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27 Gennaio 2023
Podcast / Io non mi rassegno

Il problema della siccità non è scomparso – #661

Non se ne sente parlare quasi per niente, al punto che potremmo pensare che quest’anno non sarà un problema. Sto parlando della siccità e dell’emergenza idrica. Non è così, anzi, la situazione al momento sembra persino peggio dello scorso anno, solo che ancora non sono scattati gli allarmi. E allora parliamone, osservando la situazione dei principali fiumi italiani, ma dando uno sguardo anche al Kenya che al momento è colpito da una siccità drammatica. Parliamo anche di un enorme iceberg che si è staccato dall’Antartide, della legge dell’amministrazione Biden per proteggere la foresta di Tongass, delle proteste in Iran che sembrano essersi spente, della situazione in Perù e dell’udienza della cassazione sul caso Cospito.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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siccità

Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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Di recente ha piovuto, ha fatto anche un po’ di neve, è venuto il freddo, insomma sembra che l’inverno sia finalmente tornato a fare l’inverno. E allora, che diamine c’entra oggi una puntata intitolata alla siccità? C’entra perché in realtà il problema della siccità rimane, e purtroppo alcune avvisaglie mostrano una situazione persino peggiore di quella dell’anno passato. 

Rosita Cipolla su GreenMe descrive così la situazione: “Non sono bastate le piogge e l’arrivo della neve nelle ultime settimane per combattere la piaga della siccità, che continua ad affliggere l’Italia settentrionale. In pieno inverno, l’Italia è ancora alle prese con la crisi idrica. A destare grande preoccupazione è innanzitutto il Piemonte, dove sono diminuiti livelli di tutti i corsi d’acqua. Paradigma di questa grave sofferenza è indubbiamente il Po, che si trova a vivere in un’agonia senza fine ormai da oltre due anni.

L’ex Grande Fiume ha attualmente una portata inferiore a quella dello scorso anno; a Torino, questo deficit si attesta attorno al 50%, ma in altre stazioni di rilevamento supera addirittura l’80%, prolungando tale condizione anche in Lombardia ed Emilia Romagna dove, a Piacenza, registra nuovi minimi storici” fa sapere l‘Osservatorio ANBI (Associazione Nazionale Consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue).

La situazione non è affatto più rosea in Emilia-Romagna. Infatti, il fiume Po a Piacenza, con una portata di 332,38 metri cubi al secondo, è sceso sotto il minimo storico mensile. In grave deficit idrico anche il fiume Trebbia (toccata una portata di 15,48 metri cubi al secondo rispetto alla media storica di mc/s 24,10) ed il torrente Nure, che registra una portata dimezzata rispetto alla media di questo periodo periodo (mc/s 2,78 contro mc/s 5,56)”.

Questo ovviamente ha delle ripercussioni immediate sull’agricoltura e sta destando molta preoccupazione soprattutto in vista della primavera estate. 

Ma quindi, che dobbiamo fare? Alcune soluzioni le suggerisce sempre a GreenMe Massimo Gargano, Direttore Generale di ANBI: un efficientamento delle reti di irrigazione esistente e un aumento della capacità di stoccare acqua, quando arriva, per distribuirla, quando serve. Il riferimento non è solo alla possibilità dei singoli agricoltori di dotarsi di cisterne e sistemi di stoccaggio dell’acqua piovana, ma anche al cosiddetto Piano laghetti, un piano pubblico di costruire 10mila laghetti medio piccoli per trattenere l’acqua. 

Il Presidente del Consorzio di bonifica di Piacenza Luigi Bisi, ha invece raccomandato alle imprese agricole la massima prudenza nella programmazione dei piani colturali, soprattutto se sprovvisti di fonti alternative come pozzi o vasche aziendali.

Il problema, allargando un po’ il campo, non è nemmeno solo del Po. Pure il fiume Adige, il secondo più lungo d’Italia, ristagna a livelli più bassi dell’anno scorso in Veneto, dove è in calo la portata del Bacchiglione, ma a preoccupare è soprattutto la Livenza, con ben -86 centimetri in una settimana. Nonostante la neve caduta, una situazione analoga è quella che riguarda l’Adda, che bagna la Lombardia: non si registrava un livello così basso da anni (compreso il 2017, che fu all’insegna di una pesante siccità).

