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25 Marzo 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Ucraina: come è andato il primo giorno di colloqui di pace a Riad – 25/3/2025

Colloqui di pace a Riyadh, accise sui carburanti più eque, Parigi sempre più green e Greenpeace sotto attacco: tante cose interessanti da raccontare oggi.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Intanto ieri sono iniziati i colloqui di pace a Riyadh, in Arabia Saudita, tra delegazioni statunitensi e russe. Le delegazioni sono arrivate al Ritz-Carlton Hotel, che è questo hotel gigantesco e iconico della capitale saudita e lì è iniziato il colloquio, che ha coinvolto per adesso soprattutto inviati di Usa, Russia e sauditi, mentre i giornali sottolineano che la delegazione russa e quella ucraina al momento non si sono incontrate fra loro.

La strategia sembra essere quella di partire piccolo. Al centro del confronto infatti non vi è ancora un accordo generale per la fine della guerra in Ucraina, ma una possibile intesa preliminare sulla sicurezza della navigazione nel Mar Nero.

Secondo quanto riportato dal Guardian, Washington sta valutando la possibilità di negoziare un cessate il fuoco marittimo — obiettivo prioritario per Mosca — come passo iniziale verso un’intesa più ampia. L’amministrazione Trump punta a garantire il libero transito delle navi commerciali, in particolare per riattivare il flusso di grano e fertilizzanti attraverso i porti del Mar Nero.

Mosca, da parte sua, sarebbe interessata a ripristinare un accordo simile a quello che in passato consentiva a Kyiv di esportare grano senza essere attaccata. In cambio, la Russia otterrebbe l’opportunità di esportare prodotti agricoli e fertilizzanti, ricevendo un parziale alleggerimento delle sanzioni occidentali.

Secondo fonti diplomatiche, entrambe le parti riconoscono la necessità di avviare un percorso verso una soluzione negoziale del conflitto, ma restano ancora numerosi nodi aperti. Le trattative proseguono su più livelli.

Nel frattempo, il Cremlino ha confermato che resta in vigore la sospensione degli attacchi alle infrastrutture energetiche ucraine, decisa la scorsa settimana durante una telefonata tra Vladimir Putin e Donald Trump. Tuttavia, sul terreno il conflitto non dà segnali di attenuazione: almeno sette persone sono morte domenica a causa di un massiccio attacco con oltre 140 droni russi in diverse regioni ucraine. E ieri è proseguita una nuova ondata di attacchi. 

Questo è quello che sappiamo finora, per approfondire un po’ e avere un punto di vista diverso mi sono andato a vedere cosa dice sui negoziati il quotidiano cinese Global News, che è molto vicino al governo di Pechino e che è sempre un buon modo per capire che aria tira da quelle parti. 

Ho trovato un articolo piuttosto lungo, ma non troppo evidente nella homepage, a far capire che la questione poi non è così rilevante per loro. Da cui si evincono alcune robe interessanti.

Secondo gli esperti cinesi citati dal quotidiano entro il 20 aprile potrebbe effettivamente essere raggiunta un’intesa su un cessate il fuoco circoscritto — focalizzato sulla protezione delle infrastrutture energetiche e sulla sicurezza del trasporto marittimo nel Mar Nero. Mentre per parlare di pace duratura, sottolineano, servono delle “concessioni sostanziali” che né Mosca né Washington sembrano al momento pronte a fare.

Nel testo si parla anche del ruolo europeo. Mentre gli Stati Uniti trattano con Russia e Ucraina, l’Europa appare in posizione marginale. Le “crepe nei rapporti transatlantici” e la crescente dipendenza europea dagli USA sono elementi su cui l’articolo insiste molto e che sottolineano la debolezza strategica del Vecchio Continente.

Ultimo elemento interessante, l’articolo si sforza di descrivere il processo negoziale come multilaterale, complesso e ancora altamente instabile. Non c’è alcuna enfasi trionfalistica sul ruolo statunitense – come invece vuole la retorica trumpiana: al contrario, viene sottolineato che gli ostacoli sono molti, che la mediazione americana è parziale e che l’esito resta altamente incerto.

Ogni tanto anche il governo Meloni fa qualcosa di giusto. E vale la pena sottolinearlo. Su Domani Edoardo Zanchini spiega il nuovo provvedimento di “riordino delle accise su gasolio e benzina”, un provvedimento che — finalmente — allinea la tassazione dei carburanti alle emissioni climalteranti che producono. 

