5 Feb 2024

Gli agricoltori protestano anche in Italia. Andiamo alle radici – #872

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Le proteste degli agricoltori sono sbarcate con forza anche in Italia, con blocchi delle autostrade in diverse regioni. Le rivendicazioni, anche da noi, sono abbastanza simili e tirano in ballo la Pac, Politica agricola comune dell’Ue. Tuttavia, la situazione è un po’ più complessa di come potrebbe apparire. Nel frattempo la crisi climatica sta peggiorando drasticamente la salute delle barriere coralline e ha costretto il principale centro studi al mondo ad aggiungere ben 3 nuovi livelli di allarme. 

Ci sarebbero tantissime, ma davvero tantissime cose di cui parlare, ma oggi tocca dedicare un po’ di spazio a una questione. Giorni fa abbiamo parlato delle proteste degli agricoltori in Francia e in diversi altri paesi d’Europa, in una puntata che ha suscitato molto interesse e anche diverse polemiche. Nel frattempo le proteste si sono allargate anche agli agricoltori italiani. 

Perciò è necessario riparlarne, e approfondire anche un filo di più. Per fortuna negli ultimi giorno sono usciti diversi articoli interessanti, e in particolare il manifesto e il Post hanno coperto molto bene la vicenda spiegandone la complessità.

Comunque, partiamo con i fatti più tangibili, come al solito. Le novità sono che, leggo sul Post, “Le proteste degli agricoltori sono arrivate anche in Italia, dopo che si sono diffuse già da inizio gennaio in diversi paesi europei, tra cui Germania e Francia. Dal weekend del 27 e del 28 gennaio alcune centinaia di agricoltori stanno bloccando con i loro trattori diverse strade e caselli autostradali in varie parti del paese, da Nord a Sud.

Nella maggior parte dei casi le proteste sono organizzate da gruppi di attivisti o piccole associazioni, che agiscono in modo indipendente ma hanno alcune posizioni comuni: criticano le politiche agricole europee, considerate eccessivamente ambientaliste e poco attente alle necessità dei lavoratori, sono contrari ai cosiddetti “cibi sintetici” e chiedono al governo italiano di mantenere alcune agevolazioni fiscali a favore degli imprenditori agricoli, che sono in difficoltà a causa dell’aumento dei costi di produzione.

Per ora la principale forma di protesta adottata dai manifestanti è stato il blocco di strade e caselli autostradali in varie parti d’Italia. A Milano, per esempio, martedì quasi 200 agricoltori hanno sistemato i loro trattori vicino a Melegnano, a sud della città; altri hanno bloccato il casello autostradale di Brescia e varie strade in Piemonte e Liguria. Nel Centro e nel Sud il traffico è stato ostacolato in alcune regioni tra cui Puglia, Calabria e Lazio, soprattutto vicino a Orte, e – notizia di ieri – sembra che ci sia l’intenzione di marciare verso Roma. In Toscana da martedì 30 gennaio il Coordinamento nazionale riscatto agricolo (CNRA) sta protestando vicino al casello di Valdichiana, sull’autostrada A1.

Vediamo più nel dettaglio le motivazioni delle proteste. Sempre il Post riporta e riassume le 10 richieste diffuse dal Coordinamento nazionale riscatto agricolo. Si tratta solo di uno dei vari soggetti che sta animando le proteste, ma diciamo che i punti sono abbastanza simili. 

Diversi di questi punti hanno a che fare con la Politica agricola comune, la cosiddetta PAC, ovvero l’insieme di norme che regolano l’erogazione dei fondi europei per l’agricoltura, che comunque è ed è stato uno dei settori più sussidiati, soprattutto in passato. 

In particolare vengono contestate alcune delle norme relative alla salvaguardia ambientale Ad esempio il comunicato del Coordinamento chiede una «revisione completa» della PAC, considerata un esempio di «estremismo ambientalista a scapito della produzione agricola e dei consumatori».

