10 Mag 2023

ARMI: Usa e Serbia hanno risposto alle stragi in maniera molto diversa – #724

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Le armi da fuoco stanno diventando un problema sempre più grosso negli Usa e in Serbia, dopo le ultime stragi. I due paesi però stanno reagendo in maniera molto diversa. parliamo anche della nuova assemblea costituente di estrema destra eletta nel Cile di Boric, di un editoriale di Naomi Klein sull’AI, della conferenza europea “Oltre la crescita” e di qualche aggiornamento e segnalazione, in conclusione.

La scorsa settimana è stata caratterizzata da fatti simili, tragicamente simili, in due paesi piuttosto diversi. I due paesi in questione sono la Serbia e gli Usa e i fatti sono stragi da arma da fuoco. 

In Serbia ci sono stati ben due attacchi armati in una settimana, ad opera di due soggetti con squilibri mentali, che hanno provocato la morte di 17 persone, tra cui molti bambini, e il ferimento di diverse altre. Della prima delle due stragi, avvenuta in una scuola per mano di un quattordicenne, ce ne ha parlato anche Francesco Bevilacqua in una rassegna della scorsa settimana,

Negli Usa invece sabato scorso nel parcheggio di un centro commerciale a Dallas, in Texas, un uomo con idee neonazista e suprematiste ha ucciso otto persone, mentre pochi giorni prima c’era stata un’altra sparatoria con morti e feriti, questa volta in un ospedale di Atlanta.

Al di là dei fatti di cronaca in sé, tremendi, mi interessa qui vedere quali sono state le reazioni, piuttosto diverse, di questi due paesi. In Serbia racconta il Post, lunedì decine di migliaia di persone hanno protestato contro la violenza da armi da fuoco soprattutto a Belgrado e a Novi Sad. Le proteste sono state indette da una serie di partiti di opposizione al governo populista del Partito Progressista Serbo, di centrodestra: i manifestanti hanno chiesto le dimissioni del ministro dell’Interno Bratislav Gasic e di Aleksandar Vulin, presidente del paese nonché capo dell’intelligence serba, oltre all’imposizione di divieti a una serie di trasmissioni televisive che secondo chi ha protestato promuoverebbero la violenza.

La Serbia, spiega ancora l’articolo, ha norme per la detenzione di armi siano piuttosto rigide ma nonostante ciò è il primo paese in Europa e il terzo al mondo per armi possedute: circa 39 armi ogni cento persone, la maggior parte delle quali detenute senza una valida licenza. Molte sono armi conservate da chi aveva combattuto nelle guerre jugoslave degli anni Novanta.

La classe politica sembra aver reagito positivamente. Il governo ha annunciato misure pi+ restrittive per i possessori mentre venerdì Vucic ha concesso un’amnistia a tutte le persone che possiedono illegalmente armi, invitandole a riconsegnarle alla polizia senza venire punite. L’amnistia è iniziata lunedì e durerà 30 giorni: la polizia serba ha detto che solo nel primo giorno sono state consegnate circa 1.500 armi da fuoco. Inoltre, come spiega su la Svolta Alessia Ferri, “il Presidente si è detto pronto a virare verso un disarmo quasi totale, da perseguire attraverso controlli più stringenti sulle armi, nuove regole per possederle, l’istituzione di una moratoria di due anni sul rilascio dei permessi, verifiche su quelli già in essere e sanzioni più severe per il possesso di armi illegali”. 

Insomma la reazione della classe politica e dell’opinione pubblica serba mi sembra la reazione veemente di un paese scosso, che non vuole che cose del genere succedano di nuovo.

