26 Nov 2024

Un accordo per eliminare la plastica dal mondo è possibile? – #1027

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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La plastica è un grosso problema per gli ecosistemi, e allora ieri è iniziato un altro summit delle Nazioni unite, meno famoso di quello sul clima ma non meno importante in cui si spera di raggiungere un accordo vincolante per ridurre drasticamente la plastica nel mondo. Parliamo anche di femminicidi e ergastoli, delle proteste di Extinction Rebellion a Roma, della più grande area marina protetta del Nord Atlantico e infine di una bella storia di rinaturazione di un lago piemontese. 

Abbiamo da poco salutato, con più disappunto che fiducia, la ventinovesima conferenza sul clima, che ieri è iniziato un nuovo round di negoziati, sempre organizzati dalle Nazioni unite. Si cambia location, non siamo più a Baku, in Azerbaijan, ma a Busan, in Corea del Sud, e si cambia argomento, non più clima ma plastica. E si spera che anche i risultati siano diversi. Ieri, 25 novembre, è iniziato il quinto e ultimo round di negoziazioni per approvare – si spera – un Trattato per porre fine all’inquinamento da plastica.

L’incontro è iniziato appunto ieri e si concluderà, almeno in teoria, il 1 dicembre. Si tratta del quinto e ultimo round di negoziati sulla plastica, quello da cui dobbiamo aspettarci un risultato importante, un accordo sostanziale. Anche se, anche qui, come racconta Internazionale, ci sono forti divergenze tra i 178 paesi partecipanti.

La plastica è un materiale praticamente onnipresente. È talmente pervasiva e rappresentativa della nostra società che alcuni studiosi hanno creato il neologismo plasticocene per indicare la nostra epoca. Si trova sui fondali oceanici, nelle vette dei monti più alti del mondo, sulle nuvole, dentro praticamente ogni essere vivente. Ovunque.

Già: perchè la plastica non viene processata dai microorganismi, ma tende a sminuzzarsi diventando microplastica e nanoplastica. E le microplastiche si trovano in tutti gli alimenti che consumiamo e praticamente in ogni parte del corpo umano, compresi il cervello e il latte materno.

“Nel 2019 – racocnta l’articolo – circa 460 milioni di tonnellate di plastica sono state prodotte nel mondo, una cifra che è raddoppiata dal 2000, secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). In assenza di misure di contrasto, il dato potrebbe raddoppiare nuovamente entro il 2040. 

Oltre il 90 per cento della plastica non è riciclato e più di venti milioni di tonnellate finiscono nell’ambiente ogni anno, spesso dopo pochi minuti di utilizzo”.

Infine, “Prodotta a partire dai combustibili fossili, la plastica è anche responsabile di circa il 3 per cento delle emissioni globali di gas serra”.

Quindi ecco, la plastica è oggettivamente un problema. Anche se è importante ricordarci che non è IL problema, ma lo vediamo dopo.

Comunque, questa conferenza serve a trovare un accordo globale per ridurre drasticamente l’utilizzo di plastica. Come ha detto Luis Vayas Valdivieso, il diplomatico ecuadoriano che presiede i lavori “Questa conferenza è molto più di un appuntamento per mettere a punto un trattato internazionale. È l’umanità che si mobilita di fronte a una minaccia esistenziale”.

Vayas Valdivieso ha ricordato ai delegati presenti che li attendono “63 ore di lavoro” per arrivare a un accordo su questioni spinose come la limitazione della produzione di plastica e la messa al bando delle sostanze chimiche tossiche.

Ma l’accordo potrebbe non essere semplice da raggiungere. Perché se tutti concordano sulla gravità del problema, le opinioni divergono radicalmente su come affrontarlo.

A Busan ci sono due schieramenti contrapposti. Il primo è la cosiddetta “Coalizione dalle alte ambizioni” (Hac), che riunisce un gran numero di stati africani, europei e asiatici favorevoli a un trattato che copra l’intero ciclo di vita della plastica, dalla produzione ai rifiuti. Questa coalizione si batte per obiettivi vincolanti di riduzione della produzione e per imporre cambiamenti nella progettazione dei materiali per facilitare il riciclo.

Lo schieramento opposto, composto principalmente dai grandi produttori di petrolio come la Russia, l’Iran e l’Arabia Saudita, si batte invece per un trattato non vincolante che riguardi solo il riciclo e la gestione dei rifiuti, senza mettere in discussione la produzione.

A causa di queste divisioni, le prime quattro sessioni negoziali hanno prodotto una bozza di trattato di più di settanta pagine che tutti considerano astrusa e inattuabile. Benissimo.

Per uscire dalla situazione di stallo, Vayas Valdivieso ha elaborato una bozza alternativa di diciassette pagine, che è alla base dei negoziati. 

