Greenpeace dovrà pagare 660 milioni di dollari a un’azienda fossile – 21/3/2025
Greenpeace sotto attacco, proteste in Israele, guerra in Congo e foreste in Norvegia. Una puntata tra repressione, resistenze e contraddizioni ambientali globali.

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Fonti
#Greenpeace
la Repubblica – Greenpeace condannata a pagare un risarcimento record per la campagna contro l’oleodotto Dakota
la nuova ecologia – Greenpeace rischia la bancarotta. Condanna per 660 milioni di dollari ai danni di una società fossile in Usa
#foreste
GreenMe – La Norvegia è l’unica nazione al mondo ad aver bandito la deforestazione (e sta incoraggiando le altre a farlo)
#Israele-Gaza
il Post – L’esercito israeliano ha bloccato la principale strada che collega il sud e il nord di Gaza
la Repubblica – Israele-Gaza, le news. Casa Bianca: “Trump sostiene totalmente la nuova offensiva”
FanPage – Israele protesta contro Netanyahu: folla blocca l’ingresso a Gerusalemme, in migliaia anche a Tel Aviv
AlJazeera – The true face of Israel’s protest movement
#Congo
Vatican news – RD Congo, il vescovo di Goma: la gente è senza mezzi ma c’è solidarietà
C’è una notizia che più delle altre, ieri, ha scosso il mondo ambientalista. Una giuria del tribunale di Mandan, nel North Dakota, quindi negli Stati Uniti, ha decretato che l’ong ambientalista Greenpeace deve pagare 660 milioni di dollari di danni a Energy Transfer, un’azienda texana che si occupa di trasporto e stoccaggio di combustibili fossili.
660 milioni di dollari sono tantissimi, una cifra mostruosa anche per un’ìassociazione grande come GreenPeace. E sono credo un segnale, un atto intimidatorio verso chiunque volesse fare cose simili.
Comunque, vediamo le cose con ordine. Come racconta il Post, il processo in cui l’ong e l’azienda sono coinvolte riguarda le grosse proteste del 2016 e del 2017 contro il Dakota Access Pipeline, ovvero un oleodotto sotterraneo che serve a portare il petrolio greggio dalla Bakken Formation – una zona al confine tra Montana e North Dakota, nel nord-ovest degli Stati Uniti – fino all’Illinois, attraversando il South Dakota e l’Iowa.
La sua costruzione era stata ampiamente contestata sia dagli abitanti della riserva, duramente contestato da gruppi di nativi americani e attivisti ambientalisti perché, secondo i protestanti, avrebbe inquinato le acque del fiume Missouri, la loro principale fonte idrica, e danneggiato terre sacre per i nativi americani.
In seguito il suo percorso fu deviato, ma nel frattempo alle proteste si erano unite migliaia di persone, tra cui membri di altre tribù, attivisti ambientalisti e celebrità. Ci furono anche scontri violenti con le forze dell’ordine e grossi danni.
Nel 2019 la Energy Transfer, che è una delle aziende del settore più importanti degli Stati Uniti, fece causa a Greenpeace accusandola di aver guidato le proteste, di aver diffuso disinformazione e di aver danneggiato economicamente l’azienda. L’azienda chiedeva 300 milioni di dollari circa.
L’ong ha sostenuto durante tutto il processo di aver avuto un ruolo marginale nelle proteste guidate dalla tribù Sioux di Standing Rock, e ha detto che cause come questa sono pensate per limitare il diritto alla libertà di parola e quello a riunirsi per protestare in maniera pacifica sanciti dal primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti.
Poi è arrivato il verdetto ed è stato… scioccante. perché i giudici hanno più che raddoppiato la richiesta dell’accusa e condannato l’associazione a pagare 660 milioni di euro. È un verdetto molto duro per l’ong, che in precedenza aveva detto – fra l’altro riferendosi alla cifra chiesta inizialmente dalla azienda, che una condanna avrebbe rischiato di farla fallire.
