Ho usato un piccolo trucco, nel titolo di questa puntata. Ho usato dei termini generici, come guerra, senza specificare di quale guerra stessi parlando, con l’obiettivo di attrarre la tua attenzione e trarti in inganno. Perché suppongo, e magari scrivimi se a torto o a ragione, che leggendo il titolo tu abbia pensato alla guerra a Gaza.
Se sei una persona particolarmente attenta ti sarà balzato all’occhio che i conti non tornavano. Non ci sono 7 milioni di persone nella striscia di Gaza, ce ne sono molte meno, quindi magari che ci fosse qualcosa di strano l’hai pensato. Ma la suggestione resta.
Invece stiamo parlando di un altro conflitto, altrettanto tremendo, quello in Congo. Come denuncia in un comunicato l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Iom), agenzia delle Nazioni Unite, “Un numero record di almeno 6,9 milioni di persone sono state costrette a lasciare le proprie case per essere sfollate per il conflitto in atto nella Repubblica democratica del Congo (Rdc) tra i ribelli del Mouvement de 23 Marzo (M23) e le milizie fedeli al governo, segnala l’Onu. Un conflitto che si è intensificato dall’inizio di ottobre nella provincia orientale del Nord Kivu, in particolare a nord della capitale provinciale Goma”.
“Con il conflitto in corso e l’escalation di violenza, la Rdc si trova ad affrontare una delle più grandi crisi umanitarie e di sfollamento interno al mondo. L’Oim sta intensificando i suoi sforzi per affrontare la crisi complessa e persistente mentre il numero di sfollati interni sale a 6,9 milioni di persone in tutto il paese – il numero più alto mai registrato.
La nota spiega anche in breve la cronistoria del conflitto: “L’M23, che dal 2021 ha conquistato aree del territorio nella parte orientale della Rdc, è una delle numerose milizie che dominano gran parte della regione nonostante la presenza di forze di pace internazionali. L’Oim ha segnalato che nell’ottobre 2023 circa 5,6 milioni di sfollati interni vivevano nelle province orientali del Nord Kivu, del Sud Kivu, dell’Ituri e del Tanganica. Nel Nord Kivu fino a un milione di persone sono state sfollate a causa del conflitto in corso”.
L’articolo si conclude con una dichiarazione di Fabien Sambussy, capo missione dell’Oim nella Rdc, che dice: “Per decenni, il popolo congolese ha vissuto una tempesta di crisi. La più recente escalation del conflitto ha sradicato più persone in meno tempo come raramente si era visto prima. Abbiamo urgentemente bisogno di fornire aiuto ai più bisognosi”.
Ora, tornando al piccolo trucco, all’inganno che ho usato all’inizio, come immaginerete è stata un po’ una provocazione, per ribadire che di guerre non ce n’è soltanto una al mondo e soprattutto per mostrare quanto a fondo l’agenda setting dettata dai media condizioni il nostro immaginario. Se io oggi dico La Guerra, la nostra mente vola a Gaza. Se lo avessi fatto fino a un mese fa sarebbe volata in Ucraina. Mai sarebbe finita in Congo, o in altri luoghi del mondo che ci interessano meno, almeno in occidente.
Eppure la guerra in Congo è uno dei conflitti più cruenti della storia recente. La seconda guerra del Congo (formalmente conclusasi nel 2003 ma i cui strascichi sono ancora in corso) è detta anche guerra mondiale africana o grande guerra africana ed è stata la più grande guerra della storia recente dell’Africa (ha coinvolto otto paesi africani e circa 25 gruppi armati).
Secondo una stima del 2008, la guerra e le sue conseguenze hanno causato circa 5,4 milioni di morti, in gran parte dovute a malattia e fame, perciò è stata il conflitto più cruento svoltosi dopo la seconda guerra mondiale. Molti milioni sono stati i profughi e quelli che hanno chiesto asilo nei paesi confinanti. Negli ultimi mesi c’è stata una recrudescenza del conflitto, dovuta alla profonda instabilità interna del paese, e di nuovo si parla di milioni (quasi 7) di sfollati.
