Non è sempre altrove: la violenza lesbobitransfobica esiste e può emergere anche nelle relazioni LBT+
La violenza lesbobitransfobica resta spesso sommersa, anche all’interno della stessa comunità queer. Lìberas inaugura in merito un progetto di ascolto, ricerca e autodeterminazione. A parlarne è Federica Calbini.

Si intitola “Non più solɜ” ed è una ricerca promossa dall’associazione transfemminista Lìberas – con il sostegno della rete europea EL*C – che pone al centro la necessità di riconoscere e contrastare la violenza lesbobitransfobica – discriminazione che colpisce lesbiche, persone bisessuali e persone trans – e la violenza che viene riprodotta nelle relazioni tra persone lesbiche, donne bisessuali, non binarie e trans*. Il punto di partenza è la consapevolezza che il fenomeno ha un’incidenza che troppo spesso resta sommersa, non nominata e riconosciuta; l’arrivo consiste nel dare visibilità al tema, migliorare i servizi di supporto per la comunità LBT* (lesbica, bisessuale, trans) e sensibilizzare al cambiamento.
Il progetto nasce anche dall’urgenza di colmare quindi quello che è ad oggi un vuoto informativo, narrativo e statistico. Una scelta – quella di focalizzarsi sulla specifica tipologia di violenza – animata inoltre dall’esperienza diretta di chi, come operatrice e soggettività LBT*, ha vissuto gli ostacoli del chiedere aiuto – o ancora prima, del riconoscere la violenza – in una società ancora attraversata da stereotipi, stigma e pregiudizi.
Un’urgenza quest’ultima che si è tradotta, nel luglio 2024, nell’apertura a Pirri del primo Centro Antiviolenza in Sardegna esplicitamente rivolto non solo alle donne e loro figlie e figli, ma anche a lesbiche, persone trans e non binarie – ne abbiamo parlato qui – e che si rinnova oggi con una campagna e un questionario volto a indagare che tipo di violenza si verifica fuori e dentro le relazioni tra lesbiche, donne bisessuali, persone trans e non binarie. Perché come sottolinea Federica Calbini, progettista e socia di Lìberas, «il femminismo è intersezionale perché l’oppressione è intersezionale».

Partiamo dalla base ovvero, perché avete sentito l’esigenza di portare avanti questa ricerca?
Lìberas è nata due anni fa dietro volontà di 22 socie – io sono la 23esima – come centro antiviolenza transfemminista. Parte quindi della nostra mission fondante è il contrasto della violenza di genere, non solo però quella rivolta alle donne cis-etero, ovvero donne eterosessuali la cui identità di genere coincide con il genere assegnato alla nascita, ma estesa a tutto il resto della comunità queer, delle soggettività libere e del mondo LBT*. Abbiamo deciso di farlo all’interno della rete EL*C – Eurocentralasian Lesbian* Community, di cui facciamo parte, anche perché nonostante siamo un centro antiviolenza transfemminista, ci sono arrivate pochissime richieste di aiuto da parte di soggettività che non siano donne cis-etero.
Essendo operatrici, attiviste, ma anche noi stesse soggettività LBT*, abbiamo pensato che la necessità fosse quindi quella di concentrarci su questo tema e pensare a un progetto, perché non è che la violenza nelle relazioni intime non ci sia: la questione è che non emerge. L’obiettivo diventa quindi capire le motivazioni per cui resta sommersa e compiere azioni di sensibilizzazione.
Voi infatti parlate di “fenomeno sommerso”, ma si parla in maniera più diretta di violenza lesbobitransfobica anche come “violenza invisibile”. Si tratta effettivamente di un qualcosa di “invisibile” o sono più gli aspetti culturali e sociali i pregiudizi che fanno da agenti invisibilizzanti?
Facendo riferimento al fatto che siamo sia attiviste che soggettività LBT*, sappiamo noi stesse che ci possono essere degli agenti invisibilizzanti, anche perché nella nostra vita ne siamo state colpite. Il primo freno è spesso ad esempio la paura, nel parlare di violenza, di aggiungere stigmatizzazione a una comunità che è una minoranza già discriminata e stigmatizzata. Nel momento in cui io sono una persona della comunità LBT*, ho il governo contro, vengo discriminata e non sono considerata una genitrice adeguata, può non essere facile esporsi. Se poi penso alle problematiche che spesso si incontrano nei luoghi sanitari, soprattutto ad esempio per quanto riguarda le soggettività trans, non ne parliamo neanche.
Questo fa si che ci sia una stigmatizzazione interiorizzata che porta spesso le soggettività LBT* a cercare di mostrarsi al di fuori della comunità come persone assolutamente adeguate, cercando di raggiungere standard che spesso vanno oltre le reali aspettative risposte nella comunità etero. Ci sono ad esempio tante pagine social di famiglie omogenitoriali che tendono sempre a far notare quanto sono perfette, senza nessun tipo di trauma; come se le persone LBT* nel rivestire ruoli genitoriali debbano anelare alla perfezione, oltre il Mulino Bianco. Quando invece secondo me, tra le altre cose, bisognerebbe combattere per il diritto di tutti anche a fare schifo.
Gli strumenti del patriarcato vengono riprodotti anche nella nostra comunità.
Ritornando alla domanda, uno dei motivi per cui il fenomeno della violenza non emerge è legato alla volontà di non aggiungere stigma allo stigma. Altri agenti sono però anche l’omofobia interiorizzata, la paura di non essere creduti, le difficoltà nel riconoscere che quell’accaduto nella relazione intima possa essere un fatto violento. Se non è una relazione cisetero, capita che le persone coinvolte possano dire: “Siamo socializzate donne, siamo sulle stesso piano, questa non è violenza”, quando invece gli strumenti del patriarcato vengono riprodotti anche nella nostra comunità.
Ulteriore esempio di una discriminazione figlia della lesbobitransfobia interiorizzata è il controllo nelle relazioni su come una persona si veste, se troppo femme o mascolina. La sfida è innanzitutto imparare a riconoscere la violenza e farla emergere. La definiamo “sommersa” per questo: sappiamo che è presente, alcune volte è visibile, ma altrettante non la riconosci come tale.
Una interiorizzazione della violenza che riguarda le relazioni ma che si radica anche all’esterno. Quali sono le ripercussioni del pregiudizio?
Faccio un esempio personale che è stato anche uno dei motivi per i quali abbiamo scelto di intraprendere questo progetto. Ho vissuto 7 anni a Berlino, e purtroppo anche io sono stata all’interno di una relazione con una partner violenta: è durata 3 anni e dopo il primo anno questa persona è diventata molto violenta. Col mio giro di amicizie e conoscenze sono sempre stata molto chiara e verbale, parlavo di quello che mi accadeva, io stessa però non ne percepivo la gravità effettiva. Solo adesso, in seguito a vari percorsi, mi rendo conto di cose che avevo addirittura rimosso.
Dopo essere ritornata qua, ho pensato come anche nella woke Berlin – una delle città più avanti anche per quanto riguarda la comunità queer – nessuno mi avesse detto: “Ma hai pensato di contattare un centro anti-violenza?”. Mi sono fatta due domande e avendo avuto la possibilità di attuare questo progetto lo abbiamo realizzato: è anche una mia convinzione nata dall’esperienza che sia necessario lavorare ovunque, nelle grandi capitali come nei posti un più piccoli.