In un comunicato inviato ieri, nel primo giorno dei negoziati, il WWF, una delle principali organizzazioni ambientaliste dle mondo, invita i governi che partecipano a garantire che il Trattato che includa quattro misure globali vincolanti essenziali per l’intero ciclo di vita della plastica:

  1. Divieti globali e l’eliminazione progressiva dei prodotti in plastica e delle sostanze chimiche più dannose e problematiche; 
  2. Requisiti globali obbligatori di progettazione dei prodotti che garantiscano sicurezza e facilità di riutilizzo e riciclo; 
  3. L’individuazione dei finanziamenti richiesti e indicazioni chiare sul come tali risorse saranno distribuite per un cambiamento equo a livello di sistema;
  4. L’identificazione di meccanismi decisionali per garantire che il Trattato possa essere rafforzato e adattato nel tempo.

È un tema, quello della plastica, su cui l’Ue è decisamente all’avanguardia grazie alla normativa cosiddetta Sup, single use plastics, ma tanti paesi del mondo sono ancora molto indietro. 

In generale c’è molta attesa per capire quali saranno le posizioni appunto degli Stati Uniti, uno dei principali produttori di petrolio, e dalla Cina, il primo produttore mondiale di plastica, che saranno cruciali per il successo dei negoziati.

Ma oggi preoccupano soprattutto gli Usa e la vittoria di Donald Trump nelle presidenziali statunitensi suscita forti dubbi tra i partecipanti. Alcuni delegati si chiedono che senso abbia cercare di convincere gli Stati Uniti a firmare un trattato che potrebbero non ratificare mai.

Staremo a vedere, di certo seguiremo la questione da vicino. Ad ogni modo, quando parliamo della plastica è sempre utile ricordarci che sebbene la plastica sia un materiale con alcune caratteristiche particolari, tipo quella di essere praticamente indistruttibile, e con la quale abbiamo avuto la brillante idea di farci tutte cose usa e getta (geniale no: cosa potrei mai fare con un materiale indistruttibile? Ovvio, delle cose che uso una volta e poi le butto”. Mi sembra molto sensato).

Comunque, dicevo, va bene prendersela con la plastica, ma solo se nel frattempo abbandoniamo anche il concetto di usa e getta. perché se pensiamo di sostituire tutti gli oggetti in plastica monouso con altro oggetti di altri materiali ma sempre monouso, abbiamo solo spostato il problema. 

Ieri è stata la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. E nella giornata di ieri sono arrivate anche due svolte importanti in due dei casi di femminicidio più discussi degli ultimi anni. Quello di Giulia Tramontano e quello di Giulia Cecchettin, entrambe uccise dai rispettivi compagni Alessandro Impagnatiello e Filippo Turetta.

Per Impagnatiello, colpevole di aver ucciso la compagna incinta al settimo mese con 37 coltellate, è arrivata la condanna all’ergastolo per omicidio aggravato da premdeitazione e crudeltà. E sempre nella giornata di ieri la stessa pena è stata richiesta dall’accusa per Filippo Turetta. 

Sul tema dei femminicidi, ho trovato molto interessante un articolo scritto su Domani da Elisabetta Moro che intervista Catherine D’Ignazio, autrice del libro “Counting Feminicide”, e spiega come mai è così difficile trovare delle statistiche reali sui dati dei femminicidi. E quindi perché è difficile capire se questo fenomeno è in calo, in crescita, o resta stabile in Italia e nel mondo. 

In Italia ad esempio, spiega la giornalista manca un database istituzionale unico sui femminicidi. Il Ministero dell’Interno si limita a un report settimanale sulle donne uccise in contesti familiari, mentre l’Istat pubblica un report annuale, ma ancora non riesce a seguire pienamente i 53 parametri dell’ONU per identificare i femminicidi. L’unico registro pubblico disponibile è quello dell’Osservatorio Femminicidi del movimento Non Una Di Meno, nato dal basso. Ma quei dati tendenzialmente non finiscono nelle statistiche ufficiali.

A livello globale, molte attiviste femministe raccolgono “contro-dati”, cioè informazioni indipendenti che sfidano i sistemi di potere e spesso rivelano una realtà più drammatica rispetto ai dati ufficiali. Ad esempio, in Messico i femminicidi registrati dalle attiviste sono regolarmente il doppio rispetto ai dati governativi.

Gli ultimi giorni sono stati caratterizzati da diverse azioni di protesta climatiche, in occasione di Cop29, anche da noi in Italia. Ese a Milano gli attivisti/e di Ug hanno bloccato la maratona, a Roma dopo credo anni in cui l’organizzazione aveva abbassato i toni sono tornati a farsi vedere quelli di Xr.

Gli attivisti del movimento ambientalista Extinction Rebellion hanno organizzato un’azione di protesta piuttosto eclatante davanti al Ministero dell’Interno, in via del Viminale a Roma. Un centinaio di giovani ha scaricato letame sul marciapiede con un camion e montato una trentina di tende per accamparsi. 

Durante il blitz, gli attivisti hanno gridato slogan contro le politiche ambientali del governo, denunciando l’aumento degli investimenti nei combustibili fossili e le leggi più severe contro chi manifesta. Alcuni manifestanti hanno cercato di arrampicarsi sugli alberi per esporre uno striscione, mentre altri, all’interno delle tende, sono stati portati fuori dalle forze dell’ordine, che hanno distrutto e sequestrato le attrezzature. Molti hanno praticato resistenza passiva, sedendosi a terra in cerchio, senza opporre violenza.

