Il messaggio di Ocalan, il cessate il fuoco del PKK, il silenzio della Turchia. Quale futuro per i curdi? – #1045
La sorprendente dichiarazione di Abdullah Öcalan, leader del PKK, che ha chiesto la fine dei combattimenti e lo scioglimento del partito, segna una potenziale svolta nel conflitto curdo-turco, cosa succede adesso? Parliamo anche delle recenti azioni di Donald Trump, tra un incontro umiliante con Zelensky e l’assurdo video su Gaza, che mescola elementi di parodia e politica concreta, suscitando indignazione e confusione. E infine parliamo dei progressi in campo di politiche ambientali dell’Ue e dell’accordo in extremis raggiunto a Roma alla COP16 bis sulla biodiversità.

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La settimana appena trascorsa è stata segnata da diversi episodi importanti, ma ce n’è uno che è arrivato inaspettato e di cui si è parlato un po’ in tutto il mondo, ma forse non abbastanza.
Dal carcere in cui è rinchiuso da più di 25 anni, Abdullah Ocalan, leader storico del Pkk, il gruppo armato curdo in guerra con la Turchia da oltre 40 anni, ha chiesto la fine dei combattimenti, lo scioglimento del partito e d lavorare per la pace. E subito dopo il PKK ha annunciato il cessate il fuoco.
Allora facciamo un minimo di contesto, sennò non capiamo granché. Il PKK è un acronimo per Partito dei Lavoratori del Kurdistan, ed è un partito che nasce verso la fine degli anni Settanta, fondato appunto da Ocalan e di stampo marxista-leninista, insomma comunista rivoluzionario, con l’obiettivo principale dell’indipendenza del Kurdistan. I curdi infatti sono un gruppo etnico molto numeroso in Turchia, ma anche in Siria, Iraq, Iran. Sono uno dei poli senza stato più numerosi al mondo, circa 40 milioni di persone spesso perseguitate nei vari stati in cui vivono.
Quindi ecco, Ocalan fonda questo partito di stampo comunista a fine anni Settanta per portare avanti la causa curda in Turchia. Poi negli anni il partito evolve, di pari passo con l’evoluzione del pensiero di Ocalan. In particolare, dopo che viene arrestato nel 1999, nell’isola carcere di Imrali in Turchia Ocalan abbandona l’idea di uno Stato curdo indipendente e propone una maggiore indipendenza organizzativa dei curdi all’interno dei Paesi di cui fanno parte e un nuovo modello, chiamato Confederalismo Democratico, ispirato al pensiero del filosofo anarchico Murray Bookchin.
Il Confederalismo Democratico rifiuta lo Stato-nazione e punta invece su una società decentralizzata, ecologista, femminista e basata sull’autogoverno delle comunità locali. Ve ne abbiamo parlato in alcune puntate dei nostri podcast per abbonati, che trovate sotto FONTI E ARTICOLI. Grazie a questa evoluzione nascono alcuni degli esperimenti democratici più avanzati al mondo come quello dei curdi del Rojava.
Comunque, in Turchia il conflitto continua e soprattutto negli ultimi anni la Turchia di Erdogan ha adottato una politica di repressione durissima contro il PKK e più in generale contro l’intero movimento curdo, con arresti di massa, censura e operazioni militari mirate.
Ocalan è in carcere da 26 anni e negli anni ha più volte cercato di negoziare con il governo turco, proponendo piani di pace e un processo di riconciliazione, ma senza successo. È sottoposto a un isolamento quasi totale e le sue comunicazioni con il mondo esterno sono rigidamente controllate e le visite dei suoi avvocati sono estremamente rare.
Ed eccoci tornati a questi giorni quando Ocalan fa una mossa a sorpresa. Con una lettera inviata dal carcere chiede al PKK di dichiarare un cessate il fuoco e sciogliersi, a patto che la Turchia garantisca sicurezza ai suoi membri.
Il PKK ha risposto positivamente alle due richieste di Ocalan, dichiarando da subito la fine delle ostilità, e dicendosi disposta a sciogliere il partito, a patto che a guidare l’assemblea sia Ocalan stesso. Quindi sta dicendo fra le righe – ma nemmeno troppo – scioglieremo il partito solo se oltre a garantire la sicurezza a tutti noi, libererete Ocalan.
Il governo turco però al momento non ha risposto. E dalla risposta di Ankara e dalle garanzie che vorrà dare dipende ovviamente la riuscita di questo cessate il fuoco.
