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8 Aprile 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Dazi di Trump: è la fine della globalizzazione? – 8/4/2025

Dazi di Trump, mercati in tilt e guerra in Ucraina usata come leva finanziaria: il mondo rischia di implodere. Intanto Meta AI finisce sotto accusa in Europa e parte una causa storica contro il glifosato.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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dazi di Trump

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Va bene, va bene, parliamone. I dazi. Perché i giornali non parlano d’altro, ed è anche comprensibile viste le ripercussioni che questa storia avrà sul mondo intero a livello economico. E anche perché come spesso accade quando tutti i giornali parlano di una cosa, e ne parlano continuamente, avviene quell’effetto per cui troppe informazioni equivalgono a nessuna informazione, e ci perdiamo.

Quindi, partiamo dal principio. Leggo dalla newsletter del direttore del Post Francesco Costa “Da Costa a Costa” che “La Casa Bianca ha annunciato l’imposizione di un dazio del 10 per cento sulla merce proveniente da quasi ogni paese del mondo, che è entrato in vigore il 5 aprile; se non ci saranno ripensamenti, poi, il 9 aprile – quindi domani – entreranno in vigore dei dazi ulteriori, diversi da paese a paese.

Per esempio, le merci provenienti dall’Unione Europea saranno tassate del 20 per cento, quelle del Giappone del 24 per cento, quelle del Vietnam del 46 per cento, eccetera. A questi si aggiungono i dazi già entrati in vigore su auto, acciaio e alluminio.

Ora cosa sono i dazi? “Il dazio è una tassa pagata dalle aziende che importano merci dall’estero: le aziende statunitensi, insomma, dovranno pagare al loro governo una tassa del 10 per cento sul prezzo delle merci che importeranno dall’Unione Europea, del 24 per cento sulle merci dal Giappone, il 46 per cento dal Vietnam e via dicendo. Trump ha presentato questa iniziativa colossale come «il giorno della liberazione», sostenendo che così finalmente il mondo smetterà di approfittare degli Stati Uniti.”

Ma ci sono un sacco di punti di domanda, di fatti assurdi, e nessuno capisce dove voglia andare a parare Trump. A partire dai criteri con cui sono stati definiti i dazi. Che sono criteri senza senso. Trump li ha spiegati mostrando una tabellina gialla con un sacco di numeri da cui si deduceva che gli Usa subiscono moltissimi più dazi di quelli che impongono. Che non è vero: i conti fatti pare con chatGPT sono tutti sballati e in realtà sono basati sul deficit commerciale, cioé su quanto gli Stati Uniti – essendo un paese iper consumista – importano da un determinato paese più di quanto esportano. Che però ovviamente non è una colpa né una scelta di quel paese stesso.

E poi vabbé ci sono le storie dei dazi imposti da Trump a isole abitate dai solo pinguini e altre robe folcloristiche. 

Però la questione è seria. Trump dice di aver messo i dazi per spingere la produzione interna. Ma uno è che le aziende statunitense non sono in grado di tenere il passo proprio quantitativo con i consumi statunitensi. E che se anche aumentano la produzione i costi saranno molto superiori, perché un conto è produrre delle scarpe negli Usa e un altro in Bangladesh. E infine Trump fa tutto questo con una mano mentre con l’altre rimpatria gente e blocca i flussi migratori, che sono anche manodopera, quindi se le aziende vogliono assumere personale, chi assumono?

Ora, intendiamoci: non è che tutta questa roba sia per forza un male. Costringere gli americani a consumare solo quello che riescono a produrre, quindi molto meno, così come spingere i paesi più poveri a non produrre più per quelli più ricchi a condizioni disumane e senza diritti per chi lavora è anche una roba interessante. Il problema, mi sembra, è Trump promette tutt’altro, esattamente l’opposto, promette crescita economica, aumenti dei consumi, e che quindi le conseguenze di questa discrepanza fra risultati attesi e ciò che realisticamente succederà sono difficili da immaginare.