Copione molto diverso negli Stati Uniti. Resto sull’articolo di Alessia Ferri su la Svolta per leggervi che “Il copione del dopo in questi casi è tristemente noto e si è ripetuto anche questa volta, con il presidente Joe Biden che ha ordinato bandiere a mezz’asta sugli edifici pubblici in memoria delle vittime, ribadito la sua ferma condanna alla circolazione indiscriminata di armi negli Usa e la volontà, vana, di arrivare a un giro di vite. «Ancora una volta chiedo al Congresso di approvare una legge che vieti i fucili d’assalto e i caricatori ad alta capacità e che imponga controlli sul background di chi vuole acquistare un’arma. Non abbiamo bisogno di altro per tenere le nostre comunità al sicuro». 

Le reazioni, leggo più avanti, diventano sempre più deboli a fronte di un bollettino quasi quotidiano. Insomma, la società americana sembra reagire in maniera stanca e rassegnata all’ennesima strage. Eppure le dimensioni del problema negli Usa sono impressionanti. 

Dall’inizio dell’anno secondo il Gun Violence Archive, un’organizzazione indipendente di ricerca e raccolta dati sulle sparatorie negli Stati Uniti, ci sono state 202 sparatorie di massa. Nel complesso, solo quest’anno sono morte più di 14.500 persone a causa della violenza armata, 273 sono state ferite in sparatorie di massa e altre 781 ferite. Sono numeri impressionanti, da bollettino di guerra. 

Dal 2020, ci sono stati almeno 600 episodi simili ogni anno in tutta l’America e diversi studi dimostrano che questo fenomeno sta avendo un impatto significativo sulla salute mentale dei giovani, che proverebbero maggiore ansia e stress. Le persone, inoltre, sembrano aver mutato negli anni parte delle loro abitudini, con un terzo degli adulti che afferma di allontanarsi da determinati eventi e luoghi molto affollati a causa della paura.

Ciononostante la lobby delle armi resta molto potente negli Usa, per molte persone il possesso di un’arma da fuoco rientra nelle libertà personali imprescindibili e buona parte della classe politica, perlopiù repubblicana, è schiera a favore delle armi. In Tennessee un giudice ha abbassato il limite d’età per acquistarne una senza bisogno di permessi da 21 a 18 anni, lo stesso giorno in cui in una scuola elementare di Nashville si era consumata l’ennesima strage.

Devo dire che mi colpisce come una società capace, con le sue mille contraddizioni, di grandi proteste e di cambiamenti epocali come quella degli Usa non riesca ad emanciparsi da quella che è di gran lunga il maggior pericolo interno alla sua stessa sopravvivenza. Assieme forse al consumo degli oppioidi. E osservo anche come due stimoli simili possano causare reazioni così diverse in due contesti diversi e paradossalmente come il luogo dove il problema è maggiore, forse proprio per via di una lenta assuefazione, sia quello che reagisce meno, più mollemente. 

Vi ricordate la storia della nuova costituzione cilena? Ne abbiamo parlato diverse volte sia qui su INMR che su ICC, con alcuni articoli di paolo Cignini che spiegavano questo interessantissimo processo partecipativo che aveva portato i cittadini a riunirsi in una serie di cerchi e successivamente ad eleggere un’assemblea costituente, che aveva scritto una nuova costituzione che avrebbe dovuto sostituire quella vecchia, emanata nel 1980 dal regime di Pinochet.

L’esito di questo enorme processo partecipato è stato però infelice. Nel settembre 2022 oltre il 60% dei cittadini ha bocciato la nuova carta in un referendum. Molti la ritenevano troppo di sinistra, troppo sbilanciata verso i diritti delle popolazioni indigene o nella tutela del patrimonio naturale, troppo socialista, insomma tutte cose che in una società molto divisa e tendenzialmente conservatrice come quella cilena hanno portato alla bocciatura. 

Ora però tutta la vicenda ha preso una piega quasi paradossale perché il piano di riscrivere la costituzione è rimasto in ballo e allora domenica scorsa, 7 maggio, le persone sono tornate alle urne per eleggere una nuova assemblea Costituzione che già nelle premesse era molto diversa dalla prima. Se nella prima tornata non potevano essere eletti membri dei partiti politici, stavolta i 50 Consiglieri eletti venivano scelti tra le fila dei partiti politici rappresentati al Congresso. Gli eletti a loro volta dovranno non scrivere, ma approvare una Costituzione scritto da una Commissione di esperti selezionati sempre dai partiti. Un processo lontanissimo da quello avviato durante i movimenti sociali del 2017.

