22 Nov 2024

Il mandato d’arresto internazionale per Netanyahu e Gallant e gli effetti che avrà – #1025

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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La notizia principale di ieri – su questo concordano mi pare tutti i giornali – è il mandato d’arresto emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti del premier israeliano Netanyahu e dell’ex ministro della difesa Gallant. Un atto che forse non avrà conseguenze pratiche immediate ma che comunque qualcosa sposta. Parliamo anche della frustrazione che emerge a Cop29 mentre per la prima volta si ritrova in plenaria la società civile, della Danimarca che ha annunciato ufficialmente la prima tassa al mondo sulle emissioni di agricoltura e allevamenti e delle proteste dei maori in Nuova Zelanda, prima di chiudere con le novità dalla rassegna di Sardegna che Cambia.

Ieri è successa una cosa importante sul fronte israelo-palestinese-libanese. Di quelle cose che forse non segnano delle svolte nel conflitto combattuto, ma che creano dei movimenti più macroscopici nell’opinione pubblica e negli equilibri internazionali.

Anzi, sono successe più cose, ma quella più rilevante, che ha fatto letteralmente il giro del mondo, è che la Corte penale internazionale ha emesso due mandati di arresto non da poco, uno per il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’altro per il suo ex ministro della difesa, da poco silurato, Yoav Gallant. 

Come racconta Domani, l’accusa è quella di «crimini contro l’umanità e crimini di guerra” commessi nel corso di un “attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile di Gaza” iniziato l’8 ottobre 2023.  Più nel dettaglio la Cpi «ha trovato ragionevoli motivi per ritenere che Netanyahu (…) e Gallant (…) abbiano ciascuno la responsabilità penale due diversi tipi di crimine, quello della fame come metodo di guerra (che rientra nei crimini di guerra); e quelli dell’omicidio, della persecuzione e di altri atti disumani (che invece sono crimini contro l’umanità). 

Inoltre, la Corte sospetta che il premier e l’ex ministro della Difesa «siano responsabili, in qualità di superiori civili, del crimine di guerra di aver intenzionalmente diretto un attacco contro la popolazione civile».

Questo verdetto è la fine di un iter iniziato a maggio scorso, quando, racconta il Post. “Karim Khan, il procuratore capo della Corte, aveva chiesto l’emissione del mandato di arresto, ma Israele aveva presentato alcuni ricorsi. La Corte li ha respinti tutti, e ha infine emesso il mandato. Il mandato richiesto dal procuratore Khan riguardava anche due importanti leader di Hamas, Yahya Sinwar e Mohammed Deif, oltre che il capo di Hezbollah Ismail Haniyeh. Tutti e tre però sono stati uccisi da Israele negli scorsi mesi”.

Ora, che vuol dire questa cosa? Cosa succede adesso? I due verranno arrestati seduta stante? In realtà no, e devo dire che questa cosa non succede quasi mai. Perché la Corte non ha una propria forza di polizia e fa affidamento sui singoli stati per arrestare le persone sottoposte a mandato di arresto. 

Ma né Israele, né gli Usa hanno firmato lo Statuto di Roma, cioè il trattato che nel 1998 istituì la Corte penale internazionale, e quindi non ne riconosce la giurisdizione, e non arresteranno i leader.

I paesi firmatari dello statuto però sono 124, e ciascuno di questi avrebbe l’obbligo di arrestare una persona sottoposta a mandato di arresto se si trova sul proprio territorio, e di presentarla alla Corte. Almeno in teoria questo significa che se Netanyahu venisse in visita in Italia (paese che riconosce l’ICC) il governo sarebbe obbligato ad arrestarlo e a presentarlo all’Aia, la sede della Corte, dove sarebbe messo sotto processo.

Nella realtà le cose stanno però molto diversamente, perché la Corte non ha strumenti per costringere gli stati a obbedire ai suoi ordini, ed è successo molto di frequente che persone sottoposte a mandato di arresto abbiano potuto viaggiare tranquillamente in paesi amici, come accaduto anche di recente con il viaggio di Putin, su cui pende un mandato analogo, in Mongolia. 

Quindi ecco, il mandato della Corte non significa granché nella pratica, ma ha un valore invece abbastanza importante a livello di opinione pubblica. Significa che il mondo riconosce che quel governo sta compiendo dei crimini inenarrabili contro la popolazione civile di Gaza, e oramai anche del Libano e che vanno fermati. Che ahimé non servirà a fermare ora il massacro di civili e di molti bambini/e che prosegue quotidianamente, ma è un mattoncino in più. Come si dice, la consapevolezza è sempre il primo passo. Se siamo d’accordo sul fatto che è un massacro, è già qualcosa. 