Le accise sono una tassa che si paga ogni volta che si fa benzina o si usa gasolio. Sono soldi che lo Stato aggiunge al prezzo dei carburanti e che servono a generare entrate fiscali e, in teoria, a scoraggiare l’uso di fonti inquinanti. 

Il problema è che per tanti anni il gasolio ha avuto una accisa più bassa rispetto alla benzina, anche se inquina di più. Questo perché si voleva aiutare chi usa il gasolio per lavorare, come camion e trattori, ma poi questo vantaggio è stato esteso anche alle auto diesel private. Così, alla fine, è diventato un regalo alle fonti fossili più inquinanti.

Con questo decreto però si comincia a superare questa assurdità. Perché le accise vengono gradualmente riallineate. Gradualmente perché il passaggio avverrà in 5 anni. Attualmente, l’accisa sulla benzina è pari a circa 73 centesimi al litro, mentre quella sul gasolio si ferma a circa 62. Il nuovo assetto prevede una graduale convergenza verso un’aliquota unica di 67,25 centesimi al litro. Quindi la benzina costerà un po’ di meno e il diesel un po’ di più. 

Che è un passo importante. Un taglio a un sussidio ambientalmente dannoso, che va esattamente nella direzione auspicata da anni da diverse associazioni ambientaliste come WWF, Legambiente e tante altre. 

E che non solo rende più caro e quindi economicamente più sconveniente il carburante più inquinante, ma che ha anche un’altro aspetto interessante. Infatti, anche se la misura è strutturata in modo equilibrato, nel senso che l’accisa unica viene posizionata all’incirca a metà fra le due, ci sarà un effetto significativo sul gettito fiscale complessivo, perché il consumo di gasolio in Italia è nettamente superiore rispetto a quello della benzina. Secondo i dati Unem, nel 2024 sono stati distribuiti circa 28,8 miliardi di litri di gasolio contro 12,3 miliardi di litri di benzina.

Quindi questo cambiamento genererà un gettito extra di circa 1,1 / 1,2 miliardi di euro e – altra cosa molto interessante – questi soldi in più dovrebbero andare a finanziare il potenziamento del trasporto pubblico locale. 

Che comunque non bastano eh! Perché come spiega Zanchini su Domani il trasporto pubblico italiano è ancora a secco, con investimenti del 40% inferiori rispetto al 2009. E senza un cambio radicale della fiscalità ambientale — non solo sui carburanti, ma anche su gas ed elettricità per uso domestico — il sistema resta sbilanciato, inefficiente e inquinante.

E poi, giusto per non incensare eccessivamente il governo, bisogna dire che questo intervento era previsto dagli impegni presi con la Commissione europea nell’ambito del PNRR, quindi non è stata una roba tirata fuori dal cappello. 

Però ecco, il fatto che il governo lo abbia fatto “in modo equilibrato e trasparente”, come scrive sempre Zanchini, non era scontato ed è comunque un segnale positivo.

Per questo, piuttosto che gridare alla “nuova tassa”, come ha fatto una buona parte dell’opposizione, forse sarebbe stato più onesto riconoscere che questa è una misura sensata.

Intanto a Parigi si accelera verso una città sempre più pedonale e ciclabile, su spinta della sindaca Anne Hidalgo che ha messo la transizione ecologica della città in cima alla sua agenda. Domenica c’è stato un referendum consultivo, l’ennesimo sopo quello sui suv, quello sui monopattini e così via, con cui i cittadini hanno approvato con il 66% dei voti la proposta di chiudere al traffico e trasformare in spazi verdi circa 500 strade urbane. Un passoimportante che rafforza la visione di città promossa in oltre un decennio dalla sindaca Anne Hidalgo.

Il piano in questione prevede la riconversione di 6-8 strade per ciascuno dei 20 arrondissement, con l’eliminazione di circa 10.000 parcheggi e la creazione di nuove aree pedonali, percorsi ciclabili e spazi pubblici a verde. Secondo le prime stime, la trasformazione richiederà un investimento di circa 500mila euro per via, con un orizzonte temporale di 3-4 anni per l’attuazione.

Nonostante il forte sostegno al progetto, il dato dell’affluenza — appena il 4% degli aventi diritto al voto, ossia circa 56.000 cittadini con più di 16 anni — evidenzia una partecipazione limitata. Non un’eccezione per Parigi, dove già i referendum su monopattini a noleggio (2023) e parcheggi per SUV (2024) avevano registrato numeri simili. In ogni caso, trattandosi di una consultazione non vincolante e senza quorum, la sindaca ha già annunciato l’avvio degli studi di fattibilità.