A soffrire per la siccità sono anche diversi grandi laghi, i cui livelli permangono abbondantemente sotto media, seppur il Verbano superi, per la prima volta dopo molti mesi, lo zero idrometrico. Il volume di acqua del lago di Garda è addirittura dimezzato rispetto allo scorso anno.

Insomma, non per fare allarmismo, ma il rischio è di svegliarci nuovamente a marzo aprile nel panico per la siccità, con la produzione alimentare insufficiente, costretti magari ad aprire la porta a colture importate dalle Americhe o dall’Asia, magari Ogm, perché non abbiamo pianificato in tempo. I giornali di sicuro se ne accorgeranno fra qualche mese. Noi però intanto prepariamoci, soprattutto chi si occupa di agricoltura, ma non solo. E stiamo particolarmente attenti ai nostri consumi di acqua sia diretta che indiretta (o virtuale). 

Poi, a monte, c’è sempre il solito discorso, che per quanto si possa programmare, adattarci a consumare meno acqua, se la crisi climatica continua a battere colpi così pesanti e noi non ci muoviamo immediatamente per contrastarla, smettendo di bruciare qualsiasi cosa, arriverà il punto in cui non riusciremo più ad adattarci, in cui l’acqua sarà effettivamente troppo poca per tutti, anche per coprire i bisogni essenziali. 

La siccità, come potete immaginare, non è un fenomeno italiano. Vi leggo da Nigrizia quello sta succedendo in Kenya: “Più di un milione e mezzo di bambini hanno abbandonato la scuola negli ultimi mesi nel nordest del Kenya, nelle zone colpite dalla siccità che persiste dallo scorso marzo. A denunciarlo è l’ong Save the Children che racconta che le scuole non riescono a fornire agli studenti acqua potabile e cibo, per molti spesso l’unico pasto della giornata.

Il rientro nelle aule questa settimana è segnato da un tasso di assenteismo record, con dozzine di scuole che non riapriranno per mancanza di alunni. Le fasce più colpite sono quelle delle popolazioni che vivono esclusivamente del proprio bestiame, le cui mandrie sono state decimate dalla mancanza di pascoli e di acqua.

Centinaia di famiglie sono costrette a spostarsi alla ricerca di altri mezzi di sostentamento e a migrare sempre più lontano. Con i bambini al seguito. Una situazione che pare destinata a peggiorare ulteriormente, spiega Lucy Tengeye, specialista in educazione di Save the Children. «Ci sarà un numero ancora maggiore di bambini che non torneranno a scuola in questo primo trimestre del 2023, anche perché le famiglie che perdono i mezzi di sussistenza, non sono più in grado di pagare l’istruzione dei propri figli”.

A settembre 2022 l’Unicef parlava di 3,6 milioni di bambini e bambine a rischio di abbandono scolastico a causa della siccità nel Corno d’Africa. Previsioni confermate a dicembre anche da Save the Children. Un fenomeno che in Kenya sta colpendo 4,35 milioni di persone in 23 delle 47 contee e che sta peggiorando in 20 delle 23 contee aride e semi-aride. Le più colpite sono quelle del Kenya centro-settentrionale e orientale: Garissa, Wajir, Narok, West Pokot, Samburu, Turkana, Marsabit e Mandera che registra il maggior numero di abbandoni scolastici (295.470) di bambini tra i 4 e i 17 anni.

L’articolo cita anche altri dati, come sempre se volete approfondire trovate il pezzo completo sotto fonti e articoli. Insomma, anche se la nostra percezione in questo istante non ci manda segnali di allarme, la nostra parte razionale deve sapere che il problema della siccità e dell’emergenza idrica esiste, in Italia e nel mondo. E che – scusate se la metto giù un po’ brutale – se non ce ne occupiamo sarà lui ad occuparsi di noi.

Restando in tema climatico segnalo anche che c’è stata la rottura di un enorme iceberg di 1.550 km2 (più grande di Roma, come metà Valle D’Aosta, per intenderci) che si è staccato dalla Piattaforma di ghiaccio di Brunt in Antartide. Il distacco è stato reso noto qualche giorno fa, il 22 gennaio, dal British Antarctic Survey (BAS), la notizia di ieri, riportata da GreenReport è che la frattura è stata talmente violenta che è stata misurata anche dai sismografi in Argentina, a 400 km di distanza. 