Le prime reazioni sono di sgomento. In un comunicato, Greenpeace ha accusato quelli che ha definito «bulli del settore del petrolio» di voler mettere a tacere le loro proteste. Il mese scorso la ong aveva a sua volta citato in giudizio Energy Transfer in un tribunale olandese per i danni subiti per via delle cause intentatele dall’azienda, citando le norme europee per proteggere media e attivisti dalle intimidazioni.
Ovviamente è una sentenza che farà discutere e che sembra molto un gesto politico, la volontà di mettere un freno, un bavaglio alle proteste per il clima e l’ambiente. Certo è anche un’occasione per Greenpeace per lanciare la più grande campagna di raccolta fondi della storia. Noi vi aggiorneremo, nel caso, mano al portafogli. Sarebbe un segnale fortissimo.
A differenza di oltre un anno fa, quando l’invasione di Gaza da parte di Israele godeva di un certo sostegno da parte della popolazione che era sotto shock per l’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas, questa volta le cose sembrano essere diverse. La nuova aggressione israeliana sta suscitando grandi proteste contro il governo in Israele, e Netanyahu – che di base certamente non è un moderato – si trova nella posizione di andare persino contro il suo elettorato, per seguire le frange più violente ed estremiste del suo governo pur di non farlo cadere.
E questo, appunto, sta sollevando proteste, manifestazioni, scontri. Comunque, ci arriviamo, prima vi do qualche aggiornamento. Ieri abbiamo parlato della violenza degli attacchi israeliani dal punto di vista dei morti causati, sono fra i più violenti di sempre.
Stamattina è iniziata anche una operazione di terra, che si affianca ai continui bombardamenti. L’operazione militare in corso si concentra in particolare sul cosiddetto corridoio Netzarim, che è una fascia di territorio che taglia a metà la striscia di gaza, separandoi Gaza Nord da Gaza Sud e comprende una serie di postazioni militari e zone di controllo create e presidiate dall’esercito israeliano dall’inizio dell’operazione militare nel 2023.
Israele aveva lasciato questo presidio in seguito al cessate il fuoco del 9 febbraio, e ora lo ha rioccupato. L’obiettivo sembra essere quello di creare una sorta di zona cuscinetto tra il nord e il sud della Striscia, separando fisicamente le due aree e limitando i movimenti della popolazione. E infatti uno degli sviluppi più gravi di queste ore è che Israele ha bloccato l’accesso alla strada Salah al Din, la principale via di comunicazione interna da sud a nord della Striscia. Ai palestinesi è stato vietato il transito lungo questa arteria, lasciando come unica via di spostamento quella costiera, già danneggiata e sotto il costante rischio di bombardamenti.
Non è ancora chiaro quale sia l’obiettivo di questa nuova offensiva: se si tratti dell’inizio di una nuova fase della guerra, o se piuttosto Israele stia cercando di forzare Hamas a fare concessioni, magari sul rilascio degli ostaggi. Oggi se ne contano ufficialmente 59 ancora detenuti, ma si ritiene che almeno 35 siano già morti. Certo è che, come dicevamo ieri, questa nuova escalation ha un forte signoificato politico interno per Netanyahu, che la sta usando per ricompattare la propria fragile maggioranza, che si appoggia sui partiti di destra più fondamentalisti, da sempre contrari al cessate il fuoco.
Comunque, come vi dicevo questa cosa sta sollevando un certo malessere dentro Israele. Riporta FanPage che sia mercoledì che ieri migliaia di persone sono scese in piazza a Gerusalemme per protestare contro il governo. I manifestanti hanno bloccato l’ingresso principale della città e marciato verso la residenza del premier, accusandolo di mettere a rischio la sicurezza del Paese e di non fare abbastanza per ottenere il rilascio degli ostaggi ancora detenuti da Hamas.