Ora, concludendo questa prima notizia, vi dico che nel darla, utilizzando quel titolo ad effetto, ho fatto leva su un bias cognitivo del vostro cervello. E quindi, sì, vi chiedo di individuare il bias cognitivo presente, o meglio indotto dal titolo di questa rassegna.
Per chi fosse nuovo da queste parti, trova il bias è un gioco in cui io vi mostro un bias cognitivo, ovvero uno degli errori logici tipici del nostro cervello, e voi dovete indovinare il nome di questo bias specifico. Ce e sono centinaia, classificati in maniere diverse, e spesso c’è più di una risposta giusta. Il mio giudizio è insindacabile (che bello) e per partecipare dovete fare le seguenti cose:
- iscrivervi alla newsletter di INMR (trovate il link su questa pagina, in alto)
- inviare una mail a andrea.deglinnocenti@italiachecambia.org con il nome del bias che avete individuato
- aspettare di ricevere la soluzione e i nomi di vincitori e vincitrici tramite una newsletter che vi arriverà, voglio darvi qualche giorno in più per riflettere, sabato 11 novembre, quindi fra una decina di giorni. Newsletter in cui comunicherò anche il premio per i vincitori.
Comunque, la provocazione di prima non vuole togliere niente al conflitto che si sta svolgendo a Gaza, che resta probabilmente, al momento, quello con le conseguenze più tragiche in termini di morti, soprattutto bambini, e anche in termini di possibili conseguenze più ampie.
Quindi facciamo qualche aggiornamento anche su quella situazione. La notizia principale è che c’è stato un bombardamento israeliano su un campo profughi che ha causato una strage di civili. In questo caso tutti i giornali principali, ad eccezione di Libero e La Verità, raccontano le cose per come stanno, senza fare troppi sconti. Vi leggo un po’ di titoli delle prime pagine:
“Strage al campo profughi” La Stampa
“L’inferno di Jabalia” la Repubblica
“Gaza, bombe e scontri fra le case” Corriere
“Sangue nei campi profughi, Usa in rivolta contro Biden” Il Fatto Quotidiano
L’unica cosa che noto è che nessun giornale mette un riferimento all’autore di queste stragi, ovvero il governo o l’esercito israeliano, o semplicemente Israele. Lasciando un senso di vaghezza, che non credo sia involontario.
Comunque la notizia è questa: “Martedì pomeriggio un bombardamento israeliano ha colpito la città di Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza, dove si trova il più grande degli otto campi profughi della Striscia, dove vivono 116mila persone. Sono state uccise decine, forse centinaia di civili, anche se non è ancora chiaro quanti, e molti edifici sono stati distrutti.
L’esercito israeliano ha scritto su X che l’area di Jabalia veniva usata dal gruppo radicale palestinese Hamas come centro di addestramento e coordinamento per i propri attacchi.
Al suo interno c’erano 32 strutture gestite dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNRWA), 26 scuole, un centro di distribuzione per il cibo, due centri medici, una biblioteca e sette pozzi per l’acqua.
Secondo diversi esperti, bombardare un’area in cui vivono così tanti civili sarebbe una violazione del diritto internazionale umanitario. Alcuni testimoni hanno raccontato di una situazione ormai tragica dal punto di vista umanitario. «Ero in coda per comprare il pane quando, all’improvviso e senza nessun avvertimento, ho visto otto missili cadere», ha detto un testimone alla CNN «C’erano sette o otto grossi crateri nel terreno, pieni di persone uccise. Sembrava la fine del mondo».
Intanto il governo israeliano continua a chiedere l’evacuazione dei civili dalla parte nord della striscia, ma molti si rifiutano di farlo, perché se è vero che è pericoloso restare in luoghi dove arrivano bombardamenti ormai quotidiani e dove si inizia a combattere una guerra di terra, lo è altrettando abbandonare la propria casa e spostarsi verso Sud, nel pieno dei bombardamenti e senza alcun luogo dove andare.
