Ripristinare le aree marine funziona: ecco come le specie tornano a popolare gli oceani
Uno studio ha esaminato centinaia di interventi di recupero degli habitat marini a livello globale: la buona notizia è che il tasso di fallimento è del 9%.

Un recente studio internazionale pubblicato su Nature Communications ha analizzato 764 interventi di ripristino di habitat in aree marine in tutto il mondo. La ricerca ha evidenziato un tasso medio di successo del 64%, con solo il 9% di fallimenti. Gli interventi più efficaci riguardano le barriere coralline e le foreste di mangrovie, mentre le praterie di fanerogame marine hanno registrato tassi di insuccesso più elevati, seguite da paludi salmastre e letti di ostriche. In tutti gli altri casi si registra un successo limitato: le specie sopravvivono ma non aumentano.
Secondo il dott. Roberto Danovaro, direttore del Dipartimento di Scienze della Vita e dell’Ambiente all’Università Politecnica delle Marche e autore principale dello studio, la ricerca ha avuto l’obiettivo di fare il punto sui metodi di restauro degli ecosistemi marini, che vengono praticati da circa trent’anni.
Ci è voluto molto tempo per identificare gli approcci efficaci e quelli inefficaci nel recupero degli ambienti degradati nelle aree marine. Lo studio però ha dimostrato che è possibile favorire il recupero della biodiversità marina anche senza rimuovere subito tutte le fonti di inquinamento. Interventi attivi, come la piantumazione di posidonia anche in ambienti contaminati, si sono rivelati efficaci sin da subito. Questo approccio è più rapido del “ripristino passivo”, che richiede tempi molto lunghi, fino a 100 anni e oltre.
Questi risultati suggeriscono che il ripristino attivo degli ecosistemi marini può accelerare significativamente il recupero della biodiversità, contribuendo all’obiettivo di proteggere e ripristinare almeno il 30% dei mari entro il 2030, come previsto dall’Agenda ONU.
Questo studio mette in luce una elemento fondamentale: la natura possiede una straordinaria capacità di recupero, ma ha bisogno di una spinta, di condizioni che ne favoriscano il risveglio. Più che di “restauro”, forse dovremmo parlare di rigenerazione o di alleanza: non si tratta di ricostruire pezzi di un museo, ma di accompagnare la vita là dove tenta ancora di riaffiorare.
E se è vero che il ripristino attivo funziona anche in ambienti compromessi, questo non può diventare un alibi per continuare a danneggiarli. Favorire la rigenerazione non significa permettersi nuovi margini di distruzione, ma assumersi il compito – urgente e collettivo – di rimuovere gli ostacoli e lasciare spazio alla resilienza della natura.
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