E ancora più lontano, quasi paradossale, è stato il risultato di queste elezioni. Risultato che consegna una schiacciante vittoria al partito repubblicano, di estrema destra, su tutti gli altri settori politici superando anche le coalizioni. 

Inoltre a presiedere la Commissione di esperti nel momento inaugurale è stato scelto Hernán Larraín, già ministro della Giustizia del governo Pinera, presidente dell’UDI che ha storicamente sostenuto la dittatura Pinochet e ha difeso l’ex gerarca Paul Schäfer, accusato di abuso sessuale di minori durante il regime militare. 

Ma come è possibile un cambiamento così radicale? Prova a spiegarlo un articolo a firma di Susanna De Guio su Valigia Blu. In parte secondo alcuni analisti citati dall’articolo potrebbe spiegarsi con una sorte di disaffezione verso il processo, di delusione, da parte dell’ala più movimentista. In altra parte come una punizione verso il governo” che ha portato l’elettorato a scegliere l’opzione repubblicana, rappresentata da Antonio Kast, principale contendente di Boric nelle ultime elezioni presidenziali. Questo sarebbe dovuto sia a fattori esterni, come l’alto livello di inflazione e il rincaro dei prezzi, la precarietà lavorativa lasciata dalla pandemia, ma anche alla poca visione politica del governo Boric, che ha finito per adottare le politiche classiche della destra, tutte orientate sulla sicurezza, la protezione alle forze dell’ordine, la repressione del dissenso.

Mi colpisce poi un dato: più di due milioni di persone hanno scelto questa opzione, quasi il 17% dei votanti. Se si aggiungono i voti in bianco, questo settore di elettori raggiunge il 21%. Non parliamo di persone che non hanno votato (anche perché in Cile il voto è obbligatorio) ma che sono andate ai seggi e hanno disegnato una melanzana (diciamo) sulla scheda elettorale.  

Un indicatore dell’indignazione di fronte a questo percorso costituente che è stato poco trasparente, comunicato poco e male, schiavo delle logiche dei partiti e della dialettica populista soprattutto del partito repubblicano. Un processo che un’ampia fetta della popolazione non è disposta a legittimare, che è stato definito antidemocratico, “una truffa costituzionale, un nuovo tentativo, ancora più sfacciato e aberrante di blindare l’eredità della dittatura”. 

Insomma, la situazione della società cilena appare molto tesa, in tensione fra forze diametralmente opposte, come testimonia anche l’anomala composizione del parlamento, del governo e della assemblea costituente, governate da forze diverse.  

Torniamo a parlare di Ai. Sul Guardian Naomi Klein pubblica un editoriale molto interessante e molto lungo in cui analizza e smonta pezzetto per pezzetto quel tipo di narrativa progressista/ottimista che viene fatta sulla AI soprattutto dai manager delle società che la stanno sviluppando.  

Ve ne leggo un pezzetto, quasi all’inizio, che secondo me ne riassume il senso: “L’intelligenza artificiale generativa porrà fine alla povertà, ci dicono. Curerà tutte le malattie. Risolverà il cambiamento climatico. Renderà i nostri lavori più significativi ed emozionanti. Libererà vite di svago e contemplazione, aiutandoci a recuperare l’umanità che abbiamo perso a causa della meccanizzazione tardo-capitalista. Metterà fine alla solitudine. Renderà i nostri governi razionali e reattivi. Temo che queste siano le vere allucinazioni dell’IA e le abbiamo sentite tutte a ripetizione da quando Chat GPT è stato lanciato alla fine dell’anno scorso.