Uno dei punti più criticati è l’obbligo per gli agricoltori europei di lasciare incolto il 4 per cento dei propri campi, in modo da stimolare la biodiversità dei terreni. Gli agricoltori italiani ed europei l’hanno sempre criticato, vedendolo come un’inutile privazione di terreno potenzialmente produttivo. Il vincolo è contenuto nell’ultima versione della PAC, ma fra l’altro non è mai davvero entrato in vigore, dato che nel 2023 è stato sospeso a causa della crisi energetica e della guerra in Ucraina.

Al suo posto, l’Ue ha stabilito che sulla porzione di terreni che dovrebbe rimanere libera si potranno, al momento, coltivare piante considerate benefiche per la terra, come piselli, fave o lenticchie, oppure colture a crescita rapida, che hanno un impatto meno pesante di quelle ordinarie. Detto ciò, commento mio, è una misura molto importante, per contrastare la perdita di biodiversità e il crollo degli insetti impollinatori di cui l’agricoltura, soprattutto quella intensiva, è la principale responsabile.

Gli agricoltori italiani hanno fatto proprie anche alcune delle richieste presentate dai loro colleghi europei, tipo protestare contro l’eliminazione delle agevolazioni fiscali per l’acquisto del gasolio agricolo, il carburante usato dai trattori. È una proposta avanzata dai governi della Francia (che poi l’ha ritirata) e della Germania, ma che in Italia non è mai stata avanzata, anzi l’agevolazione è stata confermata anche per il 2024, anche se gli agricoltori temono che potrebbero essere rimosse nel prossimo futuro, dato che nel 2023 il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica ha inserito l’agevolazione nel “Catalogo dei sussidi ambientalmente dannosi”, che dovranno essere rivisti nei prossimi anni per garantire il rispetto delle norme europee. 

Un’altra richiesta è di «ridurre o addirittura togliere» l’IVA su alcuni prodotti alimentari primari, che oggi sono tassati al 4 o 5 per cento. È una proposta di cui si parla da tempo, ma che sarebbe costosissima: secondo alcune stime lo Stato potrebbe perdere circa 6,5 miliardi di euro all’anno.

Poi c’è quella relativa ai cosiddetti “cibi sintetici”, come la carne sintetica, la farina d’insetti e così via, che gli imprenditori agricoli considerano una minaccia ai loro affari.

Gli agricoltori chiedono allo Stato anche di «contenere la fauna selvatica» e rispondere «direttamente» dei danni che questa causa, e di vietare l’importazione di prodotti agricoli da paesi con standard produttivi e sanitari meno rigidi rispetto a quelli italiani ed europei, riducendo così la concorrenza.

Vogliono infine che il governo istituisca un «tavolo tecnico di soli veri agricoltori», che dovrebbe essere coinvolto ogni volta che si approva una nuova normativa o se ne modifica una già esistente legata al settore agricolo o alimentare.

Quindi, ecco, come vedete le richieste sono varie, e diverse fra loro. Devo dirvi che leggendole così, senza inquadrarle in un contesto più ampio, mi sembrano perlopiù abbastanza assurde. Tranne forse quella di vietare l’importazione di prodotti agricoli da paesi con standard produttivi e sanitari meno rigidi rispetto a quelli italiani ed europei. Ovvero: capisco che se viene richiesto uno sforzo di sostenibilità a chi produce in Europa, allora poi questo fatto non deve essere penalizzante in termini di costo e di mercato rispetto a prodotti che arrivano da fuori Ue. E quella di creare un tavolo tecnico, che è una richiesta di prendere parte alle decisioni, di essere consultati. Le altre mi sembrano rientrare nelle classiche resistenze al cambiamento, da parte di una delle tante categorie che inevitabilmente questo cambiamento dovrà affrontarlo.

Leggendo però alcuni articoli del manifesto, si può avere una prospettiva più ampia. Ad esempio, scrive matteo Bortolon che sebbene le tematiche anti-ambientali abbiano “richiamato l’attenzione dei media”… “Per restituire la complessità della situazione si devono invece citare tre ordini di fattori, che restituiscono alcuni dei nodi strutturali sottostanti alle proteste”.

Il primo è la mercantilizzazione del settore in un quadro di crescente concorrenza, che favorisce le aziende agricole più grandi (si pensi alla distribuzione iniqua delle risorse comunitarie della Pac) con tecniche produttive sempre più dipendenti da pacchetti tecnologici elaborate dai giganti dell’agrobusiness. Il mondo tradizionale dei contadini e le piccole imprese sono sempre più marginalizzate ed indebitate. Fenomeno mondiale ma che si intensifica nel continente con la Ue.

