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15 Aprile 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Noboa, Nguema: le “nuove” facce del potere autoritario in Ecuador e Gabon – 15/4/2025

Noboa rieletto in Ecuador tra repressione e agenda autoritaria, Oligui trionfa in Gabon dopo il golpe. In Turchia crescono le proteste e la repressione, mentre in Sudan si consuma l’ennesima strage silenziosa.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Vi avevo detto, ieri, che ci sarebbero voluti giorni per avere un risultato ufficiale delle elezioni in Ecuador. Mentivo. Per citare Arnold Schwarzenegger. Fatto sta che i risultati sono arrivati prima del previsto e già ieri mattina Daniel Noboa è stato confermato alla presidenza del paese. Il risultato infatti è stato più netto del previsto, possibili brogli a parte. Il ballottaggio lo ha visto prevalere con quasi il 56% dei voti contro la sfidante Luisa González, che si è fermata al 44%. 

González – che è un’avvocata candidata della coalizione di centrosinistra Revolución Ciudadana, molto vicina all’ex presidente Rafael Correa – ha contestato il risultato parlando apertamente di brogli elettorali e ha annunciato l’intenzione di chiedere un riconteggio. Ma in realtà non ha fornito prove concrete a sostegno di questa tesi e sia lei che Noboa avevano ventilato l’ipotesi brogli con l’avvicinarsi del voto. Che suonava un po’ come mettere le mani avanti. Poi magari ci sono stati davvero eh, però diciamo che al momento non ci sono elementi che lo fanno pensare.

Quindi, sorprese a parte, Noboa dovrebbe restare presidente. Noboa che ha 37 anni, quindi è un Presidente giovane, è figlio dell’imprenditore bananiero Álvaro Noboa, uno degli uomini più ricchi e potenti del paese, ed è salito al potere per la prima volta nell’ottobre 2023, diventando il più giovane presidente della storia del paese. 

Le elezioni anticipate che lo portarono al governo erano state convocate dopo le dimissioni caotiche del suo predecessore Guillermo Lasso, finito al centro di una serie di scandali per corruzione e travolto dall’instabilità politica. Lasso, sfiduciato dal Parlamento, era ricorso all’arma estrema della “muerte cruzada”, morte incrociata, un meccanismo previsto dalla Costituzione dell’Ecuador che consente al presidente di sciogliere l’Assemblea Nazionale (il parlamento unicamerale) a patto della sua stessa decadenza e indire elezioni anticipate, sia legislative che presidenziali. 

A quel punto Noboa si era presentato come un outsider pragmatico, quasi apolitico, ma ha rapidamente abbracciato un’agenda dura e autoritaria, molto conservatrice, in particolare sul fronte della sicurezza.

Il suo primo mandato è stato molto breve, soli 17 mesi, perché le elezioni straordinarie avevano il compito di eleggere un Presidente che fosse in grado di finire il mandato, per poi andare nuovamente alle urne. Ma già durante questo primo, breve mandato, ha dichiarato lo stato di emergenza e lanciato il cosiddetto “Plan Fenix”, un piano ispirato apertamente alle politiche ultra-repressive del presidente salvadoregno Nayib Bukele, con l’obiettivo dichiarato di reprimere le bande criminali e i cartelli del narcotraffico. Il piano ha previsto l’invio dell’esercito nelle carceri e nelle strade, la sospensione di alcune garanzie costituzionali, e una serie di operazioni militari in zone considerate “calde”.

Va detto che la situazione in Ecuador era ed è molto molto complessa, a prescindere, e che il paese è stato scosso negli ultimi due anni sia da proteste democratiche che da violenza delle gang. In particolare la violenza è esplosa dopo la fuga dal carcere di Adolfo Macías, alias “Fito”, leader della banda criminale Los Choneros e in contatto con i principali cartelli della droga mondiali. In risposta, il presidente Daniel Noboa ha dichiarato lo stato di “conflitto armato interno”, designando diverse organizzazioni criminali come gruppi terroristici. ​

Durante quei giorni, il paese è stato teatro di numerosi atti di violenza, tra cui attacchi a ospedali, sequestri di poliziotti, rivolte nelle carceri, persino un sequestro in diretta Tv. 

I risultati della guerra al crimine promossa da Noboa, secondo alcuni indicatori, si sono visti: il tasso di omicidi è sceso da 46 a 38 per 100mila abitanti. Ma il prezzo pagato in termini di diritti umani è stato molto alto. Organizzazioni locali e internazionali hanno denunciato casi di torture, detenzioni arbitrarie, condizioni disumane nei penitenziari e un crescente clima di intimidazione verso giornalisti, attivisti e oppositori politici.