Cosa succederà nella pratica? Sostanzialmente che le aziende americane vedranno aumentare i costi quindi in parte dovranno tagliare le spese, in parte chiederanno alle aziende straniere di tagliare i prezzi d vendita, in parte aumenteranno i prezzi al consumo generando inflazione. Mentre le aziende del resto del mondo vedranno diminuire la domanda di uno dei loro mercati principali, quello Usa, e per tenerne almeno una parte dovranno diminuire i costi. Quindi dovranno licenziare e così via.

Le borse di tutto il mondo hanno reagito subito all’annuncio con dei crolli clamorosi. L’ultima volta che le borse avevano avuto un crollo paragonabile a quello di questi giorni: quando c’era il mondo in lockdown. Nella giornata di ieri a un certo punto hanno iniziato a diffondersi sui giornali voci su un annuncio di una moratoria di 90 giorni sui dazi, tranne che per la Cina. In pratica – dicevano i giornali – Trump avrebbe deciso di sospendere i dazi appena imposti per 90 giorni. 

I mercati hanno tirato un sospiro di sollievo, hanno rimbalzato, come si dice in gergo, ma poi la Casa Bianca ha smentito che ci fosse questa possibilità sul tavolo e i mercati sono tornati a sprofondare. Ovviamente quella che arriva è l’immagine di un’enorme confusione. 

E in tutto ciò i vari paesi del mondo si stanno attrezzando per rispondere ai dazi con altri dazi. Perché è quello che si fa di solito in economia: rispondere a dazi con altri dazi. 

Come scrive il giornalista Sergio Ferraris sui suoi social, “la Cina ha replicato ai dazi di Trump con altrettanti dazi simmetrici del 34%. Ma c’è di più: la Cina, tanto per fare capire che non scherza ha aggiunto 11 aziende americane alla  lista di “entità inaffidabili”, impedendo loro di fare affari in Cina o con aziende cinesi. E non soddisfatta ha limitato le esportazioni di sette elementi di terre rare che vengono estratti e lavorati quasi esclusivamente in Cina e sono utilizzati praticamente in tutto, dalle auto elettriche alle bombe intelligenti.

L’Ue dal canto suo sta studiando dei contro-dazi tendenzialmente sui servizi (visto che gli Usa esportano più servizi che beni) o una cosiddetta web tax, ovvero una tassa pensata per colpire i profitti delle grandi aziende digitali — come Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft e simili — che operano e generano ricavi in un paese, pur non avendo una sede fisica lì.

Insomma, capite che si ingenera un effetto a catena completamente imprevedibile. C’è chi dice che Trump vuole rompere la globalizzazione. Altri chiosano che finirà per rompere il capitalismo. Persino Elon Musk si è detto contrario ai dazi, accentuando le crepe interne all’amministrazione Trump e pubblicando su X la parabola della matita, il celebre esempio con cui il padre del neoliberismo Milton Friedman spiegava come anche per fare una semplice matita servano decine di aziende a livello globale, e come quindi la connessione globale sia un presupposto fondamentale del neoliberismo. 

E di nuovo, né la possibile fine della globalizzazione e del neoliberismo in sé mi dispiacciano, ma sono processi che andrebbero pianificati e gestiti, perché se il sistema crolla si trascina tutto con sé e nessuno può prevedere cosa succede. Può darsi che faccia anche questo parte del piano? Possibile: in fin dei conti uno degli obiettivi delle teorie accelerazioniste di cui abbiamo a volte parlato è quello di arrivare al collasso sociale e degli stati nazione. Però mi sembrerebbe un piano troppo elaborato e diabolico per un’amministrazione che invece sembra soffrire di cialtronismo acuto.

Tornando più all’analisi di quello che sta già accadendo, un’altra conseguenza di questa situazione, poi, riguarda più direttamente la finanza e la guerra in Ucraina e la mette in luce Alessandro Volpi, che è un docente e saggista di storia e storia dell’economia, su AltrEconomia. Leggo: 

“I dazi di Donald Trump stanno facendo scoppiare la bolla finanziaria che ha tenuto insieme negli ultimi anni l’economia americana e quindi il capitalismo finanziario. Non a caso i titoli maggiormente travolti sono stati quelli delle Big tech, da Apple ad Amazon fino a Invidia.  

