Trump-Putin-Zelensky: cosa si sono detti e cosa succede adesso – 20/3/2025
Trump media la pace, ma i bombardamenti continuano e l’Europa si prepara alla guerra con “Readiness 2030”. Intanto Meloni litiga sul riarmo, Gaza brucia di nuovo e in Turchia arrestano il sindaco di Istanbul.

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Fonti
#Ucraina
Avvenire – Ucraina. Trump-Putin: la telefonata è servita per avviare la grande spartizione
il Sole 24 Ore – Zelensky vede la pace entro l’anno. Centrali elettriche ucraine agli Usa. «Pace mai così vicina». Vertice con Putin in Arabia
#Ue #riarmo
Domani – Europei «pronti entro il 2030»: la guerra secondo Ursula von der Leyen
#Meloni
il Post – A Giorgia Meloni serviva un diversivo
#Gaza
il Post – Perché Netanyahu ha ripreso a bombardare Gaza
#Turchia
Corriere della Sera – Turchia, stop alla Borsa dopo l’arresto del sindaco di Istanbul: volano i titoli di Stato, crolla la lira
#Sicilia
Italia che Cambia – In Sicilia il benessere degli animali a rischio per una nuova proposta di legge – INMR Sicilia #12
Trascrizione puntata
Gli ultimi due giorni sono stati caratterizzati da due telefonate, molto attese, molto discusse. Martedì il presidente statunitense Donald Trump ha chiamato il suo omologo russo Vladimir Putin e il giorno seguente, ieri, ha chiamato Zelensky. Il tutto dorrebbe essere propedeutico a dei colloqui di pace, e probabilmente a diverse altre cose.
Comunque, dal primo colloquio, quello Trump Putin, è emerso un impegno da parte del presidente russo a sospendere gli attacchi alle infrastrutture energetiche ucraine – una sorta di “piccola tregua”. Che fra l’altro, ha denunciato Zelensky, è subito stata tradita perché nella notte ci sono stati nuovi bombardamenti, e uno di questi ha colpito anche un ospedale nella città di Sumy.
Comunque, vi leggo da Avvenire il succo di quello che si sono detti Trump e Putin. “Vladimir Putin ferma gli attacchi alle centrali in Ucraina per trenta giorni, acconsente a liberare 175 prigionieri di guerra ucraini (in cambio di altrettanti soldati russi) e accetta di tornare quanto prima ai negoziati di pace (probabilmente in Arabia Saudita).
Donald Trump prenderà in «considerazione» di mettere fine agli aiuti militari e alla condivisione dell’intelligence di Washington con Kiev, oltre a imporre la fine della mobilitazione forzata in Ucraina: tutte condizioni chiave poste dal presidente russo per la ripresa dei colloqui. Nel frattempo, il capo della Casa Bianca e quello del Cremlino organizzeranno almeno una partita di hockey fra Usa e Russia negli Stati Uniti.
E poi c’è un ultimo pezzetto, più simbolico che altro ma a cui Putin dava molto valore ovvero si prevede “Un ripristino di un’amicizia “alla pari” che concede a Putin il riconoscimento dello status della Russia come grande potenza al pari degli Stati Uniti”. Quindi «responsabilità condivisa di Russia e Stati Uniti per la stabilità nel mondo» e la discussione «del Medio Oriente come di una regione nella quale avviare una cooperazione per prevenire futuri conflitti».
Non si è parlato di confini territoriali ucraini, né di integrità territoriale, per cui l’ipotesi è che Trump sia intenzionato a concedere a Putin almeno la Crimea e forse parte del Donbass. Che poi, parliamone. Abbiamo il presidente di un paese che decide di invadere il paese vicino, e poi il Presidente di un terzo paese, che formalmente non c’entra una mazza che decide quali parti del paese invaso è ok che siano cedute al paese invasore. La sto facendo semplice, lo so, però ho il sospetto che il diritto internazionale sia andato un po’ in tilt.
Comunque, nel frattempo, l’amministrazione Trump ha iniziato a preparare la ripresa dei colloqui per un cessate il fuoco, che dovrebbero tenersi domenica a Gedda, in Arabia Saudita, con la mediazione del segretario di Stato Marco Rubio. Sempre in Arabia Saudita Trump incontrerà Putin di persona, secondo i piani.
E poi ieri pomeriggio Trump ha chiamato Zelensky, in quella che è stata definita nei resoconti ufficiali come un colloquio molto positivo. Il presidente ucraino ha parlato di “pace duratura” e di un ruolo guida degli Stati Uniti per chiudere il conflitto già quest’anno. Zelensky ha anche accettato la proposta russa – veicolata da Trump – di sospendere gli attacchi alle infrastrutture energetiche ucraine come primo passo verso una tregua. Trump ha detto che gli Usa potrebbero gestire le centrali energetiche ucraine e che convincerà l’Europa a fornire più aiuti nella difesa aerea all’Ucraina. Vediamo.
