20 Set 2024

Alluvioni Emilia-Romagna e Marche, quali sono le responsabilità della politica? – #986

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Le immagini impressionanti della tempesta che ha colpito – di nuovo – Emilia-Romagna e Marche, stanno facendo il giro del mondo. La crisi climatica continua a battere colpi decisi sulle nostre città e infrastrutture, eppure non sembra che le politiche di adattamento climatico stiano procedendo granché. Parliamo anche degli incendi giganteschi che stanno colpendo l’Amazzonia, e di una tecnica per poterli gestire e di un’indagine del Guardian su cosa si cela dietro al successo italiano nella gestione dei flussi migratori. Chiudiamo con le proteste in Sardegna contro i licenziamenti di Glencore.

Abbiamo già parlato della tempesta Boris che nelle scorse settimane si è abbattuta sull’Europa centrale e in particolare sulla Romania, causando una ventina di morti, migliaia di sfollati ed evacuati, la distruzione di infrastrutture come ponti e strade e la devastazione di migliaia di attività, in particolare di aziende agricole. 

Mercoledì la tempesta è arrivata in Italia, abbattendosi soprattutto su Emilia-Romagna e Marche, le due regioni che già sono state recentemente colpite da nubifragi e alluvioni, nel 2023. Causando di nuovo un sacco di danni. Non vi sto a fare l’elenco dei danni nel dettaglio, anche perché è un elenco che si aggiorna ahimè di ora in ora. Piuttosto vi metto qualche link sotto FONTI E ARTICOLI dove trovate notizie sempre aggiornate.

Comunque, in breve, dalla sera di mercoledì 18 settembre è allerta rossa nel bolognese e in Emilia Romagna dove i sindaci hanno deciso di chiudere le scuole nelle zone più sensibili e di allertare la Protezione civile. 

Molti fiumi sono esondati, migliaia di persone evacuate in Emilia Romagna, soprattutto nella provincia di Ravenna, la stessa colpita lo scorso anno da due ondate di piena, ma anche a Forlì e nel bolognese dove la pioggia continua ad essere intensa e incessante. 

Almeno un migliaio di persone, 800 nel ravennate e quasi 200 nel bolognese, hanno passato la notte in centri di accoglienza di fortuna, scuole e centri sportivi, mentre man mano che avanza la piena i sindaci raccomandano di restare ai piani alti o lasciare le case. 

Ci sono problemi anche sulle linee ferroviarie, con cinque linee sospese, sempre in ER, mentre ci sono stati allagamenti e frane anche nelle Marche. L’allerta meteo comunque è presente anche in altre regioni, con allerta arancione in alcune zone della Puglia e della Toscana e allerta gialla in altre 12 regioni. 

Ci sono qui principalmente due questioni da capire: una questione meteorologica, ovvero capire la dinamica della tempesta, perché era così potente e se e cosa c’entrano i cambiamenti climatici. E poi c’è una questione politica, ovvero capire se ci sono delle responsabilità, se si poteva fare qualcosa di meglio, considerando anche i fondi ricevuti dalle regioni e dai comuni dopo le passate alluvioni. 

Sulla questione meteo / clima, ne abbiamo già parlato qualche puntata fa, non torno in tema, ma vi lascio un lungo articolo del Post che ricostruisce la dinamica della tempesta Boris e la inserisce nel quadro globale di un aumento di fenomeni come questo in tutto il mondo. E – spoiler alert – sì, centra la crisi climatica di origine antropica.

Sulla questione politica, la sensazione è che ancora su nessun livello (globale, nazionale, locale) si stia agendo in maniera sufficiente sul tema dell’adattamento climatico, ovvero di fare in modo che quando si verificano fenomeni meteo come questo le nostre infrastrutture, i fiumi, le città siano in grado di tenere botta. Uno degli esempi più citati è quello del muro di cemento costruito in fretta e furia a Faenza per evitare l’esondazione del fiume Marzeno. Un muro costruito nel giro di poche ore, che non ha retto e non ha evitato un nuovo allagamento della città. Capite bene che se è questa la nostra idea di adattamento climatico, iniziare a pensarci quando si è già in mezzo alla tempesta, non funziona granché. Bisogna pensarci prima!

