Domani, 22 aprile, è l’Earth Day 2023, la giornata della Terra. Spesso negli anni passati su questo format abbiamo dedicato puntate retrospettive in cui ricostruiamo la storia di questo evento e di come è nato. Ve ne lascio almeno una sotto Fonti e Articoli se siete curiosi e volete saperne di più sull’Earth Day. Altre volte ne abbiamo approfittato per chiederci come sta la Terra, per fare un po’ il bilancio, come risultati spesso scoraggianti. Quest’anno però voglio celebrare questa occasione raccontando cose belle che stanno succedendo.
Mi sono dato come criterio quello comunque di selezionare notizie di questi giorni, uscite nel corso di questa settimana, per avere il polso di quante cose belle succedono nel corso di una settimana. Che poi in realtà la selezione è limitata alle cose belle di cui abbiamo traccia, il che equivale a dire che sono state fatte o perlomeno osservate da un essere umano. Nessuno saprà mai se è nata una cucciolata numerosa di una specie in via di estinzione, se qualche ecosistema fragile ha dato cenno di ripresa e così via.
Insomma, è ovviamente e inevitabilmente una prospettiva almeno in parte antropocentrica quella con cui osserviamo il Pianeta, per quanto proviamo a spogliarcene. E d’altronde anche il fatto di definire queste “belle notizie” è tipico di noi Sapiens. Sia perché bello e brutto, buono e cattivo sono classificazioni umane, sia perché in fin dei conti al Pianeta non frega niente se alteriamo gli equilibri degli ecosistemi. Al limite siamo noi ad estinguerci, il pianeta starà benissimo. Quindi ecco, parliamo di notizie belle per noi umani, in cui c’entra qualcosa l’essere umano. Comunque fatta questa premessa Devo dire che ne ho trovate parecchie e ne ho selezionate cinque, quelle che mi sembravano più significative.
Vi ricordate quel progetto che si chiamava Ocean Cleanup, che prometteva di ripulire gli oceani dalla plastica? Che fine ha fatto? Ecco, pare che stia funzionando e anche molto bene! Scrive Sabrina del Fico su GreenMe: “L’organizzazione no profit Ocean Cleanup ha appena annunciato di aver recuperato dalle onde degli oceani 200.000 kg di rifiuti”.
La storia di Ocean Cleanup inizia più di dieci anni fa, nel 2011, quando un adolescente olandese di nome Boyan Slat si sorprese vedendo più sacchetti di plastica che pesci durante le sue immersioni subacquee, mentre era in vacanza in Grecia.
Da quel momento, il giovane studiò l’origine geografica della plastica, il trasporto di questo materiale inquinante grazie alle correnti oceaniche, la creazione di vere e proprie isole di plastica che galleggiano in mezzo agli oceani (la più grande delle quali è il Great Pacific Garbage Patch).
L’anno successivo, forte delle conoscenze acquisite in materia, Boyan tenne un discorso TEDx sulla necessità urgente di liberare gli oceani dalla plastica utilizzando la tecnologia. Quel discorso, divenuto virale grazie ai social, è ciò che gli ha permesso di fondare l’organizzazione Ocean Cleanup.
L’idea originaria era di creare degli enormi braccia galleggianti che filtrassero l’acqua marina per recuperare i pezzi di plastica galleggianti. L’idea si è scontrata con una serie di problemi pratici: ad esempi, di che grandezza fare le reti di filtraggio, per evitare di intrappolare i plancton ma riuscire a intrappolare i pezzetti di plastica? Anche perché il grosso problema della plastica in mare è che l’azione combinata di sale, sole e moto ondoso la riduce in pezzetti minuscoli chiamati micro o nano plastica (a seconda della dimensione) e ben prest diventa praticamente impossibile da eliminare.
Perciò, dopo molti anni di ricerca e test, scrive l’articolo “oggi l’organizzazione dispone di tecnologie efficaci che intercettano e bloccano i rifiuti plastici già nei fiumi, prima che questi possano raggiungere gli oceani, minacciando la sopravvivenza degli animali marini”. Che mi sembra una conclusione intelligente.
Al tempo stesso, visto che negli oceani c’è comunque una quantità enorme di plastica, per rimuovere almeno quella frazione ancora parzialmente integra gli attivisti dell’organizzazione hanno messo a punto barriere artificiali a forma di U che, come fossero una gigantesca rete, trascinano la plastica dispersa e la concentrano in appositi contenitori, sottraendola al moto delle onde.
L’obiettivo, ambizioso, è quello di riuscire a eliminare almeno il 90% dell’inquinamento da plastica galleggiante negli oceani di tutto il mondo entro il 2040”.
