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17 Marzo 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Rearm Eu: perché l’Unione europea vuole riarmarsi? – #INMR 17/3/2025

Il piano di riarmo europeo, le alluvioni in Toscana, un’autostrada nell’Amazzonia e il caso del Canale di Panama comprato da BlackRock.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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“Il tempo delle illusioni è ormai finito. L’Europa è chiamata a prendersi maggiormente cura della propria difesa. Non in un futuro lontano, ma già oggi. Non con passi graduali, ma con il coraggio che la situazione richiede. Abbiamo bisogno di un’impennata nella difesa europea. E ne abbiamo bisogno ora”. 

Queste parole le ha pronunciate pochi giorni fa la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen presentando un piano colossale di riarmo dei paesi europei da, si stima, forse, circa 800 miliardi di euro, chiamato per l’appunto rearm Eu. Un piano che ha subito scatenato un putiferio, ma che è stato anche subito prontamente approvato dal Parlamento Ue con una maggioranza molto molto ampia. 

Vediamo le cose con ordine, comunque. In cosa consiste questo piano Von der Leyen per il riarmo europeo? Si tratta appunto di un piano con cui l’Ue vorrebbe diciamo incentivare un colossale aumento della spesa militare dei paesi membri. 

I giornali parlano di questa cifra monstre di 800 miliardi di euro, ma in realtà come spiega il Post, si tratta per ora di una cifra ipotetica, basata su simulazioni e proiezioni, più che su fondi realmente stanziati. 

Per adesso gli unici soldi più o meno stanziati sono i 150 miliardi (che comunque…) del programma SAFE, ovvero un nuovo debito comune che la Commissione potrà emettere per offrire prestiti agli Stati membri, a patto che questi presentino progetti condivisi e coordinati, per evitare sprechi e incompatibilità tra sistemi d’arma. 

Il resto è tutto molto vago. I restanti 650 miliardi dovrebbero arrivare in parte da un allentamento temporaneo delle regole fiscali europee (quindi robe come il pareggio di bilancio obbligatorio e i limiti al rapporto debito/pil, che poi comunque nessuno stava già rispettando), che consentirebbe ai paesi di aumentare la spesa per la difesa fino all’1,5% del PIL nei prossimi 4 anni.

In parte dalla riallocazione di altri fondi, come quelli di coesione, destinati teoricamente a ridurre le disuguaglianze territoriali. O persino quelli residui del PNRR. Che capite che usare fondi destinati alle aree più svantaggiate o alla transizione ecologica per finanziare armi, insomma…

E infine, in parte attraverso la Banca Europea per gli Investimenti, che dovrebbe favorire investimenti privati nella difesa, ma anche qui manca chiarezza sui dettagli.

Oltre al tema dei finanziamenti, resta molto vago anche il funzionamento concreto del piano, ad esempio non si sanno le modalità di attuazione e i criteri per l’uso dei fondi, alcuni hanno accennato a un possibile vincolo del “Buy European”, ovvero obbligare o comunque privilegiare gli acquisti di armamenti da aziende europee, che ha diviso i Paesi membri.

Quello che però non è ambiguo è l’ambizione del piano, la direzione che si vuole imprimere all’Unione. Qualche mese fa l’europarlamentare Dario Tamburrano, prima di venire eletto per la seconda volta, mi confidava il suo sospetto, in una puntata di INMR+ dal titolo il Green Deal va a fare la guerra, che l’Europa stesse intraprendendo una rischiosa strada verso il riarmo. 

Ecco, direi che quelli che allora erano dei sospetti adesso sono diventati un piano a tutti gli effetti. Inutile dire che questa cosa sia un bel po’ controversa. Per due motivi. Il primo, più evidente è che mettere tutti quei soldi sulle spese militari vuol in parte toglierli ad altro, tipo welfare, scuole, ospedali, aree marginali, transizione verde, adattamento e mitigazione climatica e in parte fare nuovo debito.

E non parlo solo di debito pubblico, ma anche di debito ecologico. Come nota Renzo Rosso sul FQ, l’economia di guerra è un’ economia super estrattiva, che utilizza un sacco di materie prime, “dai metalli ai combustibili fossili e agli elementi rari, la cui frenetica estrazione danneggia gli ecosistemi”. E poi le esercitazioni militari, che plausibilmente aumenteranno di paripasso, che sono attività altamente energivore che inquinano, emettono un sacco di CO2 e così via.

Il secondo motivo per cui la questione è molto controversa è che parlare di riarmo in ambito Ue è una roba grossa, tocca tasti molto caldi se è vero che l’Ue è nata, o perlomeno si racconta di essere nata, per tutelare proprio la pace e il disarmo. E quindi capite che un piano di riarmo così aggressivo è una roba completamente estranea alla cultura europea post Seconda guerra mondiale.