Se Trump vuole che l’Europa si armi, l’Europa, in fin dei conti, obbedisce. Lo fa, almeno a parole, con una certa ostilità e poca fiducia verso le politiche della nuova amministrazione Usa, ma fa esattamente quello che gli Usa dicono. Sempre ieri a Copenaghen la Presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha tenuto un discorso se volete ancora più esplicito e inquietante di quello di qualche giorno fa sul tema del riarmo europeo.
Si tratta di un discorso che VdL ha pronunciato davanti ai cadetti dell’Accademia militare reale danese e che introduce un concetto nuovo, che va persono oltre quello di rearmEu, ovvero lo slogan readiness 2030, pronti per il 2030. Pronti per cosa? per la guerra, ovviamente.
Francesca De Benedetti su Domani ne cita e cpommenta alcuni passaggi. Leggo: “Il discorso di Copenaghen è rivelatore in vari passaggi. Anzitutto questo: «Dopo aver espanso massicciamente la sua produzione militare, la Russia adesso si trova in una traiettoria irreversibile per la creazione di una economia di guerra, e questi investimenti alimentano la sua guerra di aggressione». Quando si tratta di parlare di Mosca, von der Leyen dice quindi che l’aumento massiccio delle spese militari e la conversione bellica alimentano i conflitti. Eppure quello stesso ragionamento svanisce quando si fa riferimento all’Ue; lì la presidente sostiene l’opposto: «Se l’Europa vuole evitare la guerra, deve prepararsi alla guerra».
Altri punti rivelatori sono quelli nei quali von der Leyen conferma di non voler ridiscutere né i rapporti con Nato e Usa («la nostra sicurezza è indivisibile») né il carattere essenzialmente nazionale del riarmo: «Sia chiaro che gli stati membri avranno sempre per sé la responsabilità per le truppe e per la definizione di ciò che serve alle loro forze armate».
Qual è allora la novità di “Readiness” rispetto ai già noti 800 miliardi di ReArm? Von der Leyen fa riferimento alla cooperazione con l’Ucraina per aggiornarsi sui «più avanzati» metodi di guerra; prevede inoltre una «rete europea di corridoi di terra, aeroporti e porti che facilitino il trasporto di truppe e attrezzature entro il 2030», e l’ennesimo “omnibus” (deregulation) stavolta per l’industria militare. Ma soprattutto, disegna un sistema di «progetti su larga scala e acquisti collaborativi» fatti tramite un «meccanismo europeo di distribuzione militare». Quando parla di «domanda aggregata e acquisti congiunti», von der Leyen sta prefigurando per la Commissione un ruolo simile a quello già imbastito con i contratti per i vaccini”.
Insomma secondo la Presidente della Commissione l’Europa deve prepararsi alla guerra e se da un lato Von der Leyen denuncia l’economia di guerra russa come motore del conflitto, dall’altro sembra spingere l’Ue nella stessa direzione, sostenendo che per evitare la guerra… bisogna prepararsi alla guerra. Che è una logica.. particolare.
In tutto ciò, dicevamo, ha fatto scalpore il discorso di Giorgia Meloni alla camera che ha attaccato il manifesto di Ventotene, ritenuto da molti, a torto o a ragione, un atto fondativo dell’Unione europea, in modo, ecco, un po’ strumentale probabilmente. Meloni cita alcuni passaggi reali del Manifesto, in cui Altiero Spinello e Ernesto Rossi parlano di come la democrazia non sia uno strumento adatto in un momento di rivoluzione, e così via. E quindi accusa di fatto questo scritto di essere antidemocratico.
Su questo passo la parola al collega Paolo Cignini, autore di un articolo che esce oggi su ICC e che spiega le mistifcazioni presenti nel discorso della premier.
Audio disponibile nel video / podcast
Grazie davvero a Paolo. Aggiungo solo un ulteriore tassello di riflessione. Perché ho il sospetto che meloni abbia un po’ copiato la strategia trumpiana di riempire la stanza di merda. Ovvero di fare una sparata con il sol oscopo di creare polemica e dibattito e distogliere l’attenzione da altro. Cos asia l’altro lo svela il Post: è la spaccatura gigante che sta emergendo nel suo governo relativo al piano rearm Eu. Perché Meloni è intenzionata ad approvarlo in sede di Consiglio europeo, mentre la Lega, o almeno alcuni suoi parlamentari sono contrari.