Sono felice di aver letto questa notizia perché mostra come questo progetto sia stato in grado di evolvere e capire che per tamponare meglio la situazione della diffusione della plastica negli ecosistemi era meglio risalire un po’ a monte, nei fiumi.
Aggiungo che, se vogliamo risolvere il problema della plastica negli oceani e raggiungere l’obiettivo ambizioso del progetto, non basta rimuoverla, tocca fermare il flusso. Come scriveva tempo fa Naomi Klein in un articolo mi pare sul Guardia, se hai dimenticato il rubinetto aperto e hai casa allagata, la prima cosa da fare è chiudere il rubinetto. Dobbiamo chiudere il rubinetto della plastica. E anche su quel fronte devo dire che, almeno in Europa, non sta andando poi così male, con le nuove direttive che vietano la plastica monouso.
Parliamo di rinnovabili, un argomento che non può mai mancare quando facciamo un elenco di cose positive che stanno succedendo nel mondo. Perché, pur con le loro contraddizioni come ogni csa umana, la rivoluzione delle fonti rinnovabili è qualcosa di completamente impensabile fino a qualche anno fa. In questo caso le novità ce le riferisce Maurizio Bongioanni su Lifegate: “Le notizie sono due: l’eolico e il fotovoltaico hanno raggiunto la quota record del 12 per cento dell’elettricità globale nel 2022, rispetto al 10 per cento del 2021. Inoltre, gli esperti ritengono che il tanto atteso picco delle emissioni del settore elettrico sia stato raggiunto.
Questo è quanto emerge dalla quarta edizione dell’annuale Global electricity review di Ember che presenta i dati del 2022 di 78 paesi. L’energia solare è stata la fonte di energia elettrica in più rapida crescita per il diciottesimo anno consecutivo, con un aumento del 24 per cento rispetto all’anno precedente. La generazione eolica è invece aumentata invece del 17 per cento nel 2022.
Il rapporto prevede che il mondo ha raggiunto il picco delle emissioni legate alla generazione elettrica e che a partire dal 2023 l’eolico e il solare spingeranno il mondo verso una nuova era di diminuzione della produzione da fonti fossili e quindi di riduzione delle emissioni del settore energetico.
Ora, vi chiederete, ma se produciamo così tanta energia rinnovabile in più ogni anno da quasi vent’anni, come è possibile che il picco delle emissioni della generazione elettrica non sia già arrivato? Per picco si intende il punto più alto di una curva, in cui si tocca il valore massimo e poi si inizia a scendere. Il motivo è semplice, il consumo di elettricità nel mondo è sempre cresciuto più delle rinnovabili. E quindi la crescita delle rinnovabili ha coperto fin qui solo parte dell’energia in più prodotta rispetto all’anno precedente. Da quest’anno invece la crescita delle rinnovabili dovrebbe superare la crescita della produzione elettrica, e quindi difatto andare a far diminuire la produzione fossile.
Vediamo un po’ di altri dati dello studio: i dati rivelano che già oggi oltre sessanta paesi generano più del 10 per cento della loro elettricità da energia eolica e solare. Nonostante questi progressi, però, il carbone rimane la principale singola fonte di elettricità a livello mondiale, producendo il 36 per cento dell’elettricità globale nel 2022.
C’è poi un altro dato rilevante evidenziato da Ember: la crescita della generazione eolica e fotovoltaico nel 2022 ha soddisfatto ben l’80 per cento dell’aumento della domanda globale di elettricità. Nonostante la crisi globale del gas e i timori di un ritorno al carbone, è stato proprio l’aumento dell’eolico e del solare a limitare l’incremento della produzione di carbone (+1,1 per cento). Senza rinnovabili, questo numero sarebbe stato sicuramente più grande.
Anche qui, alla fine della notizia tocca aggiungere qualche elemento di ragionamento. Perché abbiamo visto in altre puntate come già con la crescita attuale le rinnovabili iniziano a richiedere risorse sempre più ingenti, che spesso diventano motivo di nuove devastazioni di foreste primarie, dove vivono popolazioni incontattate, o di fondali oceanici. Ciò significa che oltre a compiere questa fondamentale transizione verso le rinnovabili dobbiamo a) sviluppare soluzioni più efficienti di riciclo dei materiali (soprattutto per quanto riguarda le batterie) e b) dobbiamo ridurre drasticamente i consumi di energia. Non possiamo pensare di sostiutuire tutta l’energia che produciamo oggi da carbone, petrolio, gas e nucleare con le rinnovabili, perché creeremmo nuovi danni, da altre parti.
