28 Aprile 2025 | Tempo lettura: 6 minuti

Sa Die: il giorno in cui la Sardegna si ricorda di sé stessa

Dalla penna di Francesca Arcai dell’Assemblea Natzionale Sarda (ANS), una riflessione sul significato profondo di Sa Die de sa Sardigna, la festa che celebra la rivolta del 28 aprile 1794 contro il dominio sabaudo e la giornata della Sardegna.

Autore: Redazione Sardegna che Cambia
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foto di Alessandra Cecchetto
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In breve

Sa Die de sa Sardigna ricorda la rivolta del 28 aprile 1794, quando i sardi cacciarono i dominatori piemontesi:

  • Nel 2025 la festa si rinnova dal basso con musica, incontri, fiaccolate e racconti sparsi in tutta l’Isola
  • Non è solo memoria storica: è resistenza culturale e riaffermazione di identità
  • Sa Die rompe gli stereotipi sulla Sardegna e rivendica il diritto di raccontarsi con le proprie parole
  • Non è un evento nostalgico, ma un momento per guardarsi allo specchio e riprendersi il proprio futuro

Cagliari, una mattina di aprile. L’aria ha quel sapore indefinito di primavera che tarda ad arrivare, complici le piogge che fino a pochi giorni prima scendevano in strada. Una bandiera sarda appesa a un balcone di Stampace si muove appena, quella appesa a Monte Rosello resta ferma. Poco più in là, sul Corso Vittorio Emanuele a Cagliari, qualcuno appende un manifesto: “Aspettando Sa Die”. Il titolo sembra un invito. O forse un avvertimento. Perché Sa Die de sa Sardigna, nella sua essenza più profonda, non è mai arrivata davvero. O forse non è mai andata via.

“È il giorno in cui ci ricordiamo di essere popolo”, dice un uomo al bar, mentre sistema le sedie all’esterno. Lo dice con quella naturalezza che appartiene a chi ha capito che la memoria non è solo cosa di libri, ma di gesti quotidiani. «Prima non se ne parlava nemmeno di Sa Die, era un giorno come un altro, da qualche tempo invece sembra che si senta di più la voglia di mettersi in gioco», conclude salutando.

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Cagliari, Sa Die de sa Sardigna 2024, foto di Marco Piredda e Michele Piras

Prima

Il 28 aprile 1794 a Cagliari il popolo insorse. Sembra una frase da libro di storia e in effetti lo è. Ma se si cammina tra i vicoli che salgono verso Castello, se si ascoltano i passi che riecheggiano sui basoli e se si chiudono gli occhi un attimo, quel giorno torna. In qualche modo lo si immagina ancora: i sardi si ribellarono. Alzarono la testa contro il potere sabaudo. Andarono a prendere uno per uno i funzionari piemontesi. Nara Cixiri!, urlavano – dì “ceci”! – per scoprire chi fosse forestiero e chi no.

Una parola talismano che smascherava la persona che non riusciva a pronunciarlo correttamente – c’era chi si tradiva con la “c” o con la “x”. L’errore aiutava a riconoscere lo straniero, il “continentale”, la figura del potere sabaudo da cacciare. Cixiri era la parola che smascherava quindi il dominio: divideva chi apparteneva da chi occupava. Presto fu detto: in pochi giorni il viceré fu costretto a fuggire e con lui la sua corte. Non ci furono un piano né un esercito. Solo la volontà e la rabbia.

E adesso?

Oggi, 231 anni dopo, quel giorno vive ancora. Sotto altri nomi, con altri volti e qualche volta si ritrova più confuso. E in una Sardegna che spesso si scopre priva di voce, Sa Die ritorna come un’eco necessaria. Un momento in cui qualcosa si raddrizza dentro. Nel 2025, questa eco ha trovato nuove parole, nuove strade.

Assemblea Natzionale Sarda ha acceso i giorni che precedono il 28 con incontri, camminate, musica, fiaccolate, racconti per bambini, DJ set e canti di lotta. Hanno chiamato tutto questo “Aspettando Sa Die”, ma in realtà era un modo per viverla prima, per farla crescere dal basso, per non lasciarla marcire nei palazzi del potere, spesso legati a fondi e chiusi da interessi politici. Una festa diffusa, popolare, scomoda a tratti. Autentica sempre.