Ovviamente l’adattamento è complicato, perché abbiamo progettato tutta questa roba (città, strade, ponti, argini) in un clima che era sensibilmente diverso da quello attuale. Ma se non investiamo un bel po’ di risorse adesso nell’adattamento, ne spenderemo 10 volte tante per ricostruire, ogni volta, dopo ogni disastro.

In chiusura vi voglio leggere un estratto di quello che Luca Lombroso, climatologo, scrive sulla sua bacheca FB. 

“Sono profondamente sconcertato dalle immagini e dalle notizie che provengono dalla Romagna, nuovamente colpita da una grave alluvione dopo quella terribile del maggio 2023. Questa ennesima catastrofe ci costringe a riflettere, ancora una volta, sui cambiamenti climatici e sull’insufficienza delle azioni concrete, sia a livello globale che locale, per contrastare e prevenire eventi di tale portata. Sia sul fronte della mitigazione che su quello dell’adattamento e della difesa dobbiamo fare molto di più.

Tuttavia, ora non è il momento delle polemiche. Oggi è il momento della solidarietà e dell’aiuto alla popolazione colpita, e ai tanti amici che vivono in questa splendida parte della nostra regione”.

Lombroso poi spiega un po’ l’andamento del meteo che per fortuna dovrebbe migliorare nei prossimi giorni e poi di sofferma sulla situazione della sua città, Modena. Vi leggo anche questo pezzetto di commento perché è un po’ specifico ma emblematico di alcune carenze che non riguardano solo Modena.

“Anche a Modena la situazione è critica, ma non siamo in emergenza. I fiumi, come il Secchia e il Panaro, sono in piena ma “sotto controllo”, ma ogni volta ci troviamo a chiudere ponti di fronte a piene sempre più frequenti. È fondamentale riflettere sui lavori fatti (e non fatti) fino ad oggi: oltre al controverso taglio di alberi alle Casse di espansione del Secchia, le cataste di tronchi continuano a essere accumulate nella golene. Siamo certi che i ben pagati dirigenti degli enti preposti ne siano a conoscenza”.

Poi Lombroso conclude “esprimendo tutta la mia solidarietà alle persone colpite da questa ennesima emergenza. È importante, ora più che mai, che le forze politiche mettano da parte le polemiche e lavorino insieme. Non devono  continuare a negare i cambiamenti climatici, né usarli come scusa per i danni della ormai “nuova normalità”. Serve un fronte comune, con decisioni rapide e interventi concreti per difendere i nostri territori e le nostre comunità”.

Insomma, servono spirito d’iniziativa e collaborazione multilivello Stato.regioni-comuni, anche quando questo significa collaborare con forze politiche opposte. So che è una cosa che fa storcere il naso per primi a noi cittadini, ma la contemporaneità ci richiede di fare questo grosso salto evolutivo e andare oltre ai dualismi. Se riusciamo a farlo noi, poi possiamo anche pretenderlo dai nostri politici. Ci proviamo?

Passando da un estremo all’altro della crisi climatica, e da un elemento a un altro, parliamo di incendi. Perché ci sono parecchie situazioni critiche, i giornali hanno parlato e stanno parlando molto di quella del Portogallo, con le fiamme di oltre 100 incendi che attanagliano il nord del paese, anche alle porte delle città.

Ma forse gli incendi più preoccupanti in un’ottica globale sono quelli che stanno colpendo la foresta amazzonica e altre foreste brasiliane. Secondo quanto riporta L’Indipendente, gli incendi in Amazzonia nel 2024 rappresentano una delle più gravi crisi ambientali degli ultimi decenni, con devastanti conseguenze per l’ambiente e le popolazioni locali. 

Nel solo mese di agosto sono stati registrati oltre 45.400 incendi, un numero che non si vedeva dal 2005, con un aumento del 76% rispetto al 2022. Mentre se allarghiamo il raggio a tutto l’anno, dal gennaio al settembre 2024, sono oltre 70mila roghi che hanno devastato un’area equivalente alla superficie dell’Italia. Una situazione drammatica che ha colpito non solo l’Amazzonia ma anche la foresta Atlantica, il Cerrado e il Pantanal . 