Esiste un mondo in cui l’IA generativa, come potente strumento di ricerca predittiva e come esecutore di compiti noiosi, potrebbe davvero essere utilizzata a beneficio dell’umanità, delle altre specie e della nostra casa comune. Ma perché ciò accada, queste tecnologie dovranno essere impiegate in un contesto economico e sociale molto diverso da quello attuale”.

La tesi di Klein mi sembra abbastanza convincente. Non fosse altro che questo tipo di narrativa non è nuova ma è stata usata per introdurre praticamente ogni singola novità tecnologica sul mercato nell’ultimo secolo. Il problema spesso, come puntualizza Klein, non è nella tecnologia (anche se il caso della Ai in questo potrebbe fare eccezione), ma nella tecnologia inserita in un contesto di mercato deregolamentato. In un sistema in cui l’unico incentivo è la massimizzazione del profitto privato, per quale ragione dovremmo aspettarci che l’AI, ma appunto vale per ogni tecnologia, sviluppata nel cuore pulsante di questo sistema, sia utilizzata per il bene comune? 

Domande che non sembra porsi, ad esempio, il vicepresidente aziendale e capo economista di Microsoft che possiamo tranquillamente includere nella sfera dei tecnottimisti, e che ha dichiarato al World Economic Forum pochi giorni fa che “non dovremmo regolamentare l’IA finché non osserveremo un danno significativo, in modo da non sopprimere i benefici potenzialmente maggiori”. Mi sembra un ottimo modo per fare una pessima fine. 

Con questo comunque, e ricollegandomi anche alle considerazioni di Klein di poco fa, non voglio dire che non c’è speranza e che moriremo tutti. Semplicemente, non possiamo sperare che le cose stavolta vadano per il verso giusto se prima non modifichiamo profondamente il nostro sistema.

E a tal proposito, segnalo che dal 15 al 17 maggio ci sarà a Bruxelles presso il Parlamento Europeo una conferenza molto grossa, di tre giorni, organizzata da 20 membri del Parlamento europeo provenienti da cinque diversi gruppi politici, con il sostegno del Presidente del Parlamento europeo, Roberta METSOLA e il supportato di circa 50 organizzazioni partner chiamata “Beyond Growth 2023”, oltre la crescita, che punta a riflettere e far riflettere su possibili modelli economici che vadano oltre il concetto di crescita economica. 

Una roba interessante, che cercheremo di seguire il più possibile qui su INMR, e che è indice, l’ennesimo, di qualcosa di grosso che sta cambiando in pancia all’Europa.

  • Nella notte tra lunedì e martedì c’è stato un vasto attacco israeliano sulla Striscia di Gaza, in cui 12 palestinesi sono stati uccisi e più di 20 sono stati feriti: tra i morti ci sono tre importanti leader del Jihad Islamico, gruppo militare e politico che opera soprattutto nella Striscia di Gaza ed è ritenuto un’organizzazione terroristica da alcuni paesi occidentali, inclusi gli Stati Uniti. La Striscia di Gaza è quel territorio al confine tra Israele ed Egitto che dal 2007 è controllato dal gruppo radicale Hamas. (il Post)
  • La provincia di Alberta, nell’ovest del Canada, è devastata dagli incendi boschivi, che hanno costretto già circa 25mila persone ad abbandonare le loro abitazioni. Più di cento i roghi identificati, per i quali il governo locale ha dichiarato lo stato di emergenza. L’Alberta Wildfire ha segnalato 109 incendi selvaggi attivi nella provincia, tra cui 28 fuori controllo. L’agenzia sta esaminando le cause degli incendi e, sebbene le origini di 84 siano ancora sconosciute, gli investigatori sospettano che 15 siano stati causati dall’uomo. (La nuova ecologia)
  • In Russia ieri si è festeggiato il giorno della Vittoria, in maniera abbastanza dismessa, in un’atmosfera dominata dalla paura per attentati con poca voglia di celebrare, così almeno riportano quasi tutti i giornali italiani che ho consultato.

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