Le proteste sono state animate anche dal tentativo del governo di rimuovere Ronen Bar, capo dello Shin Bet, l’intelligence interna israeliana, considerato da alcuni un capro espiatorio per le carenze nella sicurezza del Paese.
Durante la manifestazione ci sono stati momenti di tensione e scontri con la polizia, con alcuni arresti. In altre zone della città, i manifestanti si sono seduti lungo le strade, bloccando gli snodi principali.
Quidni ecco il governo Netanyahu è in bilico fra mantenere una fragile coesione interna e non essere travolto dalle proteste. Proteste che, è sempre triste ma utile ricordarlo, non toccano mai se non marginalmente la wquestione palestinese. Cioè, il punto è sempre proteggere ad esemoio gli ostaggi o la democrazia interna ad Israele, che però non tocca mai i diritti della popolazione palestinese che vive in statoi di apartheid dentro israele o viene sterminata a Gaza.
Su questo, devo dire che nell’articolo di FanPage c’è un passaggio che mi ha fatto un po’ ben sperare perché a un certo punto si dice, leggo, che “Shikma Bressler, una delle leader del movimento, nel parlare al pubblico ha accusato Netanyahu di mettere a rischio la vita dei cittadini israeliani e dei palestinesi a Gaza”. Colo che poi quando l’articolo cita direttamente le sue parole, dei palestinesi non c’è traccia. Perché dice: “È tempo di porre fine a questa follia prima che non abbiamo più nessuno da salvare, prima che non ci sia più un Paese”.
E ho fatto anche una rapida ricerca e ho trovato anzi articoli molto critici ad esempio su Al Jazeera sul fatto che questa che è forse la principale leader delle proteste anti Netanyahu, fin dalle proteste contro la riforma sulla Giustizia, quindi da ben prima del 7 ottobre, sia del tutto insensibile alla questione palestinese. Quindi sospetto che sia un caso di Wishful thinking da parte del giornalista di FanPage. Ma mi riprometto di approfondire.
C’è anche un altro conflitto in cui si stanno muovendo cose ultimamente ed è quello nella RD Congo. Andiamo sul manifesto dove Marinella Correggia racconta che Martedì a sorpresa l’emiro del Qatar Tamim al-Thani ha promosso a Doha un incontro fra Félix Tshisekedi, presidente della Repubblica democratica del Congo (Rdc) e Paul Kagame, presidente del Ruanda.
Che è una roba abbastanza grossa e inaspettata perché i due non si incontravano da oltre un anno e sono schierati sui fronti opposti del conflitto.
Faccio un po’ un riassunto. La Repubblica Democratica del Congo è di nuovo nel caos a causa della recrudescenza del conflitto nella regione del Kivu, una zona in cui da anni si intrecciano guerre locali, interessi regionali e mire economiche anche globali. Visto che la regione è ricca di risorse minerarie – coltan, oro, cobalto, litio, rame e tantalio.
Negli ultimi mesi, la situazione è precipitata con una nuova avanzata della milizia armata M23, sostenuta direttamente dal Ruanda, che ha preso il controllo di città strategiche come Goma nel Nord Kivu e Bukavu nel Sud Kivu.
Nei mesi si sono moltiplicate le iniziative diplomatiche ma sul terreno la guerra è sempre proseguita. L’incontro previsto tra il governo congolese e l’M23 è saltato all’ultimo momento, con la milizia che ha ritirato la propria delegazione sostenendo di averlo fatto per via delle sanzioni UE contro i vertici dell’M23 e della nuova offensiva dell’esercito congolese, che avrebbe causato vittime civili.
Dopo l’incontro fra i due leader è stata rilasciata una dichiarazione congiunta che ribadisce l’impegno al cessate il fuoco e alla prosecuzione dei processi di pace di Luanda e Nairobi. Ma per il momento non sembra che questa cosa stia avendo effetti immediati e il quadro resta confuso: mentre alcuni attori regionali (come il Qatar) cercano di mediare, le milizie continuano a guadagnare terreno, le forze di pace dell’ONU (Monusco) si preparano a ritirarsi e le popolazioni civili vivono in condizioni di totale insicurezza, fame, assenza di cure e coprifuoco imposti.