Il secondo è la concorrenza sempre più incrementata da vari accordi di libero scambio come il Ceta (Ue-Canada, in applicazione provvisoria), Ue-Mercosur (con vari paesi dell’America Latina, non ancora in vigore). L’opposizione a tali trattati – che la stampa ha visto bene di glissare – è esplicita, ed ha spinto il ministro francese delle Finanze ad esprimere la sua contrarietà all’ultimo, promettendo l’opposizione della Francia.

Il terzo è la oscillazione dei prezzi dei prodotti agricoli e dei loro fattori produttivi, in specie i fertilizzanti. Il problema è di natura finanziaria, e gli anni seguenti lo scoppio della crisi del 2007-08 ne ha dato una illustrazione eloquente. I prezzi delle derrate alimentari si sono impennati perché nelle maggiori borse mondiali c’è un interscambio di prodotti finanziari legati ad esse”.

Sempre sul manifesto, Fabrizio Garbarino, Allevatore e contadino cooperativo dell’Associazione rurale italiana La via campesina, racconta che “Quello che colpisce partecipando a una qualsiasi delle tante manifestazioni degli agricoltori di questi giorni non è la dimensione dei trattori – tutti molto grandi e quasi di una sola marca – ma l’assenza di qualunque bandiera delle tre organizzazioni professionali agricole cosiddette «maggiormente rappresentative», Coldiretti, Confagricoltura e Cia. La rinuncia del mondo agricolo alla delega è il primo segnale visibile del malessere che si è andato accumulando nel corso degli anni e che di tanto in tanto esplode.

In realtà in Italia non c’è un solo mondo agricolo, ci sono molti mondi che convivono e che non hanno gli stessi interessi. Non sarebbe possibile questa comunanza tra chi riceve meno di tremila euro l’anno di supporto dall’Unione europea e chi ne riceve 500mila. Nessuna convergenza di interessi è possibile tra chi da anni ha scelto l’agricoltura biologica e si impegna per la transizione agroecologica della propria azienda e chi, al contrario, vuole continuare in eterno a seminare mais su mais, accatastare migliaia di animali in stalle o continuare a usare la chimica senza limiti. Il malessere ha origini lontane e profonde.

Le politiche neoliberiste, la deregolamentazione del mercato interno, la spinta verso l’internazionalizzazione dei mercati agricoli con l’illusione che il mercato globale sarebbe continuato a crescere in eterno, la digitalizzazione e l’ingegneria genetica come risposta definitiva all’impatto della crisi climatica sull’agricoltura, oggi mostrano il loro limite assoluto. 

Non hanno fatto aumentare il reddito degli agricoltori, al contrario rendono il futuro molto incerto. Le grandi organizzazioni agricole “maggioritarie” con la loro rappresentanza europea hanno condizionato profondamente la riforma delle politiche agricole comunitarie nel senso che oggi viene contestato”.

Insomma, è difficile bollare tutto questo movimento come se fosse un tutt’uno, perché un tutt’uno probabilmente non è. Gli agricoltori sono stretti nella morsa di diverse pressioni. La pressione del clima che cambia, con siccità e fenomeni estremi che si alternano sempre più rapidamente da una parte, la proliferazione di prodotti finanziari derivati sulle materie prime alimentari, che creano speculazioni sul prezzo, dall’altro, l’internazionalizzazione del mercato agricolo dall’altro lato ancora (sarà un triangolo) mettono alle strette gli agricoltori. 

Che però, mia sensazione, stanno indirizzando il colpevole sbagliato. Perché prenderla contro la sacrosanta misura del 4% di terreno incolto, pretendendo che tutto rimanga uguale, significa non aver capito che niente rimarrà uguale, se non corriamo immediatamente ai ripari. Se vogliamo che esista ancora un’agricoltura, dobbiamo stravolgerla. Altrimenti non ci sarà più alcuna agricoltura. 