E allora parliaMo di diminuzione dei consumi. Anche qui, almeno su un settore specifico, arrivano spesso buone notizie. Mi riferisco a uno dei settori più impattanti e inquinanti, quello della carne e, un passetto più a monte, degli allevamenti intensivi. Carlotta Garancini su Lifegate racconta come sta avvenendo la transizione verso una dieta più sostenibile in Germania: “Nei piatti della gastronomia tedesca, la carne ci entra sempre meno. Nel 2022, con 52 kg a persona, il consumo di carne pro capite è diminuito di circa 4,2 kg rispetto al 2021 (nel 2017 era di 60 chili) ed è al minimo storico da quando sono iniziati i calcoli dei consumi nel 1989. E, secondo il Centro federale di informazione per l’agricoltura (Bzl) della Germania che ha divulgato i dati, questa tendenza, già in atto da qualche anno, continuerà in futuro.
In particolare, i tedeschi nel 2022 hanno mangiato circa 2,8 kg in meno di maiale, 900 g in meno di manzo e vitello e 400 g in meno di pollame. Anche la produzione negli allevamenti è diminuita come raccontano i dati dell’Ufficio federale di statistica: rispetto all’anno precedente, nel 2022 è stato prodotto il 9,8 per cento in meno di carne suina, l’8,2 per cento in meno di carne bovina e il 2,9 per cento in meno di carne avicola. In verità, la produzione nazionale di carne è diminuita ogni anno dopo il record del 2016 (8,3 milioni di tonnellate di carne prodotte), ma mai quanto nel 2022 (-8,1 per cento rispetto al 2021 con un totale di 7 milioni di tonnellate di carne prodotte).
Ma quali sono i motivi di questa diminuzione? Oltre al maggiore interesse delle persone per una dieta a base vegetale – secondo recenti studi il 10 per cento della popolazione tedesca è vegetariana, il 2 per cento vegana – , potrebbero aver influito anche i prezzi raggiunti dalla carne nell’ultimo anno (+14,5 per cento in media).
Fra l’altro, anche se ho trovato dati un po’ discordanti a seconda di chi effettua la ricerca, pare che il consumo di carne stia scendendo in quasi tutti i paesi europei.
Torniamo in Italia, per parlare di cicloturismo. Sappiamo che il turismo è un altro settore molto impattante dal punto di vista delle emissioni di CO2 e dell’alterazione degli equilibri degli ecosistemi. Il problema non è tanto il fatto che ci spostiamo o visitiamo luoghi diversi da casa nostra, ma è soprattutto come lo facciamo. E sicuramente il mezzo che scegliamo per spostareci ha un grosso impatto, in positivo o in negativo.
Da anni su ICC raccontiamo storie di turismo lento e a basso impatto, a piedi o in bicicletta e avevamo la sensazione che fosse una tendenza in forte crescita. Dico sensazione perché noi tendenzialmente raccontiamo storie di persone o di organizzazioni. A volte le storie possono essere semplicemente dei casi isolati, delle eccezioni. Altre sono il sintomo di fenomeni più ampi. Nel caso del cicloturismo vale la seconda.
Come racconta Paola Piacentini su Lifegate: “Il cicloturismo in Italia ha diverse interpretazioni e sfaccettature ma una cosa è certa: si tratta di un settore in forte crescita. C’è chi pedala per un’avventura con tenda al seguito senza sapere esattamente dove andrà e quando farà ritorno, chi viaggia leggero nel fine settimana per macinare più chilometri possibile. Chi, ancora, sceglie escursioni brevi di alcune ore o esperienze di gruppo comode e in e-bike, soggiornando in strutture di alta gamma. Il risultato è un guadagno per l’economia di circa 4 miliardi di euro. È quanto emerge dal rapporto‘Viaggiare con la bici 2023’, realizzato da Isnart, Istituto nazionale ricerche turistiche, per l’Osservatorio sull’economia del turismo delle Camere di commercio promosso con Legambiente e presentato a Bologna durante la seconda edizione della Fiera del Cicloturismo. Un evento che visti i numeri registrati (circa 19mila visitatori in due giorni) conferma il crescente interesse per i viaggi in bicicletta e il turismo attivo.
Nel rapporto si stima che nel 2022 siano state oltre 33 milioni le presenze in Italia, considerando i cicloturisti “puri” e turisti in bicicletta, con un impatto economico superiore ai 4 miliardi di euro. Per capirci, sono considerati “cicloturisti puri” i viaggiatori italiani e stranieri che scelgono l’Italia appositamente per una vacanza in bicicletta e che raggiungono un numero pari a 9 milioni di presenze, più del doppio del 2019 (4,4 milioni di presenze). Accanto a questi viaggiatori c’è poi la categoria dei turisti mossi da altre motivazioni, che trascorrono parte della vacanza utilizzando la bicicletta: quasi 24 milioni di presenze.