L’emergenza è favorita da una delle peggiori siccità degli ultimi 40 anni, che ha reso la stagione degli incendi più lunga, estendendosi da tre a sei mesi. Considerate che, come racconta Inside Over, oltre il 59% del Brasile è in condizioni di stress idrico, con fiumi storicamente bassi e comunità isolate, aggravando la crisi umanitaria. Le popolazioni indigene sono tra le più colpite, con scarsità di cibo e acqua potabile. 

Anche in questo caso, ahinoi, c’è il nostro zampino, di Homo sapiens, in questo gravissimi incendi, in maniera sia indiretta che diretta. In maniera indiretta perché i cambiamenti climatici hanno reso improvvisamente siccitosa la zona dell’Amazzonia, che si era sempre salvata dagli incendi proprio in virtù della sua umidità. Oggi, invece, le condizioni di siccità prolungata, combinate con temperature fino a 5°C oltre la media, hanno permesso ai roghi di propagarsi rapidamente. 

In maniera però anche diretta perché la principale causa degli incendi è legata all’uso del fuoco per disboscare la foresta, creando spazio per agricoltura e allevamenti. La pratica del “taglia e brucia” alimenta la deforestazione illegale e colpisce duramente gli ecosistemi. Nel 2023, le politiche permissive del governo Bolsonaro hanno favorito la distruzione di vasti tratti di foresta a scopo economico, aggravando la situazione. E sebbene il presidente Lula stia tentando di invertire la rotta, la strada è ancora lunga.

Quindi, di sicuro c’è molto lavoro, sia culturale, che di contrasto alla povertà, da fare. Nel frattempo però gli incendi continuano ad essere un grosso problema in sempre più regioni del Pianeta. Anche perché sono il classico ciclo di retroazione positivo, che alimenta il Cambiamento climatico. Ogni volta che scoppia un incendio, tutta la CO2 assorbita dagli alberi che bruciano nella loro vita torna in atmosfera e inoltre diminuisce il numero complessivo di alberi in grado di assorbire CO2 dall’atmosfera. Senza considerare tutti i servizi ecosistemici svolti dalle foreste. 

Ci sono diversi modi per gestire correttamente un incendio. Oggi su ICC pubblichiamo un articolo che parla di una cosa che si chiama analisi tattica degli incendi, che è un metodo per acquisire ed elaborare dati in tempo reale sull’andamento del fuoco, che permette quindi di prendere contromisure efficaci. Ad esempio in base a questi modelli predittivi si può scegliere dove concentrare gli interventi, con quali tecniche e così via. 

È un sistema interessante e di cui avremo sempre maggiore bisogno, proprio per via del clima che cambia. 

Nell’ultimo anno in Italia gli arrivi di migranti irregolari si sono ridotti di parecchio, un dato esaltato come una grande vittoria da parte del governo Meloni, che su questo tema puntava molto. Il successo della politica migratoria italiana è talmente lampante che persino il nuovo premier laburista Keir Starmer ha detto di voler prendere spunto dalla gestione italiana.

Solo che, dietro a questa riduzione, lontano dai nostri occhi, ci sono storie di sangue e violenze di cui in qualche forma siamo complici. Dopo le dichiarazioni di Starmer infatti il Guardian ha deciso di approfondire con un’inchiesta come funziona il modello italiano.

La base del successo del governo nella gestione dei migranti è il recente accordo dell’Ue, voluto proprio dal nostro governo (ma non solo) con il governo tunisino per bloccare i flussi migratori provenienti dall’Africa Subsahariana prima che raggiungano le coste tunisine. 

Secondo quanto riportato dal Guardian, negli ultimi 18 mesi, centinaia di donne migranti sono state violentate o torturate dalle forze di sicurezza tunisine. Le testimonianze raccolte indicano una pratica sistematica di abusi sessuali e fisici contro i migranti, in particolare donne, che vengono regolarmente derubate, picchiate e abbandonate nel deserto senza cibo né acqua. Le condizioni nei campi profughi, come quello di El Amra, vicino a Sfax, sono descritte come “orribili”, con migliaia di persone intrappolate senza accesso a cure mediche, cibo o acqua potabile.