Detto ciò, devo dire che la figura di Apu, Ocalan, mi ha sempre affascinato e che mi affascina anche come questo personaggio leggendario, dal carcere di isolamento in cui è rinchiuso da 26 anni, abbia la lucidità di leggere i processi storici e analizzare la contemporaneità e arrivare a chiedere che si lavori per la pace, perché non è più tempo di guerra e battaglie. Decisamente affascinante.
E vabbé, un po’ di aggiornamenti su Trump ve li beccate anche a questo giro. Io ci provo ogni volta a non parlarne, a ridimensionare quello che fa, me lo riprometto, ma poi Trump fa qualcosa di cui è letteralmente impossibile non parlare.
La cosa principale questa settimana immagino l’avrete vista e sentita in tutte le salse. È quell’assurdo incontro con Zelensky in cui i due dovevano stringere accordi e che invece si è risolto in una pubblica umiliazione del presidente ucraino che è stato letteralmente bullizzato da Trump e dal suo vice Vance.
Una roba veramente inedita. Non credo che si fosse mai visto in tempi moderni un capo di stato umiliare pubblicamente un suo omologo, alleato del suo paese fino a 5 minuti prima, peraltro impegnato in un conflitto per difendere i confini territoriali del suo paese. In un editoriale, il Washington Post ha descritto l’atteggiamento di Trump “più come Don Corleone (il protagonista del Padrino) che come un presidente americano”. Il Guardian ha descritto l’incontro come “uno dei più grandi disastri diplomatici della storia moderna”.
Trump ha elogiato apertamente Putin per il suo atteggiamento conciliante, sollevandolo praticamente di ogni responsabilità per il conflitto e addossando le stesse sulle spalle di Zelensky. Ovviamente questa cosa ha suscitato scalpore e dibattito a livello internazionale.
Stessa reazione che ha suscitato un’altra mossa del nuovo Presidente americano: la pubblicazione, da parte dell’account ufficiale della Casa bianca di un video creato con l’IA sulla Gaza del futuro.
In pratica Trump ha rilanciato un video creato con l’intelligenza artificiale che immagina la Striscia di Gaza trasformata in una sorta di Costa Azzurra mediorientale, con grattacieli, spiagge affollate e festeggiamenti, come se la guerra e la tragedia in corso non esistessero. Nel video ci sono parecchi elementi davvero kitch, una statua dorata di Trump gigantesca, Elon Musk che lancia soldi sulla spiaggia, Trump e Netanyahu in costume da bagno che sorseggiando cocktail sdraiati sotto il sole, con sullo sfondo una “Trump Tower Gaza”, danzatrici del ventre barbute e altre robe strane.
Il video come immaginerete ha fatto in breve tempo il giro del mondo ma richiama una proposta politica concreta e controversa: il piano di Trump per Gaza prevede il trasferimento dei palestinesi in altri paesi della regione, come Egitto e Giordania, lasciando spazio a un nuovo centro turistico di lusso.
L’idea ha provocato un’ondata di indignazione. I palestinesi vedono in questo piano una nuova “Nakba”, ovvero una seconda catastrofe come quella del 1948, quando centinaia di migliaia di palestinesi furono espulsi dalle loro case con la creazione dello Stato di Israele. Anche i governi arabi hanno respinto con forza il progetto.
Ora come dobbiamo prendere e leggere un video come questo? È una pagliacciata? Una parodia, un’esagerazione? O è un piano politico? Io credo che sia entrambe le cose e che sia molto esemplificativo dell’agire politico di Trump e compagnia. Sia il video di Gaza che l’umiliazione pubblica di Zelensky sono esempi di quella che qualche settimana fa ho provato a inquadrare sotto il termine di mememodernità: il meme che diventa azione politica.
Le azioni di Trump sono assurde e paradossali, lasciano l’interlocutore incerto se prenderle sul ridere o gridare allo scandalo. Sono troppo assurde per prenderle sul serio, ma troppo reali per prenderle a ridere. Ed è questo forse che ci lascia un po’ senza difese. Sappiamo che gridare allo scandalo non sortisce nessun effetto, perché quelle azioni contemplano già lo scandalo, sono spudoratamente estreme proprio per scandalizzare una parte e generare euforia nell’altra.
Fra l’altro in ciò c’è anche un bel po’ della teoria del “riempire la stanza di merda” ideata dall’ideologo dell’ultra destra Steve Bannon: ovvero creare 100 scandali al giorno per confondere media e opposizioni, sapendo che c’è un limite fidsiologico agli scandali che l’opinione pubblica riesce a seguire, e camuffare così le cose importanti, quelle che si vogliono fare davvero, sotto quintalate di..beh di merda.