È in quel momento che Sa Die diventa pienamente quello che è: non una festa per ricordare, ma una festa per riprendersi

Il percorso

In uno degli eventi, una guida spiega perché tante vie di Cagliari portano ancora il nome dei Savoia. Chi comanda decide cosa ricordare. Noi cerchiamo di ricordare il resto: è questa forse la frase che più di tutte racconta il senso di Sa Die. Non la memoria come celebrazione, ma come esercizio critico. Come lente per leggere il presente. Perché Sa Die non è solo il ricordo di una rivolta. È la domanda, ogni anno, su dove stiamo andando. È la voce che ti chiede: chi decide per te? Cosa resta della tua lingua, della tua cultura, della tua terra? Chi la racconta oggi la Sardegna? Chi la difende? Chi la immagina?

E allora la festa si fa resistenza. Si fa performance dal balcone in Piazza Yenne. Si fa una targa commemorativa sotto l’Arco di Palabanda. Si fa bandiera appesa fuori da casa. Si fa aperitivo in sardo, musica itinerante, artisti in strada. Si fa viso e corpo facendosi popolo. È in quel momento che Sa Die diventa pienamente quello che è: non una festa per ricordare, ma una festa per riprendersi. Un giorno – forse un poco di più – per dire che ci siamo. Che non siamo solo uno scenario da cartolina. Che esistiamo con le nostre contraddizioni, le nostre domande, le nostre ferite aperte. Ma anche con la nostra lingua e la nostra storia.

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Cagliari, Sa Die de sa Sardigna 2024, foto di Marco Piredda e Michele Piras

E quindi?

Perché c’è una fatica che qui si conosce bene ed è quella di doversi sempre giustificare. Di dover spiegare chi siamo, cosa vogliamo, perché parliamo in un certo modo, perché ci ostiniamo a chiamarci popolo. Una fatica che nasce da decenni, secoli, di sguardi esterni che ci hanno cucito addosso immagini precotte: o barbarici o bucolici. O arretrati o esotici. E noi spesso abbiamo finito per crederci.

C’è stato un tempo – e in parte c’è ancora – in cui la Sardegna ha cominciato a raccontarsi con le parole degli altri. Una narrazione fatta di cliché interiorizzati, di immagini patinate, di pastori saggi e donne, di nuraghi e tradizione, di folklore venduto come identità. Che ha trasformato la nostra cultura in prodotto, la nostra lingua in accessorio, la nostra storia in favola. Perché quando ti abituano a vederti solo con gli occhi di chi ti guarda dall’esterno finisci per dimenticare come si guarda da dentro. Ti convinci che valga la pena esistere solo se piaci. 

È la narrazione meridionale nella sua forma più subdola: quella che ti ingabbia in una dicotomia tra arretratezza e autenticità, tra vittimismo e accoglienza. Che ti chiama “regione a statuto speciale” ma ti tratta come figlio minore. Che esalta la tua cucina e ignora la tua voce, che ti viene a cercare quando serve folklore o consenso, ma ti dimentica nei tavoli che contano.

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Cagliari, Sa Die de sa Sardigna 2024, foto di Marco Piredda e Michele Piras

Sa Die rompe questa narrazione. La incrina. La sposta.

Sa Die non celebra un passato inoffensivo. Non si accontenta della nostalgia. Al contrario, riscopre la Sardegna che ha lottato, che ha cacciato un viceré, che ha chiesto giustizia. E nel farlo, rivendica il diritto di raccontarsi da sé. Di parlare con le proprie parole. Di scegliere i propri simboli, i propri percorsi, i propri errori e i propri orizzonti.

E allora sì, festeggiare Sa Die nel 2025 significa anche questo: scardinare l’immagine imposta. Ricostruire un immaginario collettivo che non sia più fatto per piacere a chi guarda, ma per farci guardare finalmente allo specchio. Per dirci che non siamo solo un’isola dimenticata. Non siamo un “altrove”. Siamo un centro. Il nostro.