Giusto per capire di cosa stiamo parlando, quando parliamo di crisi climatico-ecologica, vi do la seconda e ultima notizia del giorno. Che riguarda la situazione molto preoccupante delle barriere coralline del continente americano. 

Ne parla Graham Readfearn sul Guardian: “Il principale sistema mondiale di monitoraggio dello stress da calore sulle barriere coralline è stato costretto ad aggiungere tre nuove categorie di allerta per rappresentare le temperature estreme in continuo aumento.

Le modifiche introdotte dal programma Coral Reef Watch del governo statunitense arrivano dopo che lo scorso anno le barriere coralline di tutto il continente americano sono state colpite da livelli di stress termico senza precedenti, che hanno provocato lo sbiancamento e la morte di massa dei coralli.

“Stiamo entrando in un nuovo mondo in termini di stress da caldo, in cui gli impatti stanno diventando così pervasivi che abbiamo dovuto ripensare il nostro modo di agire”, ha dichiarato al Guardian il direttore del Coral Reef Watch, il dottor Derek Manzello.

Le barriere coralline sono considerate uno degli ecosistemi più a rischio a causa del riscaldamento globale e ospitano un quarto di tutte le specie marine. L’eccesso di calore infatti può causare la separazione dei coralli dalle minuscole alghe che conferiscono loro il colore e gran parte delle sostanze nutritive. Lo sbiancamento può uccidere i coralli, ma secondo gli scienziati anche quelli che sopravvivono sono più suscettibili alle malattie e faticano a riprodursi.

Fino allo scorso anno la Coral Reef Watch utilizzava 4 livelli di avvisi per le barriere coralline, con il più alto, il livello di allerta 2, che suggerisce che “è probabile un grave sbiancamento e una mortalità significativa”. Alla base di questo sistema di allerta c’è una misura della quantità di stress termico accumulato che i coralli stanno affrontando in un determinato momento.

L’unità con cui si misura è il degree heating weeks, ovvero settimane di surriscaldamento di un grado. In pratica, si accumula 1 DHW se i coralli sono sottoposti per sette giorni a temperature di 1°C superiori al massimo abituale.

Il vecchio sistema di Coral Reef Watch assegnava la valutazione massima a 8 DHW o più, ma l’anno scorso, durante l’estate dell’emisfero settentrionale, vaste aree della barriera corallina in diversi Paesi hanno sperimentato uno stress da calore ben al di là di questa valutazione massima, superando in alcune aree più di 20 DHW. Significa che per 20 settimane le temperature sono state di oltre un grado oltre la norma.

Come spiega al guardian un ricercatore, “Sappiamo che la mortalità dei coralli (mortalità, non sbiancamento) inizia a circa otto gradi di riscaldamento settimanale e sappiamo che ora la situazione sta diventando catastrofica, con oltre 20 gradi di riscaldamento settimanale.

“Quando si supera un valore di ACS pari a 20, è come un ciclone di categoria 5, con danni incredibilmente gravi e drastici. È lo scenario peggiore”.

Così, per registrare questi fenomeni sono stati aggiunti tre livelli, 3 e 4, con Il nuovo livello di allerta 3 che rappresenta i valori di DHW compresi tra 12 e 16 e il livello di allerta 4 da 16 a 20 e il livello di allerta 5 per qualsiasi valore superiore a 20.

“Dover adattare i nostri sistemi in questo modo è una conseguenza inevitabile del cambiamento del clima”, ha detto. “Siamo in un territorio inesplorato in termini di impatto del calore sulle barriere coralline”.

Insomma, notizie come questa ci mostrano una volta di più che siamo in un territorio climatico inesplorato e dobbiamo cambiare rotta molto velocemente. Non è facile, non lo è per niente, e fenomeni come le grandi manifestazioni degli agricoltori ce lo mostrano, così come altri fenomeni sociali come il negazionismo climatico. 

Al tempo stesso, le storie che raccontiamo quotidianamente su ICC ci mostrano che cambiare può essere anche estremamente eccitante, piacevole, appassionante. Cambiare ci fa uscire dalla zona di comfort, ci fa sentire scomodi e insicuri ma anche incredibilmente vivi. E, altre cosa, cambiare insieme è più facile.

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