Ma anche minimizzare le sparate di Trump, come quella di Riviera gaza è controproducente, perché Trump ha dimostrato che quei meme sanno essere anche molto concreti. L’incontro con Zelensky è da un lato stato pensato per essere un contenuto virale, per umiliare pubblicamente un personaggio molto odiato dal suo elettorato, ma dall’altro è una roba che ha conseguenze gigantesche sugli equilibri del conflitto, che riavvicina gli Usa alla Russia, che sposta gli equilibri con la Cina. Non è una roba casuale. E quindi c’è sempre questa doppia valenza nelle azioni di Trump. È per questo che le politiche e la dialettica trumpiana sono così difficili da contrastare.
Ed è un modo di agire che sembra accomunare altri leader che in qualche modo assomigliano a Trump. Vi faccio un esempio che arriva dall’Argentina.
In un decreto di metà gennaio, ma di cui i giornali hanno parlato la scorsa settimana, il presidente argentino Javier Milei ha cancellato le indicazioni della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità stabilendo che d’ora in poi in Argentina per legge si potranno chiamare le persone con disabilità intellettiva con gli appellativi di “Ritardati mentali”, “idioti”, “imbecilli”. La nuova legge riforma l’Agenzia nazionale per la disabilità ripristinando, tra le varie cose, anche il “ritardo mentale” tra le patologie riconosciute.
Anche qui siamo di fronte a una roba chiaramente pensata per creare scandalo. Perché non credo che il problema principale degli argentini e argentine, con oltre un terzo della popolazione che vive sotto la soglia di povertà, fosse il fatto di non poter offendere le persone con disabilità intellettiva.
Però di nuovo non parliamo dello scandalo fine a se stesso. Non è la sparata razzista o omofoba di un ministro. È una legge dello stato, che cambierà la vita a milioni di persone. Di nuovo, mememodernità: i meme, i messaggi virali, il paradosso che diventa motore dell’azione politica.
La cosa che mi inquieta è che è davvero una modalità per cui mi pare che le nostre società non abbiano gli anticorpi, perché include già al loro interno sia l’ironia sia lo scandalo, quindi le principali reazioni con cui storicamente l’opinione pubblica e le opposizioni hanno contrastato le tendenze autoritarie dei governi.
È uscito il secondo rapporto di monitoraggio sugli obiettivi climatici e ambientali dell’Unione europea, e ce lo dobbiamo guardare un attimo perché ci sono diverse cose interessanti.
La sintesi è che ci sono alcuni segnali positivi, e che l’Unione Europea sta facendo progressi su alcuni fronti, ma siamo ancora molto lontani dal raggiungere gli obiettivi fissati per il 2030. Vediamo cosa dice il report più nel dettaglio.
Stiamo parlando, per completezza di informazioni, di un report prodotto dalL’Agenzia Europea dell’Ambiente, e per la precisione del secondo rapporto di monitoraggio sugli obiettivi climatici e ambientali dell’8° Programma d’Azione per l’Ambiente (8EAP). Che in pratica è il sistema di monitoraggio del Green Deal, per intenderci.
Quindi, cosa dice? I segnali positivi principali sono la riduzione delle emissioni di gas serra, il miglioramento della qualità dell’aria e la crescita della finanza verde. In pratica i paesi dell’Unione stanno riuscendo a ridurre le emissioni climalteranti, anche se non quanto sarebbe necessario. E in Europa si respira anche un’aria sempre più pulita in molte aree. Mentre il settore finanziario sta iniziando a orientarsi sempre di più verso investimenti sostenibili. Tuttavia, questi progressi non bastano, perché ci sono tante altre cose che invece restano molto problematiche.
Ad esempio la perdita di biodiversità resta un problema molto grave, con ecosistemi sempre più sotto pressione a causa dell’inquinamento, della deforestazione e dell’agricoltura intensiva. Inoltre, i settori chiave come alimentazione, energia e mobilità non stanno ancora cambiando abbastanza velocemente per ridurre l’impatto ambientale. Il rapporto sottolinea anche che, sebbene molte leggi ambientali siano già state approvate, la loro applicazione concreta nei diversi Stati membri resta lacunosa e insufficiente.
Per affrontare queste sfide, l’Europa dovrà accelerare su più fronti. La priorità è attuare le leggi esistenti e finalizzare quelle ancora in discussione, evitando di lasciare incompiuti pezzi fondamentali della transizione ecologica. Un’altra questione urgente è la gestione dell’acqua: il rapporto richiama l’attenzione sulla necessità di rafforzare la resilienza idrica per far fronte a siccità sempre più frequenti e alla pressione sulle risorse idriche. Anche i settori dell’energia, dell’industria e dell’agricoltura devono diventare più sostenibili, con politiche che favoriscano una trasformazione strutturale e non solo piccoli aggiustamenti.