Una delle mosse più discusse degli ultimi mesi è stata la firma di un’“alleanza strategica” con Erik Prince, fondatore della controversa compagnia militare privata Blackwater, nota per essere stata coinvolta in gravi violazioni dei diritti umani durante la guerra in Iraq. Noboa ha annunciato personalmente l’accordo sui social, affermando che servirà a rafforzare la lotta contro il narcoterrorismo e la pesca illegale. Ma la mossa ha fatto scattare l’allarme tra attivisti e avvocati per i diritti umani, che temono l’importazione di un modello paramilitare in stile contractor statunitensi, con tutti i rischi che ne conseguono.

Non è un caso isolato. Noboa ha progressivamente rafforzato i legami con l’area trumpiana degli Stati Uniti. Ha partecipato all’insediamento di Donald Trump a gennaio 2025, ha espresso interesse per l’apertura di una base militare statunitense in Ecuador, e ha avviato colloqui per un accordo di libero scambio con Washington. Tutti segnali di un allineamento strategico con l’ultradestra statunitense, che potrebbe influenzare in modo significativo il futuro politico ed economico del paese.

Certo, fa riflettere come poche migliaia di voti facciano la differenza fra una presidente quasi socialista, progressista, che avrebbe impostato riforme legate all’aumento del welfare e un presidente ultraconservatore che invece punta sulla repressione brutale. Non ne voglio fare qui una qiuestione nemmeno di cosa è meglio e cosa peggio, ma solo come la democrazia stia diventando sempre più scegliere fra modelli radicalmente opposti, il che inevitabilmente taglia fuori una metà della popolazione, coi suoi bisogni, le sue idee, i suoi punti di vista, da ogni ruolo nella definizione delle politiche di un paese. È una roba secondo me brutale, anche perché quasi sempre le soluzioni più interessanti nascono dalle ibridazioni, dal margine, dall’incontro fra idee diverse.

Tornando all’analisi del voto, ieri citavamo l’articolo del Post secondo cui il voto indigeno sarebbe stato decisivo per la voittoria. In realtà le prime analisi suggeriscono che le popolazioni native dell’Ecuador abbiano votato in maniera molto sparsa e frammentata e che quell’8% di voti rappresentato appunto dagli indigeni non abbia favorito la candidata di sinistra come ci si sarebbe aspettato.

Adesso nel paese tornano a crescere le tensioni sociali, il malcontento per l’aumento della povertà e delle disuguaglianze, e il timore che le istituzioni democratiche vengano ulteriormente svuotate. Noboa, forte del sostegno popolare legato alla sua immagine di “uomo forte”, ha ora davanti a sé un mandato pieno.

Di elezione in elezione, sabato si è votato anche in Gabon, nelle prime elezioni democratiche dopo il colpo di stato dell’agosto 2023 e il generale Oligui Nguema è stato eletto presidente del Gabon con un risultato bulgaro: il 90,35% dei voti. Lo ha annunciato il ministero dell’Interno del paese, dopo il voto di sabato scorso. Il suo principale rivale, Bilie By Nze, ex primo ministro sotto Ali Bongo, si è fermato poco sopra il 3%. L’affluenza è stata molto alta, attorno al 70%, su una popolazione di circa 2,5 milioni di abitanti.

Oligui Nguema è lo stesso generale che aveva preso il potere con un colpo di stato nell’agosto 2023, ponendo fine a più di 50 anni di dominio della famiglia Bongo. Queste elezioni, dunque, erano formalmente il ritorno a un governo civile. Ma di fatto, racconta un articolo su le Monde, sono state un passaggio molto controllato, dopo due anni in cui il generale ha governato come presidente ad interim, accentrando progressivamente il potere.

Nel frattempo, ha fatto approvare una nuova costituzione tramite referendum, che stabilisce un mandato presidenziale di sette anni rinnovabile una sola volta, ma che secondo diversi analisti è stata ritagliata su misura per lui. Ha anche promosso alcune riforme economiche importanti, come la nazionalizzazione della compagnia petrolifera Assala Energy – che prima era controllata dal fondo d’investimento americano Carlyle – riportandola sotto il controllo statale.

Diversamente da quanto visto in altre ex colonie francesi, Oligui Nguema ha mantenuto buoni rapporti con la Francia. Questo, unito a una narrazione anticorruzione e a qualche mossa di rottura col passato, gli ha permesso di consolidare un’immagine di “rinnovatore”. Ma sotto la superficie restano molte continuità con il regime Bongo: gran parte della nuova élite politica viene proprio da lì, e il potere resta saldamente nelle mani dei militari.