Come riporta il Post: “Alle 11.47 di mercoledì, quando Giorgia Meloni ha preso la parola per il suo discorso di replica alla Camera, da alcuni minuti circolava sulle chat dei deputati di centrodestra un’agenzia con le dichiarazioni che Riccardo Molinari, il capogruppo della Lega, aveva pronunciato poco prima in un’intervista a Radio 24. «L’Italia non approverà una risoluzione che dà a Meloni il mandato di approvare ReArm EU». Era una frase notevole: di fatto, il partito di Matteo Salvini metteva in discussione il proprio sostegno alla presidente del Consiglio, in procinto di partire per Bruxelles per partecipare al Consiglio Europeo che avrebbe tra l’altro dovuto appunto confermare l’attuazione del piano di riarmo europeo”.
In Turchia è successo e sta succedendo qualcosa di grosso. Il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, che oltre ad essere il sindaco della città più grande e iconica del paese è anche il principale avversario politico del presidente Erdogan, è stato arrestato insieme ad altre decine di persone, tra cui giornalisti e due sindaci distrettuali.
Le accuse sono molto pesanti: si parla di estorsione, riciclaggio, appalti truccati, e addirittura legami con organizzazioni curde ritenute terroristiche dal governo, come il PKK. Ma il punto, secondo molti analisti, cito ad esempio l’analisi di Giulia Ferraino sul Corriere della Sera, è che queste accuse sembrano più un pretesto per togliere di mezzo un avversario politico scomodo, che non un reale tentativo di fare giustizia.
Il contesto attuale turco infatti è all’incirca questo: se ricordate lo scorso anno alle elezioni locali in molto comuni turchi (fra cui Ankara e Istanbul) Erdogan e il suo partito hanno subito una brutta batosta, e Imamoglu – eletto sindaco di Istanbul – è diventato sempre più popolare, tanto che si parlava già di una sua possibile candidatura alle prossime presidenziali, anche se mancano ancora 3 anni, in teoria.
Come ulteriore indizio che il suo arresto sia motivato politicamente, insieme all’arresto è arrivata anche la notizia che l’università di Istanbul ha annullato il suo diploma, che è un requisito legale per candidarsi. insomma, difficile credere che sia una coincidenza.
Intanto, il governo ha chiuso strade, vietato manifestazioni per quattro giorni, cercando di prevenire eventuali proteste. Ma il clima è quello di una vera e propria stretta autoritaria. Imamoglu, in un video diffuso sui social, ha detto chiaramente che siamo davanti a una tirannia, ma che non ha intenzione di farsi mettere a tacere.
Insomma, in un clima internazionale già piuttosto bollente, quella che sta vivendo la Turchia sembra una escalation autoritaria interna. Erdogan sembra sempre più deciso a usare la repressione come strumento politico, e questo non può che aumentare le tensioni, dentro e fuori la Turchia.
Fra l’altro mi sono chiesto – qui lo accenno e basta ma poi approfondiremo – se la cosa abbia qualche legame con la questione curda. Una delle accuse principali accuse rivolta a Imamoglu, se non la principale, è di avere infatti relazioni col PKK, il partito curdo dei lavoratori. Ed è notizia solo di qualche giorno fa che Ocalan, leader storico del Pkk in carcere di massima sicurezza da molti anni, ha chiesto al suo partito armato di deporre le armi e sostanzialmente sciogliersi.
Una svolta storica, arrivata dopo oltre quattro decenni di conflitto che ha causato più di 40.000 vittime, ma di cui non si sanno realmente le motivazioni, anche perché le comunicazioni di Ocalan sono molto sporadiche e molto ben controllate dal carcere.
E sullo sfondo di tutto questo c’è anche la firma dell’accordo storico tra le forze curde che controllano il Nord-Est della Siria e il governo di Damasco.
Intanto dobbiamo ahimé tornare a parlare di Gaza, perché Israele ha ripreso a bombardare massicciamente la Striscia di Gaza, violando il cessate il fuoco firmato lo scorso gennaio.
Martedì è stato in assoluto uno dei giorni più violenti dall’inizio della guerra, anzi uno dei giorni più violenti di sempre, con almeno 400 palestinesi – di cui almeno 150 bambini e bambine – sono stati uccisi sotto i raid israeliani.
Ma perché all’improvviso Israele ha deciso di violare il cessate il fuoco dando nuovamente inizio alle operazioni militari? Ufficialmente non c’è una spiegazione, nel senso che la decisione è arrivata senza che il governo israeliano fornisse particolari giustificazioni formali, e secondo diversi analisti, tra cui Amos Harel su Haaretz, Israele ha scelto deliberatamente di rompere la tregua – con l’approvazione degli Stati Uniti – perché non intendeva più rispettare i termini dell’accordo.