Ciò che rende la situazione ancora più allarmante è il coinvolgimento dell’Unione Europea, che ha stretto un accordo con la Tunisia per contenere i flussi migratori. L’accordo, che prevede il finanziamento di 89 milioni di sterline per la gestione della migrazione, ha destinato una parte significativa dei fondi proprio alla Guardia Nazionale tunisina, la stessa forza di sicurezza accusata di gravi violazioni dei diritti umani. Nonostante le crescenti preoccupazioni, l’UE sembra chiudere un occhio su questi abusi nel tentativo di bloccare i migranti prima che raggiungano l’Europa.

Insomma, mentre i leader europei vedono nel modello tunisino una strategia efficace per gestire la migrazione, il numero di migranti nei campi intorno a Sfax continua a crescere, con stime che parlano di almeno 100.000 persone intrappolate in condizioni disperate.

E la violenza non si limita agli abusi sessuali. Uomini, donne e bambini vengono picchiati, maltrattati e lasciati a morire nel deserto. Ci sono testimonianze di donne prelevate dalla Guardia Nazionale e violentate in strutture vicine, con urla e pianti che riecheggiano tra i prigionieri. Altri migranti raccontano di essere stati picchiati con manganelli, derubati di tutto ciò che possedevano e abbandonati in prossimità del confine algerino.

Nonostante queste evidenze, l’UE continua a inviare fondi alla Tunisia, e si prevede che i finanziamenti aumenteranno ulteriormente nei prossimi tre anni. Il governo tunisino respinge le accuse, affermando che le sue forze di sicurezza operano nel rispetto del diritto internazionale. Tuttavia, la mancanza di una valutazione sui diritti umani da parte dell’UE prima di firmare l’accordo solleva serie domande sull’integrità del patto.

Le condizioni nel campo di El Amra sono disastrose. Le organizzazioni umanitarie e persino l’ONU non hanno accesso ai campi, lasciando i migranti senza assistenza. Malattie come la tubercolosi, l’HIV e la scabbia si stanno diffondendo rapidamente. La mortalità infantile è in aumento, con bambini che nascono senza assistenza medica e muoiono poco dopo. I migranti, ormai disperati, mangiano animali morti e bevono acqua contaminata per sopravvivere.

Mi rendo conto che sono parole e immagini forti, ma credo anche che siano necessarie. Perché questi bambini, queste persone, sono invisibili. Sono, se volete, in condizioni ancora più disperate dei disperati di Gaza, perché di loro nemmeno si parla. Nessuno sa che esistono, nessuno se ne preoccupa o versa qualche lacrima. 

Non dico che il problema delle migrazioni di massa sia una sciocchezza o qualcosa di facile gestione, non lo è per nessuno stato. Ma penso che alla base di qualsiasi soluzione accettabile dovrebbe esserci la considerazione degli esseri umani, da qualsiasi luogo arrivino. Forse, con le tecnologie belliche attuali, potremmo anche essere in grado di costruire stati militarizzati e fortificati, per resistere alle sempre più ampie orde di disperati senza niente da perdere, migranti climatici, persone che scappano da guerre epidemie, carestie. Ma siamo sicuri che vorremmo vivere in un mondo del genere?

Nella nostra newsletter-editoriale di oggi – a proposito, siete iscritti alla nostra newsletter? – il nostro direttore DT scrive:

“In questi giorni leggevo un romanzo che riproponeva il tema della separazione dei bambini dalle proprie madri ai confini tra Stati Uniti e Messico. Una mostruosità possibile solo grazie al silenzio dei media e alla nostra inerzia di fronte ai problemi. Per fortuna, anche lì molte persone non si sono arrese e decine di famiglie si sono ricongiunte grazie a volontari e avvocati. E allora, in ogni ambito, di fronte ad ogni ingiustizia o problematica, possiamo scegliere. Si può ignorare il problema, si può limitarsi a sbraitare sui social o si può attivarsi per cambiare insieme le cose. E – tra una lacrima e una risata – ritrovare il senso del nostro stare al mondo”.

Penso che lo stesso si possa dire delle tragedie alle porte della Tunisia. A noi la scelta se far finta di niente o fare qualcosa per cambiare le cose.

Audio disponibile nel video / podcast

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