Quanto anche il sovrapporsi di oppressioni sistemiche – come ad esempio essere una donna lesbica con disabilità che può vivere quindi discriminazioni di tipo patriarcale, lesbofobico e abilista – influisce sulla richiesta di aiuto?
Influisce tantissimo sulla mancata denuncia e sul mancato riconoscimento del vissuto, anche in chiave di violenza all’interno di una relazione intima. Questo secondo me parte soprattutto dal victim blaming ovvero dalla colpevolizzazione della vittima, che non avviene solo quando una persona subisce violenza: la colpevolizzazione avviene spesso anche in chiave abilista, razzista ecc, questo perché si considera la persona portatrice dell’elemento discriminante come in qualche modo colpevole del portare quell’elemento. Il femminismo è intersezionale perché l’oppressione è intersezionale, tutto è collegato.
Il questionario oltretutto è rivolto non solo alle soggettività queer, ma anche a persone vicine come amicizie o parenti, le cosiddette alleate. Perché questa scelta?
Noi vogliamo indagare la percezione della violenza all’interno delle relazioni intime LBT* e il nostro target è la comunità LBT*, ma quest’ultima non è un compartimento stagno. Siamo tutte connesse anche con la comunità cisetero, quindi i punti di vista su cui è necessario indagare sono tanti, non solo quello di chi subisce la violenza o di chi la commette, ma anche di chi assiste, delle persone che sentono le confidenze di chi commette o subisce violenza.
Il problema è identificare uno specifico accaduto, ma per individuare la violenza è importante lavorare anche su prevenzione e sensibilizzazione, compresa quella rivolta alle persone che assistono o che sanno. Anche chi ascolta può far notare eventuali forme di abuso e suggerire di contattare un centro antiviolenza. Certo, le risposte al questionario devono sempre essere pensate in ottica LBT*: quando chiediamo se si è assistito a episodi di violenza, la chiave di lettura è quella delle relazioni LBT*.

In conclusione, nell’invito alla compilazione del questionario parlate di voler dare visibilità al fenomeno ma l’intenzione è anche quella di promuovere “un cambiamento positivo nella comunità”. In che modo?
Vogliamo innanzitutto raccogliere dati, perché ci siamo rese conto che ne esistono pochissimi sul campo e quelli che ci sono sono contestualizzati principalmente nel mondo anglosassone. Vogliamo portare avanti una ricerca che sia quindi una pietra miliare da mettere gratuitamente a disposizione di chiunque voglia continuare a costruire conoscenza e consapevolezza sull’argomento.
Ma vogliamo anche che il questionario sia uno strumento di riflessione che parta dal personale e porti poi all’avvio di una conversazione all’interno della comunità. Noi la porteremo avanti e saranno tutti passi che ci condurranno a un cambiamento positivo, quantomeno nella percezione dell’accaduto e nell’identificazione della violenza.
Puoi accedere alla compilazione del questionario anche qua.
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