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18 Marzo 2025
Podcast / Io non mi rassegno

La Cina ha un piano per “pompare” i consumi interni – 18/3/2025

Di uova che diventano oro negli USA, piani cinesi per rilanciare i consumi, navi che sversano rifiuti in mare e laghi svizzeri tornati cristallini.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Qualche giorno fa è terminato un meeting politico molto importante del partito comunista cinese e nei giorni successivi la stampa cinese ha iniziato a rilasciare in maniera un po’ dilazionata, quasi omeopatica alcune delle decisioni prese. E ieri è stato annunciato un piano del governo per rimettere in moto i consumi interni. In pratica il governo ha annunciato un nuovo piano piuttosto ambizioso per “stimolare vigorosamente i consumi”, puntando da un lato sull’aumento dei salari e dall’altro sulla riduzione del peso economico che grava sulle famiglie.

Il piano prevede una serie di misure piuttosto variegate, ne parlano alcuni giornali internazionali fra cui il Guardian. Si va dalla promozione di una crescita salariale “ragionevole” al miglioramento del meccanismo di adeguamento del salario minimo. Ma ci sono anche incentivi per l’assistenza all’infanzia – tema particolarmente sentito tra i giovani che spesso rinunciano ad avere figli proprio per i costi troppo alti – e misure per aumentare il potere d’acquisto delle famiglie proprietarie di casa.

Nel pacchetto ci sono anche iniziative più settoriali, come il sostegno ai mercati emergenti legati all’intelligenza artificiale e il turismo invernale legato a neve e ghiaccio. Insomma, l’idea è quella di collegare i consumi interni a una visione più ampia di benessere sociale: supporto alla genitorialità, assistenza agli anziani, miglior equilibrio tra vita e lavoro. Il governo cinese vuole sostanzialmente mettere le persone nelle migliori condizioni per… consumare di più.

Per finanziare tutto questo, Pechino ha deciso di aumentare il deficit di bilancio fino al 4% del PIL, il livello più alto mai registrato nel paese, pari a circa 1,3 trilioni di yuan in spesa aggiuntiva. È prevista anche l’emissione di obbligazioni speciali per sostenere l’acquisto di case da parte delle amministrazioni locali da destinare ad alloggi accessibili.

Tra le misure previste ci sono anche incentivi per la sostituzione di vecchi beni di consumo con beni nuovi e tecnologicamente più avanzati: automobili, elettrodomestici, arredamento, dispositivi digitali. Un ammodernamento che sarà finanziato in parte con obbligazioni governative speciali e che punta a rilanciare l’economia attraverso nuovi cicli di acquisto.

E qui si apre una riflessione importante: perché rilanciare i consumi può sembrare, economicamente parlando, una strategia molto sensata, e anche giusta se lo si fa cercando di promuovere il benessere sociale. Ma dal punto di vista ambientale, è una roba che ormai sappiamo essere del tutto insostenibile. 

Fra l’altro stiamo parlando di un paese con oltre un miliardo e quattrocento milioni di abitanti. Se davvero dovesse aumentare in modo consistente il consumo pro capite – di beni, energia, risorse –, se davvero milioni e milioni di persone dovessero di colpo cambiare automobile, anche se in Cina sono quasi tutte elettriche, ma poco fa, lavatroco, lavastoviglie, asciugatrici e così via le implicazioni ambientali sarebbero enormi. Si amplificherebbero enormemente gli impatti su clima, ecosistemi e risorse naturali, in un momento storico in cui avremmo invece bisogno di ripensare il nostro rapporto con il consumo, più che rilanciarlo.

Ovviamente c’è un legame fra questa cosa e le tensioni con Washington, i dazi, le restrizioni tecnologiche e le barriere all’export. L’idea della leadership cinese è probabilmente di aumentare ancora i consumi interni per compensare almeno in parte il calo della domanda estera e ridurre la dipendenza da mercati esterni che diventano sempre più imprevedibili.

Come al solito tutto è intrecciato e connesso, e un clima internazionale isolazionista, poco collaborativo e piuttosto belligerante è un ostacolo enorme alla necessaria transizione ecologica. 