La polizia ha identificato 106 persone, di cui 68 sono state portate in commissariato per completare l’identificazione. Per 33 attivisti è scattato il foglio di via obbligatorio, con una durata da 3 mesi a 6 anni.

Gli attivisti hanno definito la protesta “colorata e non violenta”, sottolineando che il loro obiettivo era attirare l’attenzione sul clima e sulle scelte governative che, a loro dire, stanno aggravando la crisi ambientale. Lo slogan più sentito era “L’unica sicurezza è questo clima di merda”. Come dargli torto.

Tornando su questioni ambientali, è notizia di pochi giorni fa che il Parlamento delle Azzorre ha deciso di ampliare le loro zone marine protette, rendendole le più vaste di tutto il Nord Atlantico. Un passo che – racconta GreenMe – si allinea con l’accordo Kunming-Montreal del 2022, che fissa obiettivi ambiziosi di protezione del 30% delle aree marine e terrestri entro il 2030.

La nuova legge suddivide le acque delle Azzorre in due grandi categorie: zone “completamente protette“, dove lo sfruttamento delle risorse è vietato, e altre “altamente protette“, dove sono possibili solo attività considerate sostenibili, con un occhio di riguardo per l’ecosistema. È un sistema che punta a preservare luoghi unici come le montagne sottomarine e le sorgenti idrotermali, che sono cruciali per la biodiversità.

Anche qui, come avvenuto per la legge sulle emissioni dell’agricoltura in Danimarca, sembra che questo modello di gestione delle Azzorre sia il risultato di un lungo lavoro di collaborazione. La legge è stata frutto di oltre 40 incontri di negoziazione tra i rappresentanti del governo, dell’industria della pesca, del turismo marittimo e delle organizzazioni ambientaliste, in modo da bilanciare le necessità economiche locali con gli obiettivi di conservazione. Grazie a questa decisione, le Azzorre si pongono come esempio di come la scienza, la partecipazione pubblica e la politica possano lavorare insieme per un futuro ambientale sostenibile e rappresentano un modello di conservazione marina per il mondo intero.

Come ha dichiarato il Presidente del paese José Manuel Bolieiro nell’annunciare la misura, “Proteggere il mare è proteggere l’identità delle Azzorre”. 

Altra storia molto interessante per la rubrica brutte storie finite bene. Siamo in Piemonte e la storia è quella del lago d’Orta, un luogo con una parabola particolare: da paradiso naturale a disastro ambientale e infine a esempio di risanamento. In origine, racconta il sito GeoPop, questo lago glaciale era famoso per la purezza delle sue acque e la ricchezza di pesci, oltre che per il suo paesaggio da cartolina. 

Ma negli anni ’20 è arrivata l’industria tessile, con la Bemberg, una ditta tedesca che ha costruito un impianto a Gozzano. Per produrre il Rayon, una fibra simile alla seta, usavano acqua purissima mescolata a sostanze chimiche, rilasciando poi metalli pesanti come rame e ferro nel lago. In pochi anni, la fauna e il plancton sono spariti, e il lago è diventato una distesa sterile.

Non solo la Bemberg, ma anche altre industrie del secondo dopoguerra – in particolare quelle del cosiddetto  “distretto del rubinetto”, che producevano appunto rubinetti nella zona – hanno contribuito a peggiorare la situazione. I loro scarichi hanno introdotto ulteriori metalli pesanti e sostanze chimiche che hanno reso le acque sempre più tossiche e acide. Negli anni ’80, il pH del lago era sceso a livelli preoccupanti, tra 3.9 e 4.4, quando normalmente un lago sano dovrebbe avere un pH vicino al neutro (7). Questo ha trasformato l’Orta nel lago più acidificato del mondo.

La svolta è arrivata con gli anni ’80-’90, quando si è deciso di affrontare il problema seriamente. Oltre a regolare gli scarichi industriali, è stato adottato un intervento innovativo: il liming, cioè lo spargimento di calcare per riequilibrare il pH. Il carbonato di calcio ha neutralizzato l’acidità, riportando le acque a livelli quasi normali (tra 6.8 e 6.9 nei primi anni 2000). Questo ha migliorato anche la qualità dell’acqua, permettendo ai metalli pesanti di depositarsi sul fondo e liberando il lago dalla loro presenza tossica.

Con questi interventi, il lago d’Orta ha ritrovato la vita: pesci, plancton e altre specie sono tornati a popolare le sue acque, e oggi è di nuovo balneabile. È diventato una meta turistica importante, non solo per gli italiani, ma anche per svizzeri, francesi e tedeschi. Insomma, la storia del lago d’Orta non è solo un racconto di danni da industrializzazione, ma anche una testimonianza di come un ecosistema gravemente danneggiato possa essere recuperato con le giuste strategie e tanto impegno. Gli ecosistemi ci aiutano e sono in grado di recuperare molto in fretta, se li aiutiamo.

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