Le critiche non sono mancate. L’opposizione municipale ha contestato la scarsa definizione del piano al momento del voto, segnalando potenziali impatti sulla circolazione e sui collegamenti tra centro e periferia. In particolare, viene evidenziato il rischio di rendere più difficile l’accesso per chi proviene da aree meno servite dal trasporto pubblico.

Il progetto si inserisce nel solco delle politiche urbane che Hidalgo ha promosso dal 2014: riduzione progressiva del traffico automobilistico, estensione delle piste ciclabili (oltre 1.300 km realizzati), aumento delle tariffe di sosta per veicoli ingombranti e inquinanti, pedonalizzazione dei lungosenna e di arterie centrali come Rue de Rivoli. Una visione coerente con il modello della “città dei 15 minuti”, che punta a offrire servizi essenziali a distanza ravvicinata, riducendo la necessità di spostamenti lunghi e l’impatto ambientale della mobilità urbana.

Con la fine del mandato di Hidalgo prevista nel 2026 e la sua intenzione di non ricandidarsi, il progetto rappresenta uno degli ultimi tasselli di una trasformazione urbana strutturale, che potrebbe incidere in modo duraturo sull’assetto e l’identità della capitale francese. Molto interessante direi.

Torniamo a parlare del maxi risarcimento a cui è stata condannata Greenpeace, per un po’ di aggiornamenti. Se ricordate, venerdì abbiamo parlato della sentenza in cui l’organizzazione ambientalista è stata condannata da una giuria della Contea di Morton, in Nord Dakota, a pagare un risarcimento record di oltre 660 milioni di dollari a Energy Transfer (ET), l’azienda costruttrice del controverso oleodotto Dakota Access.

ET accusa Greenpeace di aver orchestrato le proteste indigene e ambientaliste del 2016 contro l’oleodotto. Una ricostruzione giudicata infondata dall’organizzazione ma invece accolta dai giudici. Oggi ci torniamo per approfondire un po’ la questione e dare qualche aggiornamento.

Innanzitutto la prima domanda a cui bisogna rispondere è: ma come è possibile una multa così gigante? A cosa è dovuta? In pratica la giuria della Contea di Morton ha ritenuto Greenpeace colpevole di diffamazione, violazione di proprietà privata e cospirazione. Ma la multa monstre non è solo un risarcimento per il danno subito dall’azienda ma anche, la sentenza lo specifica, un modo per “dissuadere future condotte simili”.

Leggo su Reuters che “L’entità della multa riflette la combinazione di danni compensativi, destinati a risarcire Energy Transfer per le perdite subite, e danni punitivi, che negli Stati Uniti possono raggiungere cifre significative in casi di condotta ritenuta intenzionalmente dannosa o fraudolenta”. 

Ma sta roba non è pericolosa? Il fatto di poter apertamente punire qualcuno con intento di dissuadere comportamenti simili in futuro non è una roba pericolosissima quando si tratta di proteste ambientali o sociali? Sì, lo è, tant’è che questa roba ha un nome specifico, si chiama SLAPP, ovvero Strategic Lawsuits Against Public Participation

Si tratta di cause legali intimidatorie, spesso senza reali basi giuridiche, messe in campo dalle grandi corporation (soprattutto fossili) con un solo obiettivo: zittire il dissenso, fiaccare economicamente chi protesta, delegittimare il diritto alla mobilitazione civile.

Tant’è che in molti stati Usa esistono delle apposite leggi anti SLAPP. Ma non in North Dakota. E questo ha probabilmente facilitato l’avanzamento di questa causa. 

Cosa succede ora? Come racconta in un comunicato Simona Abbate, campagna clima ed energia di Greenpeace Italia, Greenpeace USA Greenpeace ha annunciato l’intenzione di appellarsi, contestando la decisione e sottolineando preoccupazioni riguardo alla libertà di espressione e al diritto alla protesta pacifica. Mentre Greenpeace International sta già reagendo sul fronte europeo: per la prima volta, è stata attivata la nuova Direttiva anti-SLAPP dell’Unione Europea, con un’azione legale nei Paesi Bassi per ottenere un risarcimento da Energy Transfer per gli abusi processuali subiti. 

Cosa possiamo fare?
Come spiega il comunicato questo non è solo un attacco a Greenpeace, ma un segnale pericoloso per tutte le forme di attivismo ambientale e civile. Per questo è fondamentale una risposta collettiva. Greenpeace ha lanciato una campagna di raccolta firme a livello globale per denunciare la strategia intimidatoria delle SLAPP e rafforzare la difesa della libertà di espressione.

Quindi ecco, non è ancora detta l’ultima parola e possiamo dare una mano.

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