In genere quando si parla di uova d’oro, gallina dalle uova d’oro e così via si intende una cosa positiva, una scoperta o una risorsa molto fruttosa. I cittadini statunitensi però stanno scoprendo un significato più letterale del termine nelle ultime settimane. 

Negli Stati Uniti infatti sta succedendo una cosa piuttosto curiosa, che però racconta molto bene come funzionano i meccanismi dell’economia e dell’inflazione, anche nei loro aspetti più assurdi. Durante una recente ispezione alla frontiera col Messico, gli agenti della dogana americana hanno fermato un pick-up sospetto: dentro, stipate nei sedili e nella ruota di scorta, hanno trovato 64 libbre di metanfetamina. Ma la cosa che ha davvero allarmato gli agenti – più ancora della droga – sono stati dei vassoi di uova.

Sì, uova. Perché negli Stati Uniti, come racconta Paolo Mastrolilli su Repubblica –  oggi le uova sono diventate un bene quasi di lusso, tanto che la crisi ha innescato un vero e proprio traffico transfrontaliero. Mentre i prezzi salgono alle stelle, molte persone cercano di comprarle in Messico, dove costano meno di due dollari a dozzina, contro i 4-5 dollari (e in certi casi anche di più) negli Stati Uniti.

Il motivo principale di questo rincaro è legato all’epidemia di influenza aviaria, che ha colpito duramente gli allevamenti statunitensi, costringendo a sopprimere milioni di galline ovaiole. Questo ha ridotto drasticamente l’offerta di uova, mentre la domanda è rimasta stabile o in crescita. A ciò si aggiungono l’aumento dei costi di produzione – mangimi, energia, trasporti – e un certo livello di speculazione.

Il risultato è che, secondo i dati del governo USA, il prezzo medio delle uova è aumentato di oltre il 65% nell’ultimo anno. E il Dipartimento dell’Agricoltura prevede un ulteriore incremento del 20% nel 2025.

Nel frattempo, il contrabbando cresce: le cosiddette “intercettazioni di uova” al confine sono aumentate del 36% su scala nazionale, e in alcune aree del Texas del 54%. A San Diego sono addirittura raddoppiate. E non mancano episodi di furto: in Pennsylvania, dei ladri hanno rubato più di 100.000 uova – per un valore di 40.000 dollari – da un camion di una nota azienda agricola.

La crisi sta avendo conseguenze anche sul piano politico: l’amministrazione Trump, che ha fatto dell’inflazione uno dei cavalli di battaglia della propria propaganda, rischia di essere travolta proprio da questa ondata di rincari. Il Dipartimento di Giustizia ha avviato un’indagine per capire se dietro al boom dei prezzi ci siano pratiche anticoncorrenziali, mentre il governo ha annunciato un investimento da un miliardo di dollari per calmierare i prezzi alimentari. Staremo a vedere.

La prima di queste notizie è un caso emblematico. Una notizia apparentemente piccola, che però mi ha aperto uno squarcio di consapevolezza su una cosa molto più grande, che non conoscevo. La notizia in questione l’abbiamo data ieri fra le nostre news ed è questa:

Una nave cisterna italiana ha sversato rifiuti chimici in mare, a poca distanza dalla costa sarda, vicino a Cagliari. Il fatto è successo la scorsa settimana, il 13 marzo, quando questo colosso del mare da 15mila tonnellati che risponde al nome di “Odoardo Amoretti” ha effettuato operazioni di lavaggio delle cisterne in acqua. 

Dalla notizia non si capisce cosa contenessero queste cisterne, ma mi pare di capire petrolio. E quindi la nave che ha fatto, una volta svuotate le cisterne è andata a lavarle in mare, sversando comunque un sacco di robaccia in acqua, peraltro vicino alle coste di Cagliari. 

E io lì per lì mi sono detto, ok, certo, l’hanno multata perché ovviamente questa cosa non si può fare! E invece non è esattamente così. L’hanno multata perché ha effettuato questa operazione troppo vicino a riva, violando le norme internazionali per la prevenzione dell’inquinamento marino.

La segnalazione è arrivata dalle autorità marittime francesi, che hanno avvertito la Guardia Costiera italiana. La nave è stata bloccata nel porto industriale di Sarroch e sottoposta a ispezione: oltre allo sversamento illecito, sono emerse anche altre criticità legate alla sicurezza, che hanno portato al fermo amministrativo del mezzo.