Quindi sì, formalmente il Gabon ha tenuto le sue prime elezioni dopo il golpe. Ma tra la concentrazione del potere, l’assenza di reali contendenti e il controllo mediatico e istituzionale, più che una democrazia è sembrata una consacrazione.

Mentre tutti i giornali raccontano, giustamente, della orribile strage di civili a Sumy, in Ucraina, per via dei bombardamenti russi; mentre alcuni raccontano anche della distruzione dell’ultimo ospedale di gaza City, quasi nessuno racconta un’altra strage che si è consumata nel weekend in uno di quei paesi che ci interessano meno. 

Fa eccezione, per fortuna – e direi come spesso accade – il Post, che racconta che tra venerdì e domenica in Darfur, regione nell’ovest del Sudan, centinaia di persone sono state uccise in vari attacchi delle Rapid Support Forces, un gruppo paramilitare contro cui l’esercito sudanese sta combattendo una cruenta guerra civile. Le Nazioni Unite hanno parlato di oltre 100 civili uccisi, ma secondo altre fonti sarebbero più di 200. Gli attacchi sono stati condotti su diversi campi per sfollati intorno ad Al Fashir.

Domenica le Rapid Support Forces hanno detto di aver preso il controllo del campo di Zamzam, abitato da oltre 500mila persone in condizioni umanitarie pessime. I paramilitari hanno distrutto centinaia di case e ucciso tutte le persone che lavoravano nell’ultimo centro medico rimasto operativo nel campo. Altri 56 civili sono stati uccisi durante vari attacchi a Um Kadadah, una città conquistata dalle Rapid Support Forces mentre si avvicinano ad Al Fashir.

È una guerra civile, quella fra le Rapid Support Forces e l’esercito sudanese, che va avanti da due anni. Dopo una lunga fase di stallo, negli ultimi mesi l’esercito ha ottenuto una serie di vittorie e a fine marzo ha ripreso il controllo della capitale Khartum. Le Rapid Support Forces controllano ancora buona parte del Darfur, dove si stanno concentrando i combattimenti. Anche l’esercito conduce attacchi contro i civili: qualche settimana fa ha bombardato un mercato proprio in Darfur, uccidendo moltissime persone.

In Turchia, le proteste contro l’arresto del sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu – figura di punta dell’opposizione – si stanno trasformando in un movimento diffuso di boicottaggio economico e culturale. Dal 2 aprile, giorno in cui il Partito Popolare Repubblicano (CHP) aveva lanciato l’invito a non effettuare acquisti per denunciare non solo l’arresto, ma anche la repressione successiva, è iniziata una campagna di boicottaggio contro aziende, media e catene considerate vicine al governo di Recep Tayyip Erdogan.

A contribuire al successo dell’iniziativa è stato il coinvolgimento di attori, attrici e personaggi noti della tv e del cinema, che però ora stanno pagando un prezzo alto. Diversi di loro sono stati licenziati dalla televisione pubblica TRT – come Aybuke Pusat, Basak Gumulcinelioglu, Furkan Andic e Boran Kuzum – per aver sostenuto o anche solo condiviso contenuti legati al boicottaggio. L’attore Cem Yigit Uzumoglu, noto per la serie Netflix “L’impero ottomano”, è stato addirittura arrestato, sebbene poi rilasciato con il divieto di espatrio.

Secondo i manifestanti, questa reazione conferma l’uso politico della televisione pubblica, che dovrebbe invece essere indipendente e rappresentare tutta la popolazione. I boicottaggi proseguono anche online e nelle università, mentre le autorità cercano di oscurare la protesta: sono stati bloccati profili social di attori e attivisti, e la lista delle 25 aziende da boicottare è stata rimossa su ordine giudiziario, accompagnata da accuse di incitamento all’odio.

Intanto, lo slogan di una manifestante a Istanbul – “L’unica cosa libera in questo paese è l’inflazione” – riassume bene il clima che si respira. Ma mostra anche come in una Turchia sempre più autoritaria, si stiano moltiplicando gli spazi creativi e nonviolenti di dissenso.

Chiudo mostrandovi un altro tassello del nostro nuovo sito, ovvero le guide al cambiamento. Le guide sono dei veri e propri mini-siti dedicati ciascuno a un tema e che hanno l’obiettivo di guidarvi alla scoperta di darvi gli strumenti per passare dalla teoria alla pratica. oggi ve ne presento una in particolare, quella sulle comunità energetiche, curata dal nostro caporedattore Francesco Bevilacqua. Vi faccio vedere/ ascoltare le parole con cui vi da il benvenuto quando aprite questa guida.

Video/audio disponibile nel video / podcast

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