Anche se devo dire che mi ha colpito un articolo che del 2019 ho letto nel fine settimana, pubblicato su Jacobin Italia, che è una rivista molto di sinistra ma su cui si trovano riflessioni spesso molto azzeccate. In questo caso metto le mani avanti, non ho tutti gli strumenti per capire se e quanto la riflessione in questione sia del tutto esatta, ma mi è sembrata interessante. 

Comunque, l’articolo è un’intervista a Giuliano Santori, in arte Wu Ming I, e parla del Manifesto di Ventotene, che è uno dei – se non IL – mito fondativo dell’Ue, in modo del tutto irrituale. Giusto due elementi di comprensione: parliamo di uno scritto di Altiero Spinelli, che si trovava in confino a Ventotene, che prefigurava una unione commericlae, economica e politica fra i paesi europei per scongiurare nuove guerre e conflitti, e che appunto la narrativa vuole essere un po’ l’origine filosofica dell’Ue.

Leggo un estratto dell’articolo: «La carica di anticipazione che, retrospettivamente, l’esperienza del confino a Ventotene sembra avere è la premessa di tutte le esagerazioni e gli stereotipi propagandistici fioriti intorno al cosiddetto Manifesto di Ventotene, scritto da Spinelli e Rossi sull’isola, nel 1941. Secondo questa vulgata, Ventotene fu la “culla dello spirito europeo” e, addirittura, il luogo di nascita dell’Unione europea. Si crede che il Manifesto di Ventotene – che non si chiamava nemmeno così, è una reintitolazione di molto posteriore – abbia squarciato i cieli e annunciato un tempo nuovo, quasi una scena da kolossal biblico.

In realtà, quando il manoscritto circolò sull’isola, […] attirò – con buone ragioni – aspre critiche. Ne nacquero alterchi e divisioni, a tal punto che i suoi autori – ribattezzatisi “federalisti” – furono praticamente isolati e dovettero aprirsi una mensa per conto loro. Poi il manoscritto fu portato rocambolescamente in continente, grazie ad Ada Rossi e Ursula Hirschmann, ma nemmeno lì riuscì ad aggregare più di una minuscola cerchia di borghesi “illuminati”. 

Dopo la guerra, per decenni il testo rimase sconosciuto ai più. A lungo non fu nemmeno ripubblicato. Ha cominciato a tramutarsi in un livre de chevet da citare alla bisogna – e perlopiù a vanvera – all’incirca una ventina di anni fa, quando il vaporware della costruzione europea ha cominciato a sfumare e si sono rese visibili le magagne che conosciamo. L’ordoliberismo di Maastricht, del Trattato di Lisbona e della direttiva Bolkestein si è concretizzato in un’austerity da mattatoio, scatenando per reazione rigurgiti nazionalisti. Di fronte a tali rigurgiti c’era il bisogno di premere sul pedale del mito delle origini, un mito delle origini nobile, e così si è fatto di Spinelli un santino.

Quindi, ecco, secondo questa ricostruzione le origini idealiste e pacifiste dell’Ue in realtà non esisterebbero. Che sia vero o no, l’attualità dell’Europa è molto diversa da questa narrazione pacifista, più o meno fantasiosa. E probabilmente qualcosa bolliva in pentola già da un po’, se è vero che le industrie europee si stanno già attrezzando.

Come racconta un articolo sulla rivista del settore automotive Motor1, a firma di Eleonora Lilli, in Germania, il colosso della difesa Rheinmetall, specializzato nella produzione di carri armati, è pronto ad acquistare lo stabilimento Volkswagen di Osnabrück – destinato alla chiusura – per convertirlo alla produzione di armi, se gli ordini di carri armati dovessero aumentare. 

Anche altri impianti di Rheinmetall, oggi dedicati alla componentistica auto, verranno riconvertiti per rispondere alla crescente domanda militare. Il CEO Armin Papperger punta a espandere la produzione e acquistare altri stabilimenti da case automobilistiche “alle giuste condizioni”.

E anche in Italia si discute di un possibile utilizzo bellico degli impianti auto. Il gruppo Iveco e la collaborazione storica tra Fiat e la difesa ne sono un precedente. E cresce il peso della nuova alleanza Rheinmetall-Leonardo.

Se l’industria sembra già pronta, e magari vede nel riarmo una leva di nuova crescita dopo anni abbastanza stagnanti, nella politica la questione sta facendo molto discutere. Anche perché in un certo senso è diametralmente opposta a quell’idea che sembrava mettere d’accordo un po’ tutti di una difesa comune europea.