La nave ha ripreso la navigazione solo ieri, diretta verso Oristano, dopo aver sistemato le irregolarità. Ma intanto le autorità stanno valutando ipotesi di reato per inquinamento colposo e violazione delle norme sulla sicurezza.

Ma come vi dicevo, a me ha colpito un altro punto. Che ho scoperto tramite questa news che il lavaggio delle cisterne in mare è consentito ed è disciplinato dalla convenzione MARPOL, che consente queste operazioni a determinate condizioni: che siano almeno oltre le 12 miglia nautiche dalla costa – e in alcuni casi 25 – per evitare danni diretti agli ecosistemi marini più fragili. 

Eppure anche se fatte a largo, queste pratiche hanno comunque un impatto: i residui chimici alterano gli equilibri degli oceani, e gli effetti a lungo termine sulla catena alimentare marina sono ancora poco studiati ma potenzialmente molto gravi.

Un’alternativa c’è: smaltire a terra. Ma costa di più e richiede porti attrezzati, motivo per cui le compagnie fanno pressione per mantenere la possibilità di scaricare in mare. Intanto però a pagarne il prezzo sono l’ambiente e le comunità costiere. Da anni organizzazioni ambientaliste chiedono l’abolizione completa di questi scarichi e l’obbligo di trattare tutto a terra.

Torniamo sul Guardian perché ieri il quotidiano britannico ha pubblicato un bel reportage di Phebe Weston che mi sembra possa fare un po’ da contraltare alla notizia precedente, quella sul lavaggio in mare delle cisterne, e che mostra come in fin dei conti cambiare in meglio le cose sia fattibile e magari anche più semplice di quanto uno si possa immagianre, se c’è la volontà di farlo.

Siamo in Svizzera, paese che oggi è famoso per i suoi laghi limpidi e i suoi fiumi cristallini. Ma non è sempre stato così. Negli anni Sessanta, paradossalmente, aveva alcune delle acque più inquinate d’Europa. Schiume, pesci morti, alghe ovunque: le immagini di allora sono l’opposto della cartolina idilliaca che conosciamo oggi.

La svolta arriva nel 1963, con un’epidemia di tifo a Zermatt che fece scattare l’allarme sanitario. Fu un evento tragico – morirono tre persone, centinaia si ammalarono – ma che spinse il governo a intervenire in modo strutturale. Nel 1971 il trattamento delle acque reflue venne inserito nella legge, e da lì in poi è iniziata una trasformazione profonda.

Oggi il 98% della popolazione svizzera è collegato a impianti di trattamento delle acque reflue (contro il 14% degli anni ’60), e in media ogni cittadino spende circa 174 sterline all’anno per la depurazione, quasi il doppio rispetto a Regno Unito e Galles.

Ma la Svizzera non si è fermata alla depurazione “classica”: è stato il primo paese al mondo ad approvare una legge per rimuovere anche i microinquinanti – quei residui invisibili di antibiotici, antidepressivi, antinfiammatori e altre sostanze chimiche che finiscono nei fiumi e nei laghi, e che non sono facili da individuare e sono più insidiosi, perché l’acqua sembra pulita a occhio nudo.

Per farlo, stanno aggiornando gli impianti di depurazione con sistemi avanzati, come il carbone attivo, che assorbe queste sostanze. L’obiettivo è arrivare a 140 impianti attrezzati entro il 2040. Intanto, molti tecnici di altri paesi – tra cui anche l’Italia – stanno andando a studiare da vicino il “modello svizzero”, che su questo tema è avanti di 10-15 anni rispetto ai vicini.

Ecco, mi pare che questa storia ci dica due cose interessanti. La prima è che, ancora una volta, la prevenzione è più efficace della cura: se oggi la Svizzera gode delle sue “acque blu”, è perché ha scelto di agire in anticipo, non di rincorrere i problemi quando ormai sono esplosi. La seconda è, anche se siamo in ritardo, la qualità può essere migliorata se si affrontano i problemi in maniera strutturale. Insomma, la storia della Svizzera ci ricorda che un’altra strada è possibile – ma richiede visione, coraggio e la volontà di fare investimenti.

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