Fortunatamente, piccola buona notizia, è iniziata la prima evacuazione di civili dalla striscia dall’inizio del conflitto. Mercoledì mattina alcune decine di civili hanno attraversato il varco di Rafah, l’unico collegamento via terra tra la Striscia di Gaza e l’Egitto e altri lo stanno facendo in queste ore.
Comunque, come anticipavamo martedì, l’invasione della striscia è nei fatti iniziata, adesso anche i giornali ne iniziano a parlare apertamente, anche se con toni abbastanza, diciamo, normalizzanti. Non c’è stato un giornale che abbia titolato: iniziata l’invasione. Questo è frutto anche della strategia di Israele, che ha fatto emergere le notizie pezzetto per pezzetto, ha negato che l’invasione fosse iniziata parlando di “incursioni” e “nuova fase” e ha anche (probabilmente) interrotto le comunicazioni dall’interno della Striscia durante le prime fasi dell’operazione via terra.
Dentro ai gabinetti israeliani però ci si interroga sul dopo, e al momento senza particolare successo pare. Come spiega Giacomo Mariotto su Limes, “Rioccupare la Striscia, come richiesto da alcuni esponenti del Partito sionista religioso, sarebbe disastroso. Implicherebbe assumere il controllo di uno dei territori più densamente popolati al mondo, con una popolazione giovane (quasi la metà ha meno di 18 anni) ed educata all’odio di Israele. Ugualmente impensabile sarebbe però un ritiro immediato dopo la fine delle ostilità, anche in caso di eliminazione di Hamas: il vuoto verrebbe presto colmato da altri estremisti locali.
Tutte le altre opzioni, come quella di un’amministrazione civile con il coinvolgimento di alcuni attori arabi, sembrano collidere con l’intento di vendicare militarmente l’umiliazione del 7 ottobre. Quindi con la possibilità di ristabilire la dissuasione perduta. Di certo, senza un piano per il dopo-Gaza Israele perde a prescindere”.
Chiudiamo l’argomento con due aggiornamenti sulle conseguenze esterne del conflitto. Il primo lo riporta Al Jazeera ed è che “Il governo della Bolivia ha tagliato i legami ufficiali con quello di Israele a causa della guerra a Gaza, mentre altri due Paesi latinoamericani, Colombia e Cile, hanno richiamato i loro ambasciatori a Tel Aviv per consultazioni.
Leggo: la Bolivia “ha deciso di rompere le relazioni diplomatiche con lo Stato israeliano in segno di ripudio e condanna dell’aggressiva e sproporzionata offensiva militare israeliana in corso nella Striscia di Gaza”, ha dichiarato il viceministro degli Esteri Freddy Mamani in una conferenza stampa martedì sera.
La seconda notizia è che una protesta pacifista ha interrotto, negli Usa, la testimonianza del segretario di Stato Antony Blinken durante un’udienza della Commissione del Senato. Il gruppo di attivisti che chiedeva il cessate il fuoco a Gaza è entrato nelle sale del Congresso e ha interrotto a più riprese l’udienza, che era stata convocata per presentare il pacchetto da oltre 100 miliardi di dollari chiesti dalla Casa bianca per finanziare gli aiuti ad Ucraina e Israele, il sostegno a Taiwan e il rafforzamento della sicurezza al confine.
Insomma, se è vero che è un mondo sempre più a blocchi, è altrettanto vero che questi blocchi non sono internamente solidi e coesi, e questo mi pare un buon segno. Un segno di vitalità delle nostre società. Sarebbe importante dar voce a queste diversità e trovare le forme per alimentare un confronto e un dibattito costruttivo, e non la classica polarizzazione interna.
Siamo in tema guerra e stragi, non un bel tema, lo so, ma questo è, e in qualche forma ci restiamo, anche se cambiamo specie. Dai sapiens, passiamo ai cavalli. Vi do una notizia che ci ha colpito molto in redazione, anche se non è che stia facendo il giro dei giornali.