Se ricordate, l’idea di un esercito europeo era un punto di quasi tutti i partiti in vista delle elezioni. Il piano era smettere via via di investire in eserciti nazionali e investire in un esercito comune, in ottica difensiva e per ottimizzare le risorse. Quindi senza aumentare le spese militari, ma garantendosi una difesa comune in caso di aggressioni. Qui invece il meccanismo si ribalta e l’Ue incita tutti gli stati membri a riarmarsi singolarmente (anche se in teoria in maniera coordinata). 

Che se ci pensate è molto diverso: il primo scenario implica una cooperazione europea sempre maggiore, per decidere politiche comuni in campo di difesa. Il secondo invece potrebbe aumentare disparità e persino incentivare logiche conflittuali e competitive all’interno dell’Unione, fra l’altro sempre più preda di nazionalismi e sovranismi.

E infatti come vi anticipavo il Piano pur essendo approvato con ampia maggioranza (peraltro contestualmente all’approvazione di nuovi aiuti per l’Ucraina) ha causato diverse levate di scudi. Molti europarlamentari italiani si sono astenuti, molti non hanno seguito le indicazioni di partito, il Pd ad esempio si è letteralmente spaccato. Vi lascio sotto Fonti un articolo con i nomi dei singoli parlamentari che hanno votato cosa.

Oltre a spaccare la politica, la proposta ha scosso l’opinione pubblica. E fra l’altro è capitata, per coincidenza, poco prima della grande manifestazione pro Ue, che era stata organizzata da un gruppo di sindaci per l’altroieri, sabato, e che voleva essere una celebrazione dello spirito di appartenenza europea e ai suoi valori fondativi, solo che è arrivata nel momento sbagliato. O giusto, dipende. Fatto sta che è diventata un elemento di divisione soprattutto a sinistra, perché Conte ha deciso di non andare proprio viste le ultime questioni, mentre Potere al Popolo ha organizzato una contromanifestazione.

La sensazione comunque è che, magari per motivi anche diversi fra loro, l’opinione pubblica sia abbastanza massicciamente contraria a questa piega bellicista presa dai vertici a Bruxelles. E che non sarà facile per Bruxelles imporre questa nuova agenda. Personalmente, non lo nego, lo spero. 

È stato un fine settimana caratterizzato anche da allerte meteo, nubifragi ed esondazioni, soprattutto in Toscana ed Emilia Romagna. In particolare diversi paesi attorno a Firenze sono stati alluvionati per via dell’esondazione di diversi fiumi, come il Rimaggio a Sesto Fiorentino o la Sieve nel Mugello. 

Qui però vorrei soffermarmi su un aspetto che quasi nessun giornale tratta, perché fa meno notizia, ma che è fondamentale sottolineare, mi pare. Ovvero come alcune opere idrauliche di prevenzione abbiano funzionato correttamente e abbiano evitato una tragedia molto peggiore. In particolare sto parlando dello scolmatore dell’Arno, che è stato azionato venerdì pomeriggio a Pontedera e ha salvato, secondo molte analisi, la città di Pisa da una tremenda alluvione.

Ne abbiamo parlato sabato in una news su ICC. Uno scolmatore è un canale artificiale che serve a “scaricare” l’acqua in eccesso di un fiume quando il livello si alza troppo, quindi una sorta di valvola di sfogo: quando l’Arno si è gonfiato per le forti piogge, lo scolmatore è stato aperto e ha deviato una parte consistente dell’acqua verso il mare, alleggerendo il carico che altrimenti metterebbe a rischio città e campagne lungo il corso del fiume.

Insieme alle casse di espansione di Roffia – enormi bacini che raccolgono temporaneamente l’acqua in eccesso – ha contribuito a contenere la piena che stava minacciando Pisa.

Una riprova del corretto funzionamento dell’opera si vede dai grafici idrografici diffusi dalla Regione che mostrano come all’aumentare della portata dell’Arno, che continuava a salire vertiginosamente, il livello idrometrico sia salito molto più lentamente fino a stabilizzarsi. E questo ha evitato probabilmente l’esondazione dell’Arno a Pisa.

Ecco, penso che raccontare storie come questa possa dar forza e vigore alle necessarie opere di adattamento climatico. Perché sappiamo che con la crisi climatica in corso episodi come quelli appena capitati saranno sempre più frequenti e quindi è importante che i comuni si attrezzino al meglio per ridurre al minimo i danni, quando queste cose succedono.