Una buona notizia è invece quella che arriva dagli Stati Uniti. L’amministrazione Biden ha stralciato l’Alaska Roadless Rule e di fatto ha blindato la Tongass National Forest, il polmone verde degli Usa, da possibili deforestazioni e scempi ambientali. 

“L’Alaska Roadless Rule – spiega un articolo su Rinnovabili.it – era una legge approvata sotto la presidenza Trump nell’ottobre del 2020. Era stato un enorme favore – a pochi giorni dalle elezioni presidenziali del 2020 – all’industria mineraria, petrolifera e del legno da parte dell’allora inquilino della Casa Bianca. Quella misura creava un’eccezione per l’Alaska: lo stato non avrebbe più dovuto attenersi a un regolamento del 2001 che bloccava la costruzione di nuove strade e l’approvvigionamento di legname in determinate aree. Tra cui la foresta di Tongass. Aprire alle strade sarebbe stato il primo passo per un successivo sfruttamento delle risorse del sottosuolo, temevano (non senza qualche fondata ragione) attivisti e parte delle comunità locali”.

Con la decisione del dipartimento dell’Agricoltura americano di ieri si completa ufficialmente l’iter burocratico: la foresta di Tongass ritorna a essere del tutto off-limits. 

La foresta di Tongass non è molto conosciuta, ma rappresenta il “polmone del Nord America”. Si trova in Alaska e si estende per 67.500 km2, una superficie quasi pari a quella dell’intera Irlanda. Secondo uno studio è tra le foreste con la più alta densità di carbonio del Pianeta, significa che riesce a sequestrare moltissima CO2 all’atmosfera. Se fosse disboscata, parte di quella CO2 tornerebbe in circolo causando danni enormi alla stabilità climatica.

Inoltre è uno scrigno di biodiversità ed è l’habitat principale o esclusivo di diverse specie vegetali e animali rare. Insomma, il fatto che la sua integrità non sia più a rischio è certamente un’ottima notizia.

Cambiamo argomento e da questioni ambientali ci spostiamo su tematiche più sociali. Torniamo a parlare delle proteste in Iran, che in questi ultimi giorni sembrano essersi affievolite al punto che secondo alcuni possono persino dichiararsi terminate, mentre secondo altri analisti la situazione di quiete potrebbe essere solo temporanea. 

Vi leggo la descrizione che fa della situazione Allegra Wirmer su Caffé Geopolitico: “A quattro mesi dal suo inizio, il movimento di protesta che ha infiammato l’Iran sembra essersi acquietato. Il numero di manifestazioni e di partecipanti si è ridotto, con proteste più sporadiche e perlopiù localizzate nei campus universitari e nel sudest del Paese. Conscio del pericolo di un popolo unito dalla sensazione di non avere nulla da perdere, il regime ha impiegato ogni mezzo a sua disposizione per arginare il movimento “Donna, Pace, Libertà”. 

Le Autorità hanno limitato l’accesso a internet e alle piattaforme social, e attuato una campagna di repressione violenta, arresti, condanne a lunghe pene detentive e persino a morte. Le stime compilate da ONG locali parlano di oltre 500 persone uccise durante le proteste, più di 19.200 arrestate, e almeno 16 giustiziate in seguito a processi farsa. 

La risposta più brutale alle manifestazioni si registra nelle regioni abitate dalle minoranze etniche curde, azere, arabe e baluchi, storicamente discriminate e ostili al regime. Nonostante l’apparente successo della campagna, si tratta di una vittoria temporanea per il regime. Il movimento si sta riorganizzando in gruppi militanti più strutturati e alleati tra di loro. Un esempio significativo sono le associazioni locali giovanili, i cosiddetti youth neighborhood groups, che hanno supportato l’organizzazione delle proteste negli scorsi mesi. 

A dicembre questi gruppi hanno lanciato un’alleanza centralizzata, la United Youth Alliance, il cui manifesto inneggia a una rivoluzione basata su principi democratici e Stato laico. Se saranno in grado di consolidare la loro struttura e supportare dialogo e cooperazione continua tra organizzazioni politiche, sindacati e attivisti in Iran e all’estero, il potenziale di destabilizzazione emanato da questi gruppi potrà rappresentare una minaccia importante per il regime.