In pratica, lego da un articolo di Andrea Centini su Fanpage, “Il governo del Nuovo Galles del Sud (NSW) in Australia ha deciso che ucciderà almeno 16.000 cavalli selvatici presenti nel Parco Nazionale di Kosciuszko. Per eseguire la mattanza degli equini sarà utilizzato un metodo controverso: i cavalli, infatti, saranno abbattuti dal cielo, da cecchini appostati sugli elicotteri. La tecnica era stata già impiegata per ammazzare 600 cavalli (in soli tre giorni) nel 2000, ma fu immediatamente bloccata a causa delle asprissime polemiche che suscitò nella Terra dei Canguri. Da alcuni anni, tuttavia, si pensava di reintrodurre le uccisioni dagli elicotteri; ora è arrivato il sì definitivo da parte di Penny Sharpe, ministro dell’Ambiente del Nuovo Galles del Sud.
Ma perché? “L’obiettivo delle autorità è ridurre la popolazione di cavalli selvatici “brumbies” – derivati dai cavalli domestici importati in Australia dai coloni europei nel XVIII secolo – a soli 3.000 esemplari entro il 30 giugno del 2027”, rispetto agli attuali 19mila.
Questo perché, leggo, “i cavalli sono una specie aliena e invasiva in Australia” e “a causa del loro numero considerevole e in costante crescita, rappresentano una minaccia significativa per la flora e la fauna locali, già ampiamente devastate dalle introduzioni di specie aliene”. A essere particolarmente in pericolo, sarebbero alcune specie autoctone delle Alpi australiane, a causa del continuo calpestio, del pascolo, dell’erosione del suolo, della contaminazione delle pozze d’acqua e della distruzione delle tane provocati dai cavalli.
I brumbies – questo il nome con cui gli australiani chiamano i cavalli selvaggi – hanno danneggiato “almeno 25 specie di flora alpina minacciate e 14 specie di fauna alpina minacciate, tra cui l’iconica rana corroboree, il ratto dai denti larghi (Mastacomys fuscus NDR) e rare orchidee alpine”. Nel mese di maggio il comitato scientifico federale dedicato al monitoraggio delle specie minacciate aveva evidenziato in un nuovo rapporto che i cavalli selvatici, molto probabilmente, avrebbero portato all’estinzione di sei specie di animali e due di piante autoctone in grave pericolo. Da qui la decisione.
Decisione che, almeno a detta della ministra dell’ambiente del NSW Penny Sharpe, non è stata presa alla leggera. La politica ha detto di essere consapevole che la decisione avrebbe sconvolto diverse persone, aggiungendo di essersi immedesimata “in coloro che si sentono angosciati dal fatto che dobbiamo intraprendere programmi di controllo”. Ma ha aggiunto che non ci sono alternative; tutte quelle che sono state vagliate e presentate non sono state valutate come sufficienti, per raggiungere un numero di cavalli compatibile con la salvaguardia degli ecosistemi minacciati.
Ecco. È una notizia destinata a smuovere molto dentro alle persone e che va maneggiata con cautela. Tira in ballo tanti elementi. Non sto qui a sviscerarli tutti, ma mi limito a dare qualche spunto di riflessione, pubblicheremo nei prossimi giorni su ICC un articolo più approfondito.
Inizio dicendo che sento un profondo dolore nel leggere una notizia come questa. La mia biofilia, il legame che proviamo con il resto del mondo naturale, soffre all’idea che degli esseri viventi, delle creature intelligenti e maestose siano brutalmente uccise da dei cecchini. E mi chiedo: possibile che non esistano altre soluzioni? Me lo chiedo davvero, perché c’è una parte di me che non vuole accettare questo fatto, ma magari è davvero così.
Mi sento un po’ all’interno dell’enigma del carrello: è meglio non fare niente e lasciare che i cavalli facciano estinguere altre specie, oppure evitare l’estinzione, ma uccidendo di mano nostra i cavalli? Quale bene dobbiamo preservare, le vite di tanti singoli cavalli o l’equilibrio degli ecosistemi?
Ovvio che sullo sfondo c’è una nostra enorme responsabilità, da cui dovremmo almeno imparare qualcosa per il futuro: meno interveniamo sugli equilibri naturali meglio è. Ma a danno fatto, cosa è giusto fare?