Facciamo un piccolo break! A parte che da oggi lo posso dire, INMR torna a essere quotidiana, e per di più con nuove grafiche, sigla, ecc. Quindi ditemi che ne pensate! E poi vi siete fatti un giro sul sito di ICC? Avete iniziato a esplorare tutte le novità? Bello eh?! Fa venire voglia di abbonarsi no? (*strizzata d’occhio)

Un’altra cosa di cui abbiamo parlato nelle nostre news – perché sì, abbiamo una nuova e interessantissima sezione news – è la paradossale e controversa autostrada che il govenro brasiliano vuole costruire, anzi sta già costruendo, in occasione di COP30, la prossima conferenza sul clima delle Nazioni unite che si terrà a fine anno a Belen, in Brasile, nel cuore della Foresta amazzonica.

Nel presentare la sua candidatura per ospitare il Summit Lula aveva detto che sarebbe stata una conferenza all’interno di uno degli ecosistemi più importanti e fragili del pianeta proprio per mostrarne al mondo l’importanza. Solo che per farla il governo locale si costruisce un’autostrada che taglia la foresta.

L’obiettivo dichiarato è quello di migliorare l’accesso alla città per accogliere i 50mila partecipanti, tra cui leader mondiali. Ma l’infrastruttura, ribattezzata “Avenida Liberdade”, sta sollevando forti critiche. Come racconta un lungo e ben documentato articolo su BBC a firma di Ione Wells, gli abitanti e gli ambientalisti stanno denunciando a gran voce l’ipocrisia di costruire un’autostrada nel cuore dell’Amazzonia – uno dei principali serbatoi di carbonio del pianeta – per un evento che dovrebbe invece promuovere la tutela del clima. 

Il progetto in realtà non è nuovo – e infatti la sensazione che mi viene è che COP30 sia un po’ la scusa con cui si è provato a riproporre – e in passato è stato più volte accantonato, pensate un po’, proprio per ragioni ambientali.

Le ruspe, racconta l’articolo, stanno già avanzando, abbattendo alberi e alterando habitat: l’autostrada attraversa zone umide e frammenta un ecosistema già fragile, compromettendo anche la fauna locale. Anche se il progetto viene presentato come ecologico e sostenibile, gli esperti temono che gli animali avranno sempre meno spazio per muoversi e riprodursi e che i “corridoi faunistici” previsti siano poca cosa rispetto al danno complessivo. E nel mentre fioccano hotel, parcheggi per navi da crociera, ampliamenti aeroportuali e un grande parco urbano.

Tutto ciò ovviamente solleva grossi interrogativi anche sulle politiche ambientali del presidente brasiliano Lula. Che si è speso certamente per diminuire la deforestazione, ma ha anche fatto aderire il Brasile al cartello di paesi produttori di petrolio e adesso costruisce, o perlomeno permette che si costruisca un’autostrada e opere di lusso nella fporesta Amazzonica. Essere meglio di Bolsonaro non può più bastare, servono politiche più serie.

Chiudo con una notizia particolare. Ricordate il proclama di Trump che voleva riprendersi il Canale di Panama? Ecco, diciamo che, come spesso avviene con Trump, questa cosa sta più o meno avvenendo, ma non in meniera letterale, perlomeno non attraverso la politica ma attrvaerso la finanza. 

È notizia di qualche giorno fa infatti che BlackRock, il più grande fondo di investimenti al mondo, assieme ad altre due società  ha acquisito dalla cinese CK Hutchison la maggioranza dei porti su entrambi i lati del Canale di Panama.

BlackRock è un fondo d’investimenti gigantesco, che ha interessi praticamente ovunque e gestisce circa 10.000 miliardi di dollari di patrimoni. Non so se vi rendete conto di quanto è grande questa cifra, considerate che se fosse uno stato sarebbe il terzo più ricco del mondo dopo Usa e Cina. Quindi ecco, parliamo di questa roba qua. 

Le altre due società sono Terminal Investment, che, curiosità, è un gruppo con sede in Svizzera che fa capo alla compagnia marittima Msc dell’imprenditore italiano Gianluigi Aponte.

E il tutto si sta trasformando in un caso geopolitico. si sta trasformando in un caso geopolitico. L’operazione è chiaramente spinta da Trump per riportare sotto l’influenza americana uno snodo strategico fondamentale per i commerci globali e ha provocato un duro attacco da parte dei media statali cinesi, che parlano di “tradimento” e “svendita degli interessi nazionali”.

Il Ta Kung Pao, quotidiano vicino al governo di Pechino, ha accusato l’azienda cinese di pensare solo al profitto e di piegarsi agli USA. A rincarare la dose, anche un ministero cinese ha rilanciato l’articolo sul proprio sito. 

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