Anche qui, però, a mettersi di traverso è la politica Usa, che a tratti sembra essere rimasto l’unico paese al mondo che mantiene una certa vicinanza ad Israele. Ieri gli Stati Uniti hanno posto il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedeva un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. È la quarta volta in un anno che gli USA bloccano risoluzioni simili. Anche qui siamo comunque nel campo delle cose fatte per avere un impatto simbolico, dato che nella pratica Israele ha ignorato risoluzioni simili in passato. Devo dire che a volte è disarmante osservare quanti pochi strumenti pacifici e diplomatici ha la comunità internazionale per fermare stragi e invasioni, in Palestina come in Ucraina. Sembra che le uniche opzioni siano: o armiamo una delle due parti e li facciamo combattere, oppure facciamo riunioni, risoluzioni, ultimatum. Possibile che non ci siano strumenti diplomatici più efficaci? O forse ci sarebbero, tipo le sanzioni, gli embarghi, ma non li vogliamo usare?

Comunque, pochi giorni prima Senato degli Stati Uniti – siamo di nuovo su Domani – aveva recentemente respinto tre risoluzioni che miravano a bloccare la vendita di armi a Israele, tra cui munizioni per carri armati, colpi di mortaio e kit per bombe a guida di precisione. Erano risoluzioni presentate dal senatore Bernie Sanders e sostenute da alcuni membri del Partito Democratico, che esprimevano preoccupazione per le violazioni dei diritti umani e l’alto numero di vittime civili nei territori palestinesi, ma appunto, nonostante il sostegno di una parte dei democratici, le risoluzioni sono state respinte con una maggioranza bipartisan. Il Congresso americano sta ancora con Israele.

Che insomma, inizia a diventare un po’ scivolosa come situazione, se oggi abbiamo una CPI che sostiene che Israele usa quelle armi per compiere crimini di guerra, no? È vero che gli Usa non riconoscono quella corte però, ecco… Lo stesso si potrebbe dire della Germania, che è il secondo grande fornitore di armi a Israele dopo gli Usa e che invece riconosce la Cpi. Cambierà qualcosa? Dubito.

Il fatto è che c’è una gigantesca discrepanza fra come i governi e gli apparati statali ragionano e come raccontano le cose. Gli Stati, soprattutto le grandi potenze, ragionano per sfere di influenza, per equilibri geopolitici. Il tema etico, di ciò che è giusto e sbagliato non dico che non esista, ma perlomeno è secondario. Un governo americano ha l’obiettivo di tutelare la sfera di influenza americana (magari anche perché crede ce sia la cosa migliore per il mondo, non lo metto in dubbio). Ma se per farlo deve finanziare governi che fanno cose brutte, come dire, è un male necessario, dal loro punto di vista.

Al tempo stesso però tutta la narrativa delle democrazie liberali occidentali, l’autoracconto che noi facciamo di noi stessi, si basa sui diritti, sulle libertà, e sul fatto (che un po’ è vero, un po’ è enfatizzato) che a noi stanno più a cuore i diritti delle persone rispetto ad altre parti del mondo. Questa narrativa a volte è funzionale se dobbiamo attaccare i nemici che compiono un sacco di cose brutte (e spesso lo fanno per davvero eh). Ma poi va in crisi quando le cose brutte le fanno gli amici e noi dobbiamo comunque continuare a difenderli, perché ci servono. 

E ora siamo in quella situazione lì. E ci accorgiamo che però non abbiamo moti strumenti per intervenire, per fermare la macchina da guerra, perché non è una società realmente costruita sulla tutela dei diritti. Magari un po’ di più che altrove, va bene. E allora, di nuovo, bisogna che questi strumenti iniziamo a costruirceli. E a praticarli.  

Oggi si chiude, almeno in teoria, Cop29, la ventinovesima conferenza sul clima che quest’anno si tiene a Baku, in Azerbaijan. Dico in teoria perché poi sappiamo che spesso questi incontri si prolungano fino al giorno successivo, ma quest’anno forse per la prima volta potrebbe non essercene bisogno. Non perché si sia già deciso tutto in tempo, ma perché siamo così lontani dall’aver preso una decisione sugli argomenti discussi che anche prolungare la conferenza non avrebbe senso. I giornali di settore hanno già iniziato a parlare della peggior Cop di sempre, quelli non di settore l’hanno semplicemente ignorata.

Noi però restiamo sul pezzo e continuiamo a raccontare quello che succede,  meglio che non succede, a Baku. Perché anche sapere che non sta succedendo nulla su uno dei temi più importanti e urgenti dell’attualità, anzi forse della storia della nostra specie, è un fatto. 

Come al solito quindi passo la parola a Viola Ducati che assieme al team di Agenzia di Stampa giovanile si trova a Baku per raccontarci l’andamento dei negoziati in una rubrica in esclusiva che si chiama Linea a Baku. Quindi, Linea a Baku!

Audio disponibile nel video / podcast

Grazie Viola e Giulia, eccovi anche il contributo di Emanuele, un po’ più lungo ma anche immersivo, che ci fa capire meglio il clima che si respirava in questo grande evento partecipato, ma anche come sentirete verso la fine, il clima più generale di repressione in cui si svolge questa Cop.