Altre riflessioni riguardano la tipologia di animale. Ammetto che lo stesso effetto di questa notizia non me l’ha fatta l’uccisione dei milioni di granchi blu. Sulla stessa scia, e riprendendo il dilemma del carrello di prima (se non sapete cos’è cercatelo su Google), a impatto mi fa più impressione l’idea che dei Sapiens, ovvero degli animali, uccidano dei cavalli, altri animali, rispetto a quella che quegli stessi cavalli uccidano (con meno consapevolezza) altre specie magari portandole all’estinzione. Ma è giusto? Spesso le specie più importanti per gli equilibri degli ecosistemi sono quelle verso cui proviamo meno empatia, come gli insetti, i lombrichi, tanti microorganismi.
Insomma, ho un sacco di domande, e poche risposte. Fatene quello che volete.
Chiudo – prima di passare la parola a Daniel tarozzi per la rubrica la giornata di ICC, con una piccola aggiunta rispetto alla notizia che abbiamo dato martedì dell’Uragano Otis che ha spazzato via la città messicana di Acapulco.
Al di là della situazione disastrosa in cui versa la città, la vera notizia in questo caso, almeno dal punto di vista climatico, è che l’uragano Otis, che si è intensificato in maniera rapidissima e inaspettata, ha messo in crisi tutti i modelli esistenti che prevedono l’evoluzione degli uragani, sui quali si basano anche i vari sistemi di allerta.
È anche questo il motivo per cui ci sono stati tutti questi danni e vittime. nessuno era preparato e ad oggi i meteorologi continuano a interrogarsi su cosa sia successo esattamente. Vi lascio qualche articolo in inglese, se volete approfondire.
Adesso la parola al nostro direttore Daniel Tarozzi per la consueta rubrica La giornata di Italia che Cambia.
AUDIO DISPONIBILE NEL VIDEO/PODCAST
#Congo
Ansa – Onu, in Congo 6,9 milioni sfollati interni, ‘numeri mai visti’
#Gaza
il Post – Il bombardamento israeliano sul campo profughi di Jabalia
Altreconomia – “Avete presente Gaza?”. Vittorio Arrigoni e il silenzio del “mondo civile”. Ancora assordante
Al Jazeera – Bolivia cuts ties with Israel; other Latin American countries recall envoys
Limes – Senza un piano per il dopo-Gaza, Israele perde a prescindere
il Post – È in corso la prima evacuazione di civili dalla Striscia di Gaza
il manifesto – Al Senato Usa irrompe la protesta pacifista: «Cessate il fuoco»
#clima
The Eye Wall – Trying to make sense of why Otis exploded en route to Acapulco this week
il Post – Le contraddizioni sul clima in un panino
#cavalli @Australia
Fanpage – L’Australia ucciderà 16.000 cavalli selvatici dal cielo, con cecchini appostati sugli elicotteri
#idrogeno
Altreconomia – La bolla (sporca) dell’idrogeno
#lagiornatadICC
Italia che Cambia – Chemical Bros, il documentario sui danni causati dall’industria del fluoro
Italia che Cambia – Viaggiare Green, la Sardegna autentica e sostenibile in un progetto di turismo lento e social
Italia che Cambia – AlmaGea, in Sicilia una casa per gli animali in difficoltà
Italia che Cambia – Cohousing Agricolo Andirivieni: condivisione e solidarietà nel verde della campagna
Italia che Cambia – La storia di Tommaso: “Così ho creato TooMe, il mio laboratorio di upcycling per capi unici”
#subcomandante Marcos
la Repubblica – Chiapas, il subcomandante Marcos esce di scena con una poesia: “Continuate a combattere”
#mondiali
il Post – I Mondiali di calcio del 2034 si terranno in Arabia Saudita
#Hong Kong
il Post – Il principale partito pro-democrazia di Hong Kong è stato escluso dalle elezioni locali
#podcast
Italia che Cambia – Non funzionerà mai? Scopriamo se è vero con il nuovo podcast di Italia che Cambia