Non si tratta di una caduta spinta solo dal fatto che una parte delle produzioni di tali società passano per zone colpite dai dazi, ma della più generale, e profonda, sfiducia che gli Stati Uniti, dominati dai monopoli finanziari, siano in grado di tenere in vita il capitalismo. 

Il paradosso è che la fine del dollaro è vaticinata dall’amministratore delegato di BlackRock, Larry Fink, il signore dei grandi fondi, impegnati ora nel non rimanere schiacciati dallo scoppio della bolla, cercando rifugio nell’Europa del riarmo e negli immaterialissimi Bitcoin, e determinata dal presidente Trump che vorrebbe reindustrializzare gli Stati Uniti per ridurre proprio l’eccessiva dipendenza dall’estero, e dalla sola finanza.  

Le Big Three (i fondi BlackRock, Vanguard e State Street) e Trump stanno costruendo, in modo diametralmente diverso, la fine della centralità americana, aprendo una fase storica per molti versi ignota perché privata, assai probabilmente, della forma economica che ha dominato per qualche secolo l’Occidente.  

In questo contesto risulta evidente che non ci sia davvero alcun interesse a porre fine alla guerra in Ucraina. In un mondo dominato da una finanza ora in affanno questa guerra, senza ulteriori coinvolgimenti, rappresenta una formidabile opportunità. Per la Russia, così come per gli Stati Uniti, il mantenimento in vita di questo conflitto consente di tenere alto il livello dei prezzi dell’energia che per i due Paesi sono una delle fonti principali di introiti in termini di esportazioni. 

È probabile, anzi, che una delle ragioni dell’avvicinamento tra Putin e Trump, al di là di fondamentali considerazioni di natura ideologica e geopolitica, sia proprio il monopolio nelle definizione dei prezzi del gas: la guerra in Ucraina tiene forzatamente alto il prezzo finanziario del gas, oggetto di costanti speculazioni rialziste, e dunque giova ai due grandi detentori di gas, Usa e Russia, che ottengono da questi prezzi forti entrate e la subordinazione dell’Europa, alle prese con costi energetici difficilmente sostenibili.  

Per l’Unione europea la scelta di puntare tutto sul riarmo ha un obiettivo immediatamente finanziario, che è quello di far salire il prezzo dei titoli delle società legate al settore degli armamenti, drenando così capitali dalle Borse statunitensi e stabilendo una sorta di accordo anti-trumpiano con i grandi fondi, magari inseriti ancor di più nelle strutture finanziarie e bancarie europee, favorite da un’eventuale creazione di un mercato unico dei capitali.  

Agli occhi di Cina e di parte dei Brics è molto chiara la natura pressoché interamente finanziaria del riarmo europeo, e dunque la sostanziale inconsistenza del progetto industriale che dovrebbe sostenere tale bolla: cinesi e indiani, alla luce di ciò, non hanno molto da preoccuparsi. Del resto, gli europei, persino i “volenterosi”, sanno bene che un’ulteriore escalation del conflitto ucraino, con l’invio di truppe, rischierebbe di provocare, prima ancora di una vera guerra, la dimostrazione del bluff produttivo della corsa al riarmo, con conseguente esplosione della bolla.

Dunque, in nome dell’esigenza di salvare la finanziarizzazione, della duplice bolla di Wall Street e delle Borse europee, la guerra in Ucraina difficilmente finirà e a farne le spese saranno in primis proprio gli ucraini. Non pare credibile poi che ad accelerare la fine del conflitto possa contribuire la prospettiva di una spartizione delle risorse, attraverso accordi più o meno reali, proprio perché la finanziarizzazione ne sta già consentendo un aumento dei prezzi, di cui beneficiano le società americane, e anche russe, che già le detengono altrove”. 