Il cessate il fuoco infatti prevedeva una “fase due”, con il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani in cambio del ritiro delle truppe dalla Striscia di Gaza. Ma i colloqui per arrivare a questa fase sono sttai un mezzo fiasco e quindi la fase 2 non è mai partita. Il premier israeliano Netanyahu l’ha bloccata, proponendo invece di prolungare indefinitamente la prima fase. Quindi sostanzialmente di non abbandonare l’occupazione militare di Gaza. E per ribadire il concetto che l’esercito israeliano non avrebbe lasciato i suoi presidi, ha lanciato uno degli attacchi più feroci di sempre.
Ovviamente, anche nei fatti più atroci c’è sempre una spiegazione più o meno logica. Dunque come mai Netanyahu ha scelto di non proseguire con l’accordo verso la fase due?
Secondo molti analisti, riprendo qui ad esempio l’analisi del Post, si è trattato di una questione di sopravvivenza politica. La “fase due” avrebbe significato la fine del suo governo, perché i partiti più estremisti della sua coalizione – contrari all’accordo – avevano minacciato di abbandonarlo.
Così, mentre sul piano ufficiale si cercava di addossare la colpa del fallimento dei negoziati a Hamas, sul piano politico interno la ripresa della guerra ha avuto l’effetto immediato di rafforzare il suo governo di estrema destra. Ad esempio l’ex ministro radicale Itamar Ben-Gvir, che si era dimesso proprio in protesta contro la firma del cessate il fuoco, è immediatamente rientrato nell’esecutivo. Gli altri leader fondamentalisti della coalizione hanno rinnovato il loro sostegno. E questo nuovo equilibrio è fondamentale per Netanyahu, perché entro fine mese deve far approvare il budget dello Stato alla Knesset: e senza i voti della destra radicale, il governo rischiava di cadere.
Ma non solo. Questo rafforzamento potrebbe permettere al premier di perseguire altri obiettivi politici: come il licenziamento del capo dello Shin Bet (ovvero il servizio di sicurezza interno israeliano), contrario alla ripresa delle ostilità e coinvolto in inchieste sull’operato del governo il 7 ottobre, o la riattivazione della contestatissima riforma della giustizia, già in parte bocciata dalla Corte Suprema.
Comunque, se da un lato Netanyahu ha consolidato la sua maggioranza parlamentare, la ripresa della guerra è molto impopolare nella società israeliana. Secondo un sondaggio dell’Israel Democracy Institute, il 73% degli israeliani – inclusa la maggioranza degli elettori del Likud, il partito del premier – vuole proseguire i negoziati con Hamas per liberare gli ostaggi ancora detenuti (59, di cui 35 ritenuti morti). E l’eventualità di una nuova operazione di terra, ventilata dai media, potrebbe incontrare una resistenza interna ben più forte rispetto alla prima offensiva, nonostante quello che al momento sembra un chiaro sostegno esterno dell’amministrazione Trump.
Quindi ecco, dietro la scelta di violare il cessate il fuoco e riprendere la guerra non c’è solo una strategia militare, ma soprattutto un calcolo politico di Netanyahu per salvare il proprio governo e portare avanti la sua agenda.
A costo Anche a costo di sacrificare gli ostaggi e di andare contro la volontà della maggior parte della popolazione.
Devo dire che una delle dinamiche che trovo più inquietanti in questa vicenda – come della maggior parte delle guerre – è la capacità di compiere atrocità non per impulso o per odio cieco, ma sulla base di ragionamenti freddi, strategici, razionali, del calcolo relativo alla convenienza politica di una certa azione.
Entrano in gioco in questo, credo, elementi psicologici come la disconnessione emotiva, ovvero la tendenza in alcune circostanze a trasformare gli altri in numeri, in variabili di un calcolo o nelle guerre proprio a disumanizzare il nemico. Oppure un altro meccanismo è noto come “razionalizzazione morale”, per cui si compiono azioni moralmente riprovevoli ma ci si convince – o si fa finta di convincersi – che siano necessarie, inevitabili, persino giuste in un quadro più ampio.
Questo per dire che l’estrema razionalità può essere altrettanto pericolosa dell’estrema emotività. La razionalità e l’emotività sono le caratteristiche più distintive e se volete più belle degli esseri umani, ma è importante che vadano a braccetto. Per questo nel movimento della transizione si dice che ogni cosa andrebbe fatta seguendo testa, cuore e mani, perché solo tenendo assieme tutti questi elementi possiamo dare il meglio e minimizzare i rischi connessi alle nostre azioni.
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