Quindi, ricapitolando, l’attesa verso i negoziati sta diventando disillusione e frustrazione, e le uniche attività in grado di dare un minimo di speranza sembrano quelle della società civile più che quelle dei negoziatori. 

Un altro aspetto interessante però c’è stato, collegato a Cop29. Domenica 17 novembre Il parlamento danese ha approvato la prima tassa al mondo sulle emissioni di gas serra del settore agricolo che include le flatulenze del bestiame. 

Ne avevamo già parlato mesi fa, quando legge era stata presentata dal governo, ed ora p arrivata la tanto attesa approvazione. In pratica – come racconta Materia rinnovabile, “A partire dal 2030 gli agricoltori danesi dovranno pagare 120 corone (16 euro) per tonnellata di anidride carbonica (equivalente al metano emesso), che diventano 300 corone (40 euro) a partire dal 2035. I proventi dell’imposta verranno restituiti al settore agricolo per sostenere la transizione verde e permettere agli agricoltori di investire in tecnologie low carbon. Con questa misura rivoluzionaria prevede una riduzione delle emissioni di gas serra di 1,8 milioni di tonnellate entro il 2030, la creazione di 80.000 ettari di foreste private e 20.000 di foreste statali.

Mica male! Fra l’altro, come spiega un articolo su Huffington Post, alla misura non sono seguite le rivolte dei trattori ma gli applausi delle associazioni e del mondo agricolo. 

Ora, vi chiederete, come è possibile questo? Il trucco c’è, anche se non si vede. Non è che i danesi sono più bravi, svegli o garbati di noi. No. È che questo risultato, questa legge, è il frutto di un percorso lungo anni e iniziato con una vastissima operazione culturale che doveva preparare il campo al cambiamento, abituare le persone a pensare che certi cambiamenti sarebbero stati necessari ma anche desiderabili. 

Nel 2021 il governo danese aveva annunciato un piano di investimenti di 1 miliardo di corone, circa 170milioni di euro, per finanziare la Formazione degli chef, con: Programmi educativi per chef di cucine pubbliche e private, mirati a insegnare la preparazione di pasti a base vegetale, l’educazione nelle scuole, con l’Introduzione di una maggiore attenzione alle diete a base vegetale nelle scuole primarie, per sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza di un’alimentazione sostenibile, la Ricerca e sviluppo di alimenti a base vegetale, inclusi funghi commestibili, alghe e microrganismi benefici e le Esportazioni, vist che il paese è un grosso esportatore di carne e vuole riposizionarsi come leader delle esportazioni digitali.

Poi, mentre questa gigantesca operazione culturale andava avanti, si è messo in piedi un processo decisionale inclusivo e collaborativo, in cui sono stati inclusi tutti gli stakeholder, la politica, le associazioni ambientaliste, le associazioni di categoria di agricoltori e allevatori e i sindacati. E così si è arrivati alla stesura della legge che poi non ha incontrato ostacoli, perché a quel punto sia la società che i vari settori produttivi del paese erano pronti ad accoglierla.

Insomma, davvero una masterclass di cambiamento. Perché troppe volte ci concentriamo sull’obiettivo mentre ci perdiamo il processo e invece qui quello che conta non è tanto il risultato, ma come è stato ottenuto!

Fra l’altro, l’esperimento danese è stato presentato martedì a Cop29 ed è stato accolto dagli applausi. Il negoziatore danese Aagaard ha detto che spera che l’esempio ispiri anche altri paesi europei, in parte impegnati a contenere le esplosive proteste degli agricoltori.

Intanto In Nuova Zelanda, oltre 35mila persone hanno marciato fino al parlamento a Wellington per protestare contro una legge che, secondo molti, mina i diritti dei Maori e i principi su cui si fonda il Paese. La marcia, chiamata Hikoi mo te Tiriti, è partita dal nord del Paese nove giorni prima e ha attraversato tutta l’Isola del Nord, diventando una delle proteste più grandi degli ultimi decenni.

I manifestanti contestano il tentativo della coalizione di centrodestra, guidata dal partito Act, di reinterpretare il trattato di Waitangi del 1840, un accordo storico tra i colonizzatori britannici e i capi Maori. Questo trattato è considerato un esempio globale per la tutela delle minoranze indigene. Secondo il partito Act, però, il trattato rischia di dividere il Paese in base alla razza, mentre i critici temono che questa “reinterpretazione” possa ridurre i diritti dei Maori.

La protesta ha attirato attenzione internazionale quando la deputata Maori Hana-Rawhiti Maipi-Clarke ha eseguito una haka in parlamento per opporsi alla legge, ma è stata sospesa poco dopo. Intanto, il disegno di legge è stato approvato in prima lettura, ma le tensioni restano alte.

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