitto a lungo termine. i due ragazzi ad esempio gestiscono oggi una fattoria di due ettari dove coltivano oltre 40 tipi di frutta e verdura, seguendo metodi di permacultura e limitando l’uso di macchinari per ridurre le emissioni.

La coppia, insieme ad altri agricoltori del progetto, beneficia di una rete di supporto che include mercati urbani e ristoranti locali, oltre a un servizio di abbonamento per la consegna di cassette di cibo. Il progetto offre anche consulenze da agricoltori esperti e tecnici, aiutando i partecipanti a superare le difficoltà economiche e ambientali. Se un’azienda fallisce, i partecipanti non subiscono conseguenze finanziarie, ma semplicemente terminano il progetto.

In soli quattro anni, il progetto ha lanciato sei aziende agricole biologiche che producono 240 tonnellate di ortaggi all’anno, oltre a frutta, miele, cereali e prodotti lattiero-caseari. Il successo iniziale ha spinto altri territori in Francia a replicare il modello, e ora ci sono 10 cooperative simili, incluso a Parigi. Quindi una roba davvero davvero interessante. 

Certo, nonostante i progressi, le sfide restano numerosi per i giovani agricoltori. Problemi legati ai cambiamenti climatici, come ondate di calore e piogge eccessive, e la competizione per l’accesso a terre con fonti d’acqua continuano a rendere difficile il percorso. Ma il progetto Green belt sta dando a centinaia di ragazzi e ragazze un’opportunità unica per diventare agricoltori e contribuire a un sistema alimentare più sostenibile.

Siamo in chiusura, oggi è venerdì e come al solito esce INMR Sardegna. Parola ad Alessandro Spedicati.

Audio disponibile nel video / podcast

Vi segnalo anche un articolo sempre su SCC sull’idrogeno che è uno degli articoli più completi che mi è capitato di leggere sul tema. È un’intervista fatta dalla nostra Lisa Ferreli a Laura Cadeddu di ADES, l’Assemblea per la Democrazia Energetica in Sardegna. Ma sebbene abbia un focus sulla Sardegna, è utile a chiunque volesse farsi un’idea sul tema dell’idrogeno. 

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