La forte risonanza mediatica e il grande numero di manifestazioni di solidarietà hanno reso impossibile per la comunità internazionale ignorare le proteste in Iran. L’Iran è diventato il primo Paese espulso dalla Commissione ONU sullo status delle donne, mentre il Consiglio per i diritti umani ha annunciato una commissione d’inchiesta sulle proteste. Le indagini potrebbero supportare l’apertura di procedimenti contro il regime nei tribunali internazionali. Diversi Governi hanno imposto nuove sanzioni contro la Repubblica Islamica. 

Tuttavia, le azioni intraprese dai Governi e dalla comunità internazionale sono di natura largamente simbolica e finora non sono state in grado di fornire un supporto concreto alle manifestazioni. Al contrario, acuendo l’isolamento internazionale dell’Iran e peggiorandone l’economia, misure come le sanzioni influiscono sulle condizioni di vita della popolazione, e spingono il regime a consolidare i propri legami con attori come la Russia”.

Cosa può succedere adesso? Secondo la giornalista “Il Paese oggi è ancora più fragile e isolato. Più che in altri periodi di sollevazioni popolari, come il Movimento Verde nel 2009 o le proteste del 2019, la Repubblica Islamica ha perso di legittimità ideologica. Inoltre al governo Raisi, eletto senza seria competizione e con un’affluenza alle urne ai minimi storici, manca l’appoggio dei cittadini. Questo è dovuto in gran parte alla percezione che le condizioni nel Paese non facciano che peggiorare, mentre le Autorità sono restie o incapaci di proporre soluzioni ai problemi che affliggono l’Iran. 

Le violenze contro i manifestanti e le esecuzioni di carattere politico spingono i dissidenti alla cautela e a operare in segreto, ma non ne estinguono la rabbia – anzi. La presa di coscienza politica collettiva innescata dalle proteste, soprattutto della generazione più giovane, non può essere annullata con la repressione. Se il regime rifiuta di aprirsi al dialogo con i propri cittadini – nemmeno simbolicamente – e senza che lo scontento popolare possa incanalarsi in un’alternativa politica nel sistema attuale, è probabile che gli eventi degli ultimi mesi non chiuderanno il capitolo delle proteste popolari in Iran”.

Vi ricordo che se volete conoscere più a fondo la situazione dell’Iran potete ascoltarvi, se siete abbonati, la puntata di INMR+ che racconta proprio la nascita e la diffusione delle proteste, spiegandole per bene.

Visto che ci siamo, facciamo anche un rapido aggiornamento sulla situazione in Perù. Stavolta non ve ne parlo io però,ma mi affido alle parole di una persona che conosce il paese molto da vicino perché ci ha lavorato e ci lavora con la sua organizzazione. Sto parlando di Flaviano Bianchini, fondatore di Source International, un’organizzazione che raccoglie dati contro lo sfruttamento di multinazionali minerarie e fornisce alle comunità locali strumenti utili per difendere i propri diritti. 

AUDIO DISPONIBILE NEL PODCAST

Questo audio che contributo che avete sentito è un estratto di un’intervista molto più ampia realizzata da Daniel Tarozzi, il nostro direttore responsabile, che troverete a breve pubblicata su ICC. Intanto se siete curiosi di conoscere quello che fanno Flaviano e SoiurceInternationalvi lascio un altro articolo che pubblicammo su Italia che cambia tempo fa.

In chiusura, e molto brevemente, facciamo un piccolo aggiornamento sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame da circa 90 giorni per protestare contro le misure di carcere duro impostegli dalla giustizia italiana. 

Ne abbiamo parlato anche ieri per cui se non sapete di cosa sto parlando andate a recuperarvi la puntata. La novità è che, come spiega Frank Cimini su Pressenza, la Cassazione ha fissato al 20 aprile prossimo l’udienza in cui sarà discusso il ricorso presentato dalla difesa contro il provvedimento con cui il Tribunale di Sorveglianza aveva confermato l’applicazione del regime di carcere duro previsto dall’articolo 41 bis del regolamento penitenziario. 

Fra tre mesi: si tratta di un termine di tempo lunghissimo per Cospito, che è in sciopero della fame da oltre 90 giorni e ha perso 42 kg. Ha detto chiaramente che è intenzionato a proseguire fino a che le punizioni esemplari nei suoi confronti non saranno revocate, ma prendere in esame il caso fra altri 3 mesi equivale a una sua condanna a morte, a meno che non rinunci allo sciopero.

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