Forse avrete notato che negli ultimi giorni è comparso un nuovo assistente virtuale dentro le app di Meta – Facebook, Instagram e WhatsApp – senza che nessuno ci chiedesse il permesso. Si chiama Meta AI, ed è alimentato dal modello linguistico Llama 3.2, sviluppato dal gruppo di Zuckerberg. Il problema? È arrivato anche in Europa, dove però il suo funzionamento potrebbe scontrarsi con il Gdpr, il regolamento europeo che tutela i nostri dati personali.

Ne parla Chiara Ricciolini sul Sole 24 Ore. Meta AI non è disinstallabile, è integrato direttamente nelle app, e l’unico modo per evitarlo è smettere di usare quelle piattaforme. Anche se non può leggere le chat private (protette dalla crittografia), l’assistente è pensato per aiutare l’utente a generare testi, traduzioni, email e messaggi. Ma così facendo potrebbe accedere a dati sensibili, anche molto personali.

E qui sorgono i dubbi. Il fatto che sia attivo per default, e che la condivisione dei dati avvenga in modo implicito – cioè, usando la chat si dà automaticamente il consenso – rischia di entrare in contrasto con diversi principi del Gdpr. Primo tra tutti quello del consenso esplicito, necessario soprattutto per i cosiddetti “dati sensibili”, come origine etnica, opinioni politiche o orientamento sessuale.

Inoltre, Meta dichiara che i dati raccolti vengono condivisi con “partner selezionati” per migliorare le risposte dell’AI, ma senza specificare chi siano questi partner. Anche questo, secondo gli esperti, potrebbe violare le norme europee, che prevedono trasparenza e limitazione nella raccolta dei dati.

Insomma, siamo davanti all’ennesima strategia aggressiva di un colosso tech nordamericano che lancia un nuovo strumento, lo impone agli utenti, e solo dopo – eventualmente – si adegua alle regole. A meno che non intervengano prima le autorità.

Sta per cominciare una battaglia legale che potrebbe cambiare radicalmente la gestione dei pesticidi in Europa. Un fronte composto da diverse associazioni ambientaliste, sanitarie e dei consumatori ha deciso di portare la Commissione Europea davanti al Tribunale dell’UE, accusandola di aver rinnovato illegittimamente per altri dieci anni l’autorizzazione all’uso del glifosato, uno degli erbicidi più discussi e utilizzati al mondo.

Come racconta Stefano Baudino su L’Indipendente, il glifosato è stato classificato nel 2015 dall’OMS come “probabilmente cancerogeno” e, secondo studi più recenti, potrebbe essere collegato anche a malattie neurodegenerative come il Parkinson. Le associazioni sostengono che la Commissione abbia violato il principio di precauzione, ignorando dati scientifici indipendenti e privilegiando invece studi finanziati dalle stesse aziende agrochimiche interessate al rinnovo dell’autorizzazione.

Il cuore della contestazione è proprio questo: la scarsa trasparenza e il peso eccessivo dato agli interessi economici, a discapito della salute pubblica e dell’ambiente. Il Global Glyphosate Study, il più ampio mai condotto sull’argomento, ha evidenziato effetti preoccupanti sul microbioma, sulla fertilità, sul sistema endocrino e ha confermato un aumento del rischio di tumori e danni neurologici.

Nonostante le richieste formali di riesame, la Commissione ha confermato la propria decisione nel luglio 2024, spingendo così le associazioni a ricorrere al tribunale. Se il ricorso dovesse essere accolto, si aprirebbe uno scenario nuovo nella regolamentazione dei pesticidi in Europa, mettendo in discussione il ruolo delle istituzioni europee nel tutelare l’interesse collettivo.

Intanto, dall’altra parte dell’Atlantico, le cause contro il glifosato si moltiplicano. Negli Stati Uniti, la multinazionale Bayer – che produce il diserbante Roundup – è stata condannata più volte a risarcire milioni (anzi, miliardi) di dollari a persone che hanno sviluppato il cancro dopo l’esposizione alla sostanza. Un segnale che qualcosa, forse, sta iniziando a cambiare anche sul piano della giustizia.

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