Negli ultimi giorni il presidente della Repubblica Democratica del Congo Tshisekedi (Ci-se-kè-di), ha persino inviato una lettera a Donald Trump proponendo un accordo strategico in cui in cambio dell’assistenza militare americana contro l’M23 offre accesso privilegiato alle sue risorse minerarie.
E tra le molte ombre di questo conflitto, spuntano nuovi e vecchi protagonisti: l’ex presidente Joseph Kabila è stato visto in Uganda in contemporanea con Corneille Nangaa, leader politico dell’Afc. Tutto questo mentre cresce l’idea, rilanciata anche dal Nobel per la pace Denis Mukwege, che sia necessario un intervento internazionale su larga scala, perché il conflitto nel Kivu non è più solo un problema congolese, ma una crisi regionale che riguarda tutta l’Africa centrale.
Oggi è la giornata mondiale delle foreste e proprio pochi giorni fa è arrivata una notizia super interessante. Rebecca Manzi su GreenMe racconta di come la Norvegia sia diventata il primo Paese al mondo a vietare ufficialmente, per legge, la deforestazione nelle proprie attività istituzionali. Niente più contratti pubblici con aziende coinvolte nell’abbattimento indiscriminato di foreste.
Tutto è partito nel 2018, quando il Parlamento norvegese ha approvato il Piano nazionale per la biodiversità. Da lì si è avviato questo percorso legislativo che ha portato all’approvazione di questa legge, la scorsa settimana.
Ora, però, dobbiamo chiederci: che vuol dire vietare la deforestazione nelle attività istituzionali? Perché da come la mettono molti giornali sembra che la Norvegia abbia smesso completamente di deforestare, mentre non è esattamente così. Vietare la deforestazione nelle attività istituzionali significa che lo Stato norvegese – quindi tutte le sue strutture pubbliche, dai ministeri alle agenzie governative – non può più partecipare in alcun modo a pratiche che contribuiscano alla deforestazione, nemmeno indirettamente. Che non è una cosa piccola eh, intendiamoci.
In concreto, vuol dire che:
- non possono essere stipulati contratti pubblici (per esempio per l’acquisto di carta, mobili, cibo, materiali da costruzione, ecc.) con aziende che sono coinvolte in pratiche di deforestazione;
- negli appalti pubblici devono essere rispettati criteri ambientali rigorosi, che escludano prodotti derivati da filiere non sostenibili o che abbiano contribuito alla distruzione di ecosistemi forestali;
- gli investimenti pubblici (diretti o tramite fondi sovrani) devono tenere conto dell’impatto ambientale, e in particolare non devono finire a finanziare aziende legate alla deforestazione.
Quindi non è un divieto “assoluto” a livello nazionale di tagliare alberi in senso lato. Non è nemmeno un divieto di importare prodotti frutto di deforestazione in assoluto. Ma un impegno vincolante che riguarda tutte le attività e decisioni economiche dello Stato.
Ho speso qualche parola in più per spiegare questa cosa ma credo sia importante. Ma comunque resta una mossa significativa, a livello pratico, ma anche a livello simbolico, come esempio verso le aziende, i cittadini e gli altri stati.
La Norvegia è un paese abbastanza contraddittorio sulle politiche ambientali. È uno dei maggiori produttori di petrolio e gas in Europa, e il settore fossile continua a rappresentare una parte enorme della sua economia e delle entrate statali. Al tempo stesso ha alcune delle politiche più avanzate al mondo sulla difesa delle foreste.
Non ne sono sicuro ma è possibile che le due cose siano collegate, in termini di compensazione di CO2 e raggiungimento degli obiettivi climatici. Questo lo dico anche per non finire vittime di facili esterofilie. Ma di nuovo, resta una notizia molto importante.
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