Il rapporto propone anche una roba interessante riguardo alla tassazione. Secondo l’EEA l’Europa dovrebbe spostare il peso fiscale dal lavoro alle attività che consumano più risorse e inquinano di più. In pratica con questa mossa, che mi sembra molto intelligente, si potrebbero da un lato incentivare le imprese a ridurre il loro impatto ambientale, attraverso la leva delle tasse, dall’altro alleggerire la pressione fiscale sui cittadini.
Poi c’è il nodo da sciogliere dei sussidi dannosi per l’ambiente, come quelli alle fonti fossili, che l’UE si è impegnata a eliminarli in linea con il Global Biodiversity Framework, ma che ancora resistono. E infine, c’è la questione della produzione e del consumo: l’attuale modello economico europeo continua a sfruttare risorse naturali a ritmi insostenibili, e anche se la produzione è spesso delocalizzata altrove e quindi potremmo avere l’impressione di inquinare meno, il fatto è che abbiamo in parte solo spostato il nostro impatto in luoghi diversi del mondo. Che però resta uno solo, il mondo. E quindi il report sottolinea che serve un’inversione di rotta per ridurre l’uso eccessivo di materiali ed energia e allentare la pressione sugli ecosistemi.
Ora, non sembrerà ma questo report in realtà è una buona notizia. Sì lo so che dice perlopiù cose non prprio positive, ma vorrei spostare un attimo l’attenzione su come fa a dirle. E il motivo è che da circa due anni l’Ue ha introdotto – ne parlammo anche qui – dei nuovi interessantissimi indicatori per monitorare l’andamento del Green Deal, che tengono conto dei limiti planetari e che sono basati non solo sulla produzione ma anche sul consumo.
Se è vero che il primo passo per il cambiamento è la consapevolezza, posso dire che grazie a questi nuovi indicatori oggi possiamo aver eun report come questo, che analizza in maniera molto puntuale tutte le cose che vanno migliorate in Europa per far ein modo ce le nostre società si muovano all’interno dei limit planetari.
Da questo punto di vista sapere che tante cose non stanno andando per il verso giusto è una buona notizia, perché significa che lo sappiamo e lo sappiamo misurare in maniera inequivocabile. Non è un’opinione politica, è un fatto. Questo vuol dire che faremo subito tutte le cose necessarie? No, non saremmo Sapiens se fossimo così razionali ed efficienti. Ma vuol dire che abbiamo degli strumenti e delle informazioni in più per fare la cosa giusta.
La scorsa settimana c’è stato un incontro molto importante sulla biodiversità a Roma, ne abbiamo parlato anche martedì scorso, con poche aspettative. E invece è arrivato un accordo, che pur con tutti i suoi limti è un fatto a suo modo storico.
Ne abbiamo parlato su ICC venerdì, a poche ore dalla chiusura del summit COP16 bis. In pratica dopo giorni di trattative difficili, la COP16 sulla biodiversità ha finalmente prodotto un accordo storico sui finanziamenti per la tutela degli ecosistemi. La svolta è arrivata nella notte, con un’intesa accolta da un applauso nella sede della FAO a Roma, dopo il fallimento dello scorso anno a Cali, in Colombia.
L’accordo prevede che i Paesi più ricchi mobilitino almeno 30 miliardi di dollari all’anno per sostenere quelli più poveri, contribuendo a un fondo complessivo di 200 miliardi di dollari annuali entro il 2030. È un passo avanti significativo rispetto ai soli 15 miliardi stanziati nel 2022, anche se molte ONG e ambientalisti, tra cui il WWF, avvertono che le risorse restano insufficienti.
Un ruolo cruciale nel compromesso è stato giocato dal blocco BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che ha contribuito a sbloccare l’impasse, dimostrando che il multilateralismo può ancora funzionare nonostante le tensioni globali. Un altro punto chiave del negoziato riguarda il monitoraggio degli impegni, per evitare che le promesse rimangano sulla carta. Tuttavia, restano criticità. Gli Stati Uniti, che non aderiscono alla Convenzione ONU sulla Biodiversità, erano assenti dai negoziati, evidenziando le fragilità della governance globale. Inoltre, i Paesi c.d. sviluppati non stanno ancora rispettando l’impegno di mobilitare 20 miliardi di dollari entro il 2025 per le nazioni in via di sviluppo. Insomma, c’è molta strada da fare ma il fatto che un accordo si sia raggiunto, quando nessuno ci avrebbe scommesso, voglio prenderlo come un buon segnale.
#curdi
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