Oltre agli aspetti economici e a quelli della sostenibilità ambientale, il rapporto evidenzia altri aspetti positivi del fenomeno, come l’allungamento della stagionalità e il riorientamento dei flussi turistici verso borghi e aree interne del Paese. Insomma, viaggiare in bici decongestione le mete classiche, spalma il turismo sia nel tempo che nello spazio e consente un rapporto più sano con il resto degli ecosistemi. Inoltre fa bene alla salute e permette di scoprire un sacco di cose che tendiamo a perderci se viaggiamo con mezzi più veloci.
Se c’è un luogo al mondo da cui non mi aspettavo arrivasse una bella notizia quello è la Striscia di Gaza, quel lembo di terra lungo la costa, diventata simbolo negli anni delle politiche oppressive di Israele verso i palestinesi.
Eppure, come scrive Rosita Cipolla su GreenMe “quest’area costiera mediorientale che si affaccia sul Mar Mediterraneo un tempo era nota per la sua straordinaria biodiversità e la sua ricca vegetazione. Non tutti sanno che qui è custodita la riserva naturale di Wadi Gaza, istituita dall’Autorità Palestinese nel 2000”.
Da quando è iniziata la spietata occupazione da parte di Israele quello che un tempo era un paradiso si trasformato gradualmente in un inferno: le preziose zone umide, habitat per diversi uccelli – fra cui aironi, cicogne e gru – hanno cambiato volto, diventando sempre più desolate, aride e piene zeppe di immondizia.
Negli anni ’70, Israele ha deviato a monte l’acqua piovana (per convogliarla sul proprio territorio), riducendo di molto il flusso che raggiungeva la riserva di Wadi Gaza. Nelle valli i comuni limitrofi hanno iniziato a scaricare liquami grezzi e rifiuti. E l’odore è diventato insopportabile. Quelle acque incontaminate, ricche di fauna selvatica, sono state così avvelenate, mettendo a rischio la salute degli abitanti di Gaza.
L’acqua che raggiungeva il Mediterraneo era così pesantemente inquinata che nel 2017 il 73% delle spiagge di Gaza non erano più sicure per la balneazione. Wadi Gaza è diventato un disastro ambientale. È diventato pericoloso per la biodiversità, ma anche per le persone che vivono nell’area che hanno iniziato a soffrire di parassiti, infezioni e malattie.
Ok ma quindi dove starebbe la bella notizia? La bella notizia è che qualcosa sta lentamente cambiando grazie a un progetto avviato nella riserva naturale 2021 per far riprendere le zone umide, finanziato dal Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP).
L’iniziativa si basa sulla messa in funzione di un impianto di trattamento delle acque reflue finanziato a livello internazionale, che ha consentito il deflusso di acqua più pulita nella valle. Il piano prevede l’eliminazione di 50.000 tonnellate di rifiuti e una serie di azioni per fermare lo scarico illegale nell’area in cui l’ecosisistema è tanto variegato quanto fragile. L’obiettivo è quello di dar vita a un’oasi ecologica e a un centro ricreativo per la popolazione di Gaza, mortariata dall’apartheid israeliano.
Ancora è presto per vedere importanti risultati, ma i primi segnali di rinascita delle zone umide sono già visibili. Da quando è partito il progetto la valle di Wadi Gaza è visibilmente più pulita, più rigogliosa e l’impianto di depurazione sta facendo la differenza per la popolazione, che finalmente sta tornando a respirare.
Le zone umide sono delle zone di importanza vitale per gli ecosistemi terrestri, responsabili di una miriade di servizi ecosistemici che supportano la voita sulla terra per come la conosciamo. Inoltre il fatto che questa bellezza fiorisca in una zona così sfortunata e martoriata ha valore doppio.
Buona giornata della Terra a tutte e tutti. Noi ci rivediamo mercoledì.
#plastica
GreenMe – Vi ricordate del progetto Ocean Cleanup? Sembrava visionario e impossibile, invece ha raccolto 200 tonnellate di plastica dagli oceani
#rinnovabili
Lifegate – Eolico e fotovoltaico raggiungono la quota record del 12% dell’elettricità globale nel 2022
#carne
Lifegate – Consumo di carne in Germania, nel 2022 è stato il più basso mai registrato
#cicloturismo
Lifegate – Cresce il cicloturismo in Italia: Veneto, Trentino-Alto Adige e Toscana le mete preferite
#Gaza
GreenMe – Dalle terre desolate alle zone umide